24 aprile 2016 13:13

Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo.

Nell’ultimo decennio c’era sempre almeno lo strascico di qualche polemica: gli ultimi acciaccati neofascisti che avevano un rigurgito di esibita insofferenza, o un Silvio Berlusconi presidente del consiglio che non partecipava alle celebrazioni ufficiali e proponeva di chiamarla festa della libertà.

L’anno scorso, forse con l’urgenza dell’anniversario a cifra tonda, il governo aveva lanciato una discutibilissima campagna con l’hashtag #ilcoraggiodi che sovrapponeva gli eventi della lotta partigiana con le imprese di Alex Zanardi o Samantha Cristoforetti in un guazzabuglio ideologico quasi grottesco. Quest’anno praticamente nulla: se cercate 25 aprile su Google, sui social network si parla molto del rischio meteo che rovinerà il ponte a un sacco di italiani.

La preoccupazione di un piccolo e bellissimo libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia (riedito l’anno scorso) è una profezia più che avverata:

È ulteriormente aumentato il disinteresse intorno alla Resistenza, un fuggi-fuggi impressionante, inimmaginabile una decina di anni fa, per quanto già fosse chiaro allora quanta indifferenza si nascondesse dietro l’indignazione. I giovani hanno continuato a darsela a gambe, gli storici pure (poche, ancorché lodevoli le eccezioni). La maggior parte degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.

Allarmati dalle forme più o meno striscianti di strumentalizzazione (la famosa affermazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, datata 1996 e tutto il fumus che ne è scaturito) non ci si è accorti di come la crisi della democrazia stesse trascinando con sé anche i dibattiti intorno ai temi ideali.

La crisi dell’antifascismo di cui scriveva Sergio Luzzatto in un libro del 2004 era una crisi ancora intellettuale; lo storico riconosceva nell’aria i segnali sempre più scuri: un forte vento di revisionismo e la nuvola plumbea della cosiddetta memoria condivisa. Oggi questo dibattito storico si è rivelato per quel che era: il prodromo di una rimozione, la tempesta perfetta tutta in un bicchier d’acqua molto torbida, la condizione per una neutralizzazione così efficace da non essere nemmeno una mancanza avvertita.

Il rischio della morte dei testimoni diretti che David Bidussa evidenziava per le vittime dell’Olocausto in Dopo l’ultimo testimone (libro del 2009) è una catastrofe avvenuta senza troppo clamore per quello che riguarda i partigiani.

Chi parla più di resistenza, liberazione, antifascismo? Marzabotto o Stazzema sono nomi che alla maggior parte delle persone non evoca davvero più nulla, ma si può dire quasi lo stesso persino delle Fosse Ardeatine o di Cefalonia.

Del resto molto pochi sembrano sentire su di sé il compito di riflettere sulla memoria dell’evento centrale per la costruzione della nostra identità italiana e di elaborarne ogni volta la storia. Da quei “ragazzi di Salò” in poi buona parte della fiction che la Rai ha prodotto sugli anni dal 1943 al 1945 ha ridotto quella che Claudio Pavone ha raccontato come guerra civile e conflitto morale a una dimensione di feuilleton (Il graffio della tigre), di thriller semi-revisionista (Il sangue dei vinti), di melodramma revisionista tout-court (Il cuore nel pozzo). Vicende di singoli vittime della storia, o al massimo – davvero il migliore dei casi – esaltazione di alcuni eroi, i carabinieri in genere (Salvo d’acquisto, I martiri di Fiesole).

La dimensione popolare è praticamente scomparsa, così come l’ambizione di indagare un grande momento di tensione, rinascita, conflitto morale. La questione dell’emancipazione sociale un fantasma, quella della coscienza politica nemmeno a parlarne.

Affermare il ruolo centrale dei comunisti in tutta la guerra di liberazione e nel processo costituzionale oggi sembrerebbe un azzardo, così come è impensabile parlare pubblicamente di violenza giusta.

