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Il paradosso della crisi tra la Polonia e l’Unione europea

Bruxelles, Belgio, 21 ottobre 2021. Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki partecipa a un vertice dei leader europei al Consiglio europeo. (Consiglio europeo/Anadolu Agency/Getty Images)

C’è un grande paradosso nella crisi con la Polonia che è finita al centro del dibattito durante il Consiglio europeo del 21 ottobre: si parla tanto della possibilità di una Polexit analoga alla Brexit, ma il parallelo non funziona e tra l’altro ostacola la comprensione di ciò che davvero sta accadendo.

Nel 2016 i britannici hanno votato per lasciare l’Unione europea, una decisione diventata ormai effettiva dopo un’infinità di peripezie. In Polonia lo scenario è diverso: il governo non vuole assolutamente uscire dall’Unione, e se si tenesse un referendum tutti i sondaggi indicano che la maggioranza dei polacchi non sceglierebbe di certo la Polexit.

Il governo polacco, al contrario, vorrebbe cambiare l’Unione dall’interno. La decisione presa il 7 ottobre dal tribunale costituzionale polacco, all’origine della crisi attuale, non spinge la Polonia fuori dell’Ue, ma la allontana dallo spirito e dalle regole comunitarie, senza però forzare un processo di uscita. È una differenza enorme rispetto al referendum del Regno Unito.

La soluzione alla crisi è comunque difficile da trovare. Il settimanale britannico The Economist fa bene a sottolineare che “la Polonia rappresenta un problema per l’Unione europea, precisamente perché non vuole uscire dal club”.

La crisi innescata dalla decisione del tribunale polacco ha una doppia natura: prima di tutto è legata agli attacchi portati contro l’indipendenza della magistratura in Polonia, già al centro di un contenzioso con Bruxelles, e in secondo luogo deriva dalla sentenza che nega la priorità del diritto europeo su quello nazionale.

Alla fine non ci sarà nessuna Polexit, perché i polacchi non la vogliono

In questo modo la Polonia attacca un principio cardine della costruzione europea e soprattutto del mercato unico, che non può funzionare se le regole non sono uguali in tutti i paesi. Altri tribunali simili, come quello tedesco, hanno emesso sentenze discordanti sul tema, ma nessuno ha osato quanto quello polacco.

Questo spiega l’ostilità delle reazioni dei capi di stato e di governo, che il 21 ottobre a Bruxelles si sono mostrati intransigenti rispetto a un pilastro di una costruzione fondata sul diritto che non esisterebbe se ognuno andasse per la sua strada.

L’Unione europea ha una sua drammaturgia che ormai conosciamo da decenni, caratterizzata da interminabili vertici, da quelli per stabilire il budget a quello dell’anno scorso per concordare il piano di rilancio postcovid.

Il 19 ottobre il primo ministro Mateusz Morawiecki si trovava al parlamento europeo, dove ha denunciato il “ricatto” e “l’atteggiamento paternalista” riservato al suo paese. Il 21 ottobre Morawiecki ha cominciato la giornata con un incontro non previsto con il presidente francese Emmanuel Macron e successivamente con altri leader. In questo circolo senza equivalenti al mondo i problemi più spinosi si affrontano con trattative dietro le quinte.

Alla fine non ci sarà nessuna Polexit, perché i polacchi non la vogliono. Al contempo il governo populista di Varsavia non ha i mezzi per cambiare l’Ue dall’interno.

La Polonia, tra l’altro, ha bisogno che questo conflitto si blocchi per incassare l’assegno da 57 miliardi di euro del piano di rilancio. Forse è davvero un “ricatto”, ma anche ignorare le regole comuni non è un comportamento apprezzabile. Il rapporto di forza, stavolta, non appare favorevole alla Polonia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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