04 ottobre 2015 13:35

C’è un’idea fasulla e balzana che ci ha propinato negli ultimi anni chi discute di giornalismo: che l’informazione dev’essere veloce, assertiva, minimale. Battute fulminanti, live tweet, pezzi di poche righe, aggiornamenti di Google news.

In tre giorni di festival qui a Ferrara il giornalismo che si racconta funziona esattamente all’opposto. Ieri Christian Caujoulle parlava di come ci vogliano spesso anni per un lavoro di fotogiornalismo serio; Stefano Liberti e Jacopo Ottaviani rivendicano per il lavoro d’inchiesta tempi di mesi: la preparazione, il lavoro sul campo, la scrittura, l’editing; e all’incontro su chi comanda il gruppo Stato islamico le posizioni diverse mettevano in luce un’idea di dialettica, un metodo del dubbio che è la parte centrale della ricerca giornalistica.

In fondo, per questo credo che da anni questo festival sia così seguito, perché ribadisce ogni volta che per formare le idee ci vuole un tempo lungo. E che il giornalismo è fatto sì da persone che sanno scattare la foto in un lampo o scrivere un pezzo in pochi minuti, ma che queste stesse persone hanno bisogno di molto tempo per studiare e di molto tempo per curare le cose che hanno scritto.

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