E anche nella scuola – l’ultimo alibi per chi non sente su di sé la responsabilità di questa indifferenza conclamata – far conoscere la resistenza è faticosissimo, un compito spesso lasciato alla buona volontà dei singoli presidi o dei singoli insegnanti, che devono ricominciare ogni volta da capo: a ribadire la differenza cruciale tra riconoscere le ragioni dei repubblichini e dargli dignità storica, a legare la storia della guerra di liberazione all’antifascismo precedente e a quello successivo, a indicare nella guerra partigiana le tracce ideali di quella che sarà la scrittura della costituzione eccetera.

Pochi giorni fa è stato pubblicato un importante accordo siglato dal ministero dell’istruzione con l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, per cui nella settimana dal 25 al 30 aprile dovrebbero svolgersi lezioni e attività didattiche sulle questioni della resistenza. Ma quante scuole hanno accolto questo progetto? Chi sono gli esperti invitati a parlare? Come si svolgeranno queste lezioni? Quanto spazio gli sarà dato? E, soprattutto, sarà una sperimentazione che si replicherà negli anni prossimi?

Perché parlare e riflettere sulla resistenza non si deve ridurre, come spesso avviene, a quella specie di elemosina educativa che chiamiamo sensibilizzazione. L’esperienza dei partigiani, di tutti quelli che hanno dato vita all’antifascismo, ha un carattere pedagogico, paradigmatico, di educazione alla vita, che corrisponde perfettamente a quell’esemplarità che in filigrana possiamo leggere nella costituzione italiana.

Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche la possibilità di immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte.

I più bei romanzi sulla resistenza hanno come protagonisti dei ragazzi e hanno come centro narrativo proprio questo percorso imprevedibile lungo il confine che in realtà è un fossato che passa tra il lasciare che le cose accadano e fare di tutto perché cambino.

Ci sono due passaggi del Partigiano Johnny che mi sono particolarmente cari, e sono tra quelli in cui Johnny parla proprio di questo confine, e della bellezza di questo salto possibile.

Johnny camminava, gli occhi fissi alla geniale silhouette di Tito, ma in realtà chiuso. Pensava a se stesso, al suo grado di sopravvivenza intellettuale, gli parve di pencolare su un abisso quando, ad un test, constatò non ricordare nulla degli aoristi.

– Tutto questo finirà, ed io dovrò rimettermi da capo col greco, non potrò mai fare a meno del greco per tutta la vita… La cosa era orribilmente noiosa, da sentirmi d’ora la nausea della lontana fatica. Forse era meglio morire partigiani: incredibile, si trattava di una vera e propria sistemazione borghese. Tutto questo finirà…

ed allora decise di goderne, di quel marciare, nell’aria algida, con un’arma al braccio quel sole vittorioso, verso il delizioso paese del prelievo tabacchi. E si trovò a recitare: ‘Sumer’s icumen…’ a voce involontariamente intellegibile, sicché Tito si voltò intrigato e interessato: delizioso l’incrociarsi delle sue ciglia delinquenziali, e rivoltando avanti affondò nella neve inavvistata.

(…)
Partì verso la cresta. Le nove batterono crepuscolarmente a campanile ed egli controllò il suo orologio. Era ora ad un punto di femminea sottigliezza, ma duro come il ferro, il cinghietto di cuoio stava cadendo a pezzi. Lo strappò e fece scivolare l’orologio nel taschino sul fra le pieghe del suo fazzoletto azzurro. Quell’orologio aveva marcato le sue ore coscienti: l’aveva sbirciato mentre Monti parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma, Baudelaire, l’aveva al polso quando il capitano Vargiu aveva annunciato il 25 luglio, Johnny l’aveva consultato aspettando il ragazzo romano col vestito borghese qualche giorno dopo l’armistizio. Scosse la testa: passato e presente erano totalmente, incredibili. E un richiamo gli folgorò la testa: Johnny qual è l’aoristo di lambano?

Buona festa della liberazione a tutti, pensate che è la vostra festa.

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