×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

I tre fronti di Joe Biden in Medio Oriente

Sanaa, Yemen, 9 novembre 2023. (Mohammed Hamoud, Getty Images)

Per la terza volta nell’ultima settimana l’esercito statunitense ha attaccato alcune strutture di gruppi filo-iraniani in Siria, in risposta ai lanci di missili contro basi americane in Iraq e nel nord-est della Siria. Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas contro Israele, l’esercito degli Stati Uniti ha inoltre intercettato diversi missili lanciati dallo Yemen in direzione dello stato ebraico dai ribelli sciiti huthi.

Questa attività militare merita una riflessione, perché mai prima d’ora, in occasione dei precedenti conflitti nella Striscia di Gaza, gli Stati Uniti avevano ricoperto un ruolo così attivo. Che c’è di diverso questa volta? Qual è l’obiettivo di Washington?

Prima di tutto bisogna ricordare che l’amministrazione Biden è stata molto veloce nell’inviare forze considerevoli nella regione dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, consapevole che non si era trattato di un episodio qualsiasi. Due portaerei, un sottomarino nucleare e forze speciali pronte a intervenire: uno spiegamento simile nel Mediterraneo orientale non si vedeva dalla seconda guerra mondiale, come ha sottolineato sul quotidiano francofono libanese L’Orient-Le-Jour il professore di relazioni internazionali Joseph Maïla.

I dubbi di Biden
L’invasione russa dell’Ucraina e l’attacco di Hamas a Israele hanno spiazzato gli Stati Uniti. Che ora temono di impantanarsi in una nuova guerra e perdere influenza

“È una presenza che ha come obiettivi la difesa e la dissuasione”, ha spiegato Maïla. Difesa dell’alleato israeliano, evidentemente. E dissuasione nei confronti dell’Iran, principale rivale degli Stati Uniti in Medio Oriente ormai da decenni, impegnato nello sviluppo della bomba nucleare e protettore di Hamas e del gruppo armato libanese Hezbollah.

La paura degli Stati Uniti è che l’Iran allarghi il conflitto coinvolgendo i suoi alleati, in particolare aprendo un fronte a nord con Hezbollah, che dispone di una potenza di fuoco di gran lunga superiore ad Hamas. Il messaggio rivolto dagli americani all’Iran è chiaro fin dall’inizio: se ci sarà un’escalation, il territorio iraniano non sarà risparmiato.

Finora questa dissuasione ha funzionato, perché nonostante gli scontri quotidiani lungo la frontiera libanese non c’è stato un allargamento del conflitto. L’obiettivo di Washington, da questo punto di vista, è stato raggiunto.

Tuttavia, questo impegno solleva altri problemi. Gli Stati Uniti, che lo vogliano o meno, sono associati dall’opinione pubblica mondiale alla guerra condotta da Israele nella Striscia di Gaza. La percezione è che approvino il tipo di guerra scelto dallo stato ebraico, le cui conseguenze ci sono ricordate ogni giorno dalla tragedia delle vittime civili.

Joe Biden deve agire su tre fronti contemporaneamente: quello militare, con i rischi che comporta per le sue truppe, evidenziati dagli attacchi subiti in Iraq e Siria. Quello dell’opinione pubblica statunitense, che si divide sempre di più a meno di un anno dalle elezioni presidenziali: i giovani democratici, in particolare, sono molto sensibili alla causa palestinese. E quello del risentimento che cresce a vista d’occhio nel resto del mondo, mentre gli Stati Uniti mettono il veto alle Nazioni Unite alla richiesta di un cessate il fuoco.

Biden è l’unico a poter fare pressione su Israele spingendo il suo governo a fermarsi, e dovrà decidere quando sarà il momento di farlo. Inoltre, dagli Stati Uniti ci si aspetta che gestiscano quello che succederà dopo la guerra, con una soluzione politica. Per il momento, ancora di più rispetto all’Ucraina, gli statunitensi sono in prima linea in un conflitto che pensavano di essersi lasciati alle spalle.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

pubblicità