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La rielezione di Erdoğan mostra la forza del nazionalismo turco

Sostenitori di Erdoğan a Istanbul, 28 maggio 2023. (Emrah Gurel, Ap/LaPresse)

Il 28 maggio il secondo turno delle elezioni presidenziali in Turchia non ha riservato sorprese: il vantaggio del presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, già emerso al primo turno, è stato confermato.

Il colpo di scena c’era stato invece il 14 maggio, con la smentita dei sondaggi e delle analisi secondo cui Erdoğan, al potere da vent’anni, sarebbe stato penalizzato dalla profonda crisi economica e dalle conseguenze del terremoto dello scorso febbraio. Niente di tutto ciò è accaduto. L’unica novità è che per la prima volta il presidente ha dovuto passare dal secondo turno, ma ha comunque staccato nettamente Kemal Kılıçdaroğlu, candidato dell’opposizione unita.

Dopo la rielezione, Erdoğan non mancherà certo di sventolare la sua vittoria democratica davanti ai critici che lo accusano di essere un autocrate. Ma in realtà in Turchia è in vigore una democrazia che di liberale ha pochissimo. Il presidente, infatti, occupa gli spazi televisivi infinitamente più dei suoi avversari, e durante i suoi comizi sono stati diffusi diversi video ingannevoli (alla fine lo stesso Erdoğan ha dovuto ammetterlo). Inoltre le carceri turche sono piene di prigionieri politici, compreso il leader di un partito d’opposizione. Per non parlare di tutte le promesse demagogiche fatte durante la campagna elettorale, diventate ormai un classico.

Imparare la lezione
Detto tutto questo, è innegabile che Erdoğan abbia vinto e che questa vittoria non gli potrà essere tolta. Gli insegnamenti che possiamo trarre dalle elezioni turche sono molteplici. Il primo è che effettivamente, nelle democrazie illiberali, diventa sempre più difficile battere il partito di governo in modo regolare. Non è impossibile, come dimostra la sconfitta di Bolsonaro in Brasile, ma serve una mobilitazione maggiore rispetto a quella che sarebbe sufficiente in un sistema più aperto. Le opposizioni democratiche, in questi paesi, devono imparare la lezione.

Il secondo insegnamento riguarda il peso della corrente – o meglio, della sensibilità – nazionalista, che trascende le divisioni politiche. Erdoğan e i suoi alleati hanno saputo incarnare benissimo questo approccio.

La spinta nazionalista si è rivelata più forte degli effetti dell’inflazione o della corruzione

Nel corso degli anni il presidente ha conferito alla Turchia una postura internazionale sovradimensionata, anche a rischio di inimicarsi i partner. Erdoğan ha regalato ai turchi motivi di fierezza nazionale (come il successo del drone da combattimento Bayraktar) e ha saputo ravvivare miti nazionali potenti come quello dell’impero ottomano.

Questa spinta nazionalista si è rivelata più forte degli effetti dell’inflazione o della corruzione risultata evidente dai danni del terremoto. Ma il nazionalismo ha contaminato anche il candidato dell’opposizione, che si è abbandonato a un terribile gioco al rilancio promettendo la deportazione dei quasi quattro milioni di siriani che vivono in Turchia.

Il terzo insegnamento è che nei prossimi anni bisognerà ancora fare i conti con Erdoğan, con le sue ambiguità e con la sua imprevedibilità. La presenza del presidente si fa sentire su diversi fronti. La Turchia, membro irrequieto della Nato, è l’unico paese ad aver mantenuto un legame aperto con Vladimir Putin, ed è un attore di primo piano nei conflitti regionali, come quello tra Armenia e Azerbaigian o quello interno alla Libia.

I paesi occidentali speravano di poter trattare con un leader più prevedibile. E invece dovranno convivere con Erdoğan, a cui questa vittoria conferirà un’autonomia senza precedenti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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