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L’immobilità dell’Europa di fronte alla catastrofe di Lesbo

Un edificio abbandonato, dove si sono rifugiati alcuni migranti dopo l’incendio che ha distrutto il campo profughi di Moria. Isola di Lesbo, Grecia, 14 settembre 2020. (Alkis Konstantinidis, Reuters/Contrasto)

“Libertà, libertà”, gridano gli sfollati del campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, mentre marciano in massa verso il blocco stradale della polizia, che da giorni impedisce loro di raggiungere il centro abitato di Mitilene. Dormono sul ciglio della strada, in ripari di fortuna che si sono costruiti con coperte e canne di bambù, il caldo è torrido e molti cominciano a presentare sintomi di disidratazione e di denutrizione.

Da quando il campo di Moria è bruciato, l’8 settembre, più di 12mila persone tra cui quattromila minori sono rimaste senza un tetto e si sono accampate negli uliveti, nel parcheggio di un supermercato e lungo la strada principale che conduce al porto di Mitilene. Non hanno accesso ai servizi sanitari, al cibo e all’acqua. Ma soprattutto temono per il loro futuro. Il 12 settembre il governo greco ha aperto una tendopoli temporanea all’interno di una ex base militare davanti al mare e sta trasferendo gli sfollati in questo nuovo campo, che a differenza di Moria sarà chiuso da una recinzione. Chi entrerà, non potrà uscirne.

Per questo i profughi protestano, vogliono essere lasciati liberi di andarsene. “Vogliamo pace e libertà”, è scritto in un cartello. “Moria uccide”, è scritto in un altro. “Non siamo contenti delle disposizioni prese dal governo greco, non siamo animali, siamo esseri umani”, dice Daniel, un richiedente asilo della Repubblica Democratica del Congo durante la manifestazione.

“Moria era una prigione, non c’era un ospedale, non ci davano cure mediche. Dicono che c’è il coronavirus, le persone stanno soffrendo, stanno morendo. Tutti i soldi che hanno preso dall’Europa non li stanno usando per le persone”, protesta Brown Malkon, un richiedente asilo nigeriano. “Abbiamo vissuto un anno nel campo, in una situazione molto difficile. Ora dicono che ci vogliono mettere in un altro: io sono incinta, mia madre è malata. Sono giorni che non vediamo un medico. Se non riescono a occuparsi di noi perché non ci lasciano liberi di andare a chiedere asilo in altri paesi?”, chiede Samira Rajabzadeh, una ragazza afgana di 24 anni, originaria di Herat, che tiene in braccio un bambino di dieci mesi ed è incinta del suo secondogenito. “Dopo l’incendio, ci hanno lasciato senza cibo, senza acqua, senza cure mediche”, continua la donna, seduta sul ciglio della strada vicino al supermercato, in un riparo costruito dalla sua famiglia con qualche coperta salvata dall’incendio.

Chi non accetterà di entrare nella nuova tendopoli non potrà proseguire con la sua richiesta di asilo

Nonostante le proteste dei richiedenti asilo e degli stessi abitanti di Lesbo, che si oppongono alla costruzione di un nuovo campo profughi, il ministro greco dell’immigrazione Notis Mitarachi ha chiarito che nessun profugo e richiedente asilo lascerà l’isola e saranno tutti trasferiti in una nuova tendopoli: ottocento tende, più otto grandi tendoni. Il nuovo campo ha una capienza di tremila posti, ma secondo Mitarachi arriverà gradualmente a contenere tutti quelli che sono rimasti senza alloggio. “I migranti saranno sottoposti a un test rapido all’ingresso e quelli che risulteranno positivi al sars-cov-2 saranno isolati in una tenda all’interno del campo”, ha spiegato il segretario generale del ministero dell’immigrazione Manos Logothetis il 12 settembre. Tuttavia solo mille persone hanno accettato di entrare nella nuova struttura volontariamente, la maggior parte dei profughi teme che il nuovo campo sia una prigione.

Quando la voce della tendopoli ha cominciato a circolare, i profughi hanno organizzato sit-in e proteste. “Non vogliamo un altro campo, non vogliamo un’altra Moria”, hanno scritto sui cartelli che hanno ricavato da alcuni cartoni. Ma il 12 settembre le forze dell’ordine sono intervenute lanciando gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, ferendo anche donne e bambini. Il giorno successivo il governo ha diffuso dei volantini in cui ha fatto sapere che chi non accetterà di entrare nella nuova tendopoli non potrà proseguire con la sua richiesta di asilo e non sarà trasferito dall’isola.

Un nuovo trauma
“Ricreare una seconda Moria non è una soluzione per Lesbo. L’Europa dovrebbe lavorare a un sistema rapido e decente di elaborazione delle richieste d’asilo e un sistema di accoglienza che offra condizioni umane per il tempo in cui le persone sono in attesa di una risposta”, ha commentato Marco Sandrone, coordinatore dei progetti di Medici senza frontiere a Lesbo. Nell’incendio le persone hanno subìto un trauma che si aggiunge a quelli già vissuti in passato, nel paese di origine e durante il viaggio. “Le persone hanno avuto il timore di essere trasformate in cenere e ora non sanno che ne sarà di loro. Con il paradosso di rimpiangere le condizioni squallide in cui vivevano ed essere ridotte a vivere per strada”, continua Sandrone.

