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I paesi dei Balcani devono aspettare per entrare nell’Unione europea

I delegati del vertice tra Unione Europea e Balcani a Brdo, Slovenia, 6 ottobre 2021. (Luka Dakskobler, Sopa Images/LightRocket/Getty Images)

Il vertice che si è tenuto il 6 ottobre al castello di Brdo, in Slovenia, non è stato facile. L’appuntamento ha riunito i 27 paesi dell’Unione europea e i sei paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) che bussano alla porta dell’Europa unita. Questa porta, però, è attualmente chiusa e non sembra pronta ad aprirsi.

La questione non è nuova. Il dialogo è partito nel 2003 con i paesi nati dal crollo della Jugoslavia e con l’Albania, e avanza con tale lentezza da generare grandi frustrazioni.

Per certi aspetti siamo tornati al problema dell’allargamento dell’Unione per come era stato posto dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, con la democratizzazione dei paesi dell’Europa centrale e orientale. Quel dibattito opponeva i sostenitori dell’allargamento a quelli dell’approfondimento. In altri termini, bisognava stabilire se accettare nuovi stati nell’Unione o rafforzare i legami tra quelli “storici”. Alla fine sono state seguite entrambe le strade (con diverse difficoltà): abbiamo allargato l’Unione e abbiamo introdotto l’euro.

Come negli anni novanta, anche oggi esistono due esigenze contraddittorie. I sostenitori dell’allargamento fanno valere il fatto che i paesi dei Balcani costituiscono una zona a rischio sul continente europeo, in termini di instabilità di governo e di geopolitica, con l’influenza di Cina, Russia o Turchia a pochi passi dal confine dell’Unione. Ignorare questi paesi porterà inevitabilmente conseguenze negative.

I nemici di un allargamento troppo rapido o in alcuni casi di un allargamento di qualsiasi tipo sottolineano che l’Unione a 27 è già incapace di funzionare efficacemente, e che aggiungere cinque o sei paesi nelle strutture attuali significherebbe condannare l’intero apparato all’impotenza. Questa tesi punta sulla trasformazione del funzionamento dell’Unione prima di aprire le porte a nuovi candidati.

Alla fine bisognerà seguire entrambi i percorsi, come accaduto negli anni novanta. Negare qualsiasi prospettiva a questi stati politicamente ed economicamente fragili li spingerà tra le braccia di potenze esterne. Per rendersene conto basta fare caso alle parole pronunciate il 6 ottobre dal primo ministro serbo, che si è vantato degli aiuti forniti dalla Russia.

In occasione del vertice i 27 hanno inserito la parola “allargamento” nella dichiarazione finale, senza però fornire una tabella di marcia. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato: “Farete parte dell’Unione. Bisogna solo capire quando”.

Ma questa apertura non è assolutamente sufficiente, e i 27 hanno messo mano al portafogli per proporre un piano di finanziamento a una regione europea particolarmente vulnerabile.

In ogni caso non si tratta solo di una questione di soldi. Esistono diversi microconflitti da risolvere, tra cui quello tra Serbia e Kosovo che minaccia regolarmente di degenerare in uno scontro armato e quello tra Macedonia del Nord e Bulgaria a proposito delle minoranze. Queste problematiche hanno trovato spazio durante l’incontro.

Il vertice lascia una sensazione di incompiutezza a causa delle linee di frattura tra i 27 e tra l’Ue e gli stati balcanici. Ma la logica politica è imprescindibile: i Balcani, dopo tutto, sono più vicini all’Europa di quanto non lo sia la regione indopacifica, che in questo momento monopolizza i pensieri di molti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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