01 gennaio 2016 21:22

Mi capita di guardare la Rai pochissime volte l’anno (ogni tanto guardo qualche programma in streaming), non ho un televisore a casa – non è snobismo, è praticità – e una di queste pochissime volte che mi capita è l’ultimo dell’anno: per la semplice ovvia motivazione di avere un orologio da guardare insieme per il conto alla rovescia e lo spumante da stappare a mezzanotte. Il servizio pubblico ridotto al suo grado zero: un segnale orario per gruppi di persone. A casa, al lavoro, in ospedale, in carcere.

E ogni volta lo spettacolo che viene allestito intorno a questo rito di una banalità assoluta si sviluppa secondo un’estetica che – con l’alibi meschino del nazionalpopolare – mette insieme il peggio di ogni idea di spettacolo, di condivisione gioiosa. Cantanti in playback, inquadrature sguaiate, luci sballate, tempi scenici completamente saltati, conduttori inadeguati, monologhi comici di terz’ordine, scenografie da festa di paese di cinquant’anni fa, coreografie imbarazzanti, donne usate come tappezzeria…

Quest’anno – nel diluvio di sciatteria – si è anche annunciata la mezzanotte un minuto prima e nello scroll degli sms in sovraimpressione c’era perfino una bestemmia. Ma non erano nemmeno questi i segnali più avvilenti, quanto l’idea che questa minima festa italiana si svolgesse a Matera – città simbolo della riscossa del sud, capitale europea 2019 per la cultura – e questa Matera era ridotta alla caricatura di se stessa: una sagra disorganizzata. Il provincialismo che cerca una legittimazione nell’orgoglio pro loco, l’esibizionismo del campanilismo con l’ammiccamento a una tradizione strapaesana, la totale mancanza di un’idea di cosa vuol dire uno show ma anche di cosa vuol dire un’identità nazionale, un rito collettivo, un servizio pubblico.

Sulla stessa Rai poche ore prima il presidente della repubblica Sergio Mattarella pronunciava il suo primo discorso di capodanno non dal Quirinale, ma – non si capisce perché – dal suo appartamento. Dietro di lui, in bella vista, il suo presepe. Come giustamente ha fatto notare Tomaso Montanari sul suo blog: “Perché un cittadino italiano musulmano, buddista, ebreo o semplicemente ateo, accendendo il televisore per ascoltare il visibile rappresentante dell’unità nazionale, deve vedere il presepe cristiano, accanto alle bandiere?”.

Si può essere cristiani ma anche consapevoli dell’importanza della laicità dello stato, ma soprattutto ci si può rendere conto che dietro questa disattenzione si nasconde una mancanza molto più rilevante. L’idea che – anche nelle istituzioni – l’identità italiana non si formi attraverso il riconoscimento in una cultura laica, repubblicana, moderna, solidale, semplicemente festosa e che si sente parte di una comunità; ma in delle tradizioni che rappresentano i sentimenti più retrivi, l’estetica più grossolana, il cripto-razzismo, il provincialismo, il sessismo, il clericalismo implicito, tutto ciò che, da italiani, speravamo di non dover condividere anche quest’anno nuovo.

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