Medici senza frontiere ha allestito una clinica temporanea in un capannone davanti al supermercato in cui gli sfollati si sono accampati. “Vediamo le persone arrivare con un trauma profondo, ci portano dei bambini disidratati. Vorremmo rintracciare tutti i pazienti che seguivamo prima, ma facciamo fatica perché hanno i telefoni scarichi. Tra i profughi ci sono malati di diabete, malati psichiatrici, persone che hanno malattie croniche e hanno perso i medicinali”, continua.

Anche per Asterios Kanavos, un avvocato dell’ong Refugee support aegean, la costruzione del nuovo campo “è una punizione collettiva”. E si tratta di una soluzione tutt’altro che temporanea, perché il governo greco ha affittato il campo di Kara Tepe per cinque anni. Per l’avvocato l’uso dello stato di emergenza da parte del governo è sproporzionato rispetto alla situazione ed è una violazione di diversi diritti umani. Infatti non solo i richiedenti asilo, ma tutti i rifugiati, anche quelli che hanno già ottenuto lo status, non possono lasciare l’isola. Inoltre la mancanza di assistenza degli sfollati da parte del governo greco rappresenta un’altra violazione, soprattutto per la popolazione più vulnerabile.

Per Kanavos, tuttavia, la decisione di Atene è in continuità con le politiche adottate finora dal governo greco. A gennaio è entrata in vigore una nuova legge sull’asilo che ha reso molto difficile accedere alla protezione. A marzo il governo greco aveva addirittura sospeso per un mese la possibilità di chiedere asilo, in seguito alla minaccia della Turchia di aprire le frontiere con la Grecia. Numerose inchieste hanno dimostrato che da marzo i greci respingono sistematicamente le imbarcazioni di migranti che provano a solcare l’Egeo per raggiungere le isole greche dalla costa turca. Questa prassi, contraria al diritto internazionale, avrebbe fatto diminuire gli arrivi, già notevolmente ridotti a partire dall’accordo con la Turchia nel marzo del 2016.

Ma in questa vicenda la grande assente è stata l’Unione europea: si è limitata a proporre lo stanziamento di altri fondi per costruire un nuovo centro di prima accoglienza a Lesbo, questa volta gestito direttamente dai funzionari europei. Francia e Germania hanno proposto di accogliere i 400 minori non accompagnati che sono stati portati via dall’isola dopo l’incendio (il 15 settembre il governo tedesco ha annunciato che accoglierà 1.553 profughi provenienti dagli hotspot della Grecia). Entro il 23 settembre l’Unione europea dovrebbe adottare un nuovo Patto europeo sull’immigrazione, di cui si discute da mesi, che dovrebbe prevedere un ricollocamento obbligatorio per i profughi arrivati in Italia e in Grecia. Ma l’indifferenza con cui molti stati hanno reagito alla drammatica situazione di Lesbo non fa presagire che i 27 paesi europei cambieranno atteggiamento sull’immigrazione e troveranno un accordo sul documento, proposto dalla Commissione.

Da sapere
Cos’è il Patto europeo sull’immigrazione

Entro il 23 settembre la Commissione europea annuncerà un nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, come è già avvenuto nel 2015 per l’Agenda europea sulla migrazione. Si tratta di un documento programmatico con il quale sono esposte le linee guida che orienteranno il lavoro della Commissione in tema di migrazione nei prossimi cinque anni. “Pur non essendo un documento avente forza di legge, quindi non determinando cambiamenti normativi, è di primaria importanza nell’introdurre visioni, concetti e approcci per gli anni a venire”, spiega Adelaide Massimi dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che insieme ad altre organizzazioni ha inviato alla Commissione dei suggerimenti.

Non sono ancora girate le bozze del nuovo patto, tuttavia dalle indiscrezioni che sono trapelate si può desumere che l’intervento riguarderà: l’introduzione di meccanismi obbligatori di redistribuzione dei richiedenti asilo; l’introduzione di procedure obbligatorie di ammissibilità delle richieste di asilo alla frontiera; l’introduzione di procedure accelerate obbligatorie alla frontiera per l’analisi delle domande di asilo; il rafforzamento del ruolo di Frontex nella gestione dei rimpatri; l’aumento della collaborazione con i paesi della sponda sud del Mediterraneo e con la Turchia per la gestione congiunta dei flussi; la riforma del regolamento di Dublino o altre strategie per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari”; l’aumento degli accordi di rimpatrio; l’aumento dei canali di ingresso regolari; il coordinamento centralizzato delle operazioni di ricerca e soccorso da parte delle centrali operative (Maritime rescue coordination centre) in piena attuazione della normativa europea per fornire un adeguato aiuto alle persone in pericolo e per individuare luoghi sicuri disponibili per lo sbarco.

Per Massimi, “le comunicazioni e le indiscrezioni emerse finora sembrano prospettare un patto pieno di criticità. Sembrerebbe infatti fondato sulla medesima logica securitaria che ha orientato le politiche della precedente Commissione e che ha provocato una rapida e drammatica contrazione dei diritti dei cittadini stranieri”.


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