24 maggio 2017 18:12

Il lettore avrà forse l’impressione di un critico incontentabile. Non è così. Anche Sofia Coppola con il suo The beguiled, presentato in concorso, delude. Basta vedere l’accoglienza che molti critici francesi hanno riservato al film per cogliere la delusione. Che si tratti della rivista simbolo della cinefilia, i Cahiers du cinéma, o del quotidiano più importante di Francia, Le Monde, i voti sono severi. Citiamo la critica francese perché è forse quella che sente maggiormente l’atmosfera del più importante festival di cinema d’autore al livello internazionale, per giunta nell’anno del suo settantesimo anniversario. E quindi le stroncature o comunque i giudizi tiepidi non sono mai distribuiti alla leggera. La critica internazionale, nel suo complesso, è invece più morbida.

L’opinione che ci siamo fatti, dopo lo straordinario concorso dell’anno scorso dove si diede grande spazio a nuovi autori, è che per la settantesima edizione si sia cercato di perseguire la strada di autori nel complesso anagraficamente più giovani, come il greco Lanthimos o Coppola, che però fossero al tempo stesso nomi di richiamo, a scapito del risultato finale. Siamo però felici di apprendere che 120 battements par minute di Robin Campillo, tra i pochi film del concorso ad averci finora convinto, sarà distribuito in Italia da Teodora film.

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Per tornare a The beguiled, remake del capolavoro di Don Siegel La notte brava del soldato Jonathan con Clint Eastwood e tratto dal romanzo di Thomas P. Cullinan, Sofia Coppola non riesce a offrire una rielaborazione forte e un punto di vista nuovo, magari più femminile, di questo splendido racconto circolare sulla repressione delle pulsioni naturali e dei sentimenti indotti da convenzioni ipocrite e castranti che finiscono invece per veicolare forme di perversione, spingendo le donne (in primis le bambine, simbolo di innocenza), all’isteria, alla perfidia o addirittura al crimine.

All’epoca, era il 1971, il film di Siegel non ebbe successo di pubblico, anche se forse si tratta dell’opera più bella, fuori dagli schemi e matura del regista di Chicago. Oggi è un classico e rivela qualcosa di molto moderno e in avanti sui tempi, non solo nella regia o nel montaggio, ma anche nell’uso della forma estetica, nella fotografia, nell’esprimere la sensualità repressa di una comunità richiusa su se stessa. Nello specifico si tratta di un collegio femminile della Virginia ospitato in una bella villa in stile coloniale durante gli ultimi fuochi della guerra di secessione, ma più in generale estensibile oltre che al mondo puritano a qualsiasi comunità ripiegata su morali costrittive e dittatoriali.

Rimpianto d’autore
Tutte le ragazze del collegio finiscono per desiderare il bel soldato nordista ferito e raccolto dalla più piccola di loro nel bosco dove era andata in cerca di funghi. E proprio con i funghi le belle donzelle del sud schiavista si libereranno dell’attraente soldato, trasformatosi in lupo cattivo. Queste femmine seduttrici – da fiaba o da horror, ninfe o belle arpie, metafora quindi del bene e del male letti come una cosa sola, o della reversibilità continua dell’uno nell’altro – credendo di liberarsi torneranno invece masochisticamente alla loro prigionia, alla loro piccola sicurezza autocastrante, al loro limbo infernale di esseri eterodiretti da una sovrastante e schiacciante morale, dove le prede mutate in predatrici divorano anche la loro libertà.

Da tutto questo Sofia Coppola, che pure fa parte di una famiglia di cinefili, ha tirato fuori un film che non convince. The beguiled è piacevole da vedere, Colin Farrell tiene abbastanza il confronto con Eastwood, anche se l’equilibrio miracoloso tra gentilezza, sensualità dolce e virilità selvaggia di quest’ultimo crediamo sia praticante impossibile da ritrovare. Bene anche Nicole Kidman e Kirsten Dunst. Ma Coppola, malgrado alcune splendide immagini che fanno pensare a dipinti pre-raffaelliti, toglie i flashback onirici, toglie le situazioni conturbanti, toglie la fotografia sensuale e quasi appiccicosa del film di Siegel per sostituirla con una fotografia algida, forse più esplicitamente tenebrosa. Potrebbe essere una buona idea, fatto salvo che la regista non ne fa uno strumento per un reale ampliamento delle implicazioni simboliche del racconto. E resta allora il rimpianto di un’occasione mancata, di una rilettura che poteva essere grande, ma non lo è.

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