28 ottobre 2013 15:59

Dieci errori che i giornalisti devono evitare quando parlano di persone lgbt. Uno al giorno, per dieci giorni.

  1. Coming out

  2. Immagini

  3. Lesbiche

  4. Mamma

  5. Mondo gay

  6. Relazioni

  7. Transessualità

  8. Famiglie gay

  9. Icona gay

  10. Parole

A metà ottobre l’agenzia di stampa Redattore sociale mi ha chiesto di partecipare a una serie di seminari di formazione per giornalisti sui temi legati all’orientamento sessuale.

Quando mi hanno comunicato il titolo del mio intervento, “I vizietti dell’informazione. Dieci errori da evitare quando si parla di persone lgbt”, ho trovato davvero azzeccato il riferimento al Vizietto, il film del 1978 con Michel Serrault e Ugo Tognazzi.

Perché dal momento in cui è uscito, quel film è diventato lo stigma che ha accompagnato la rappresentazione delle persone gay su giornali e tv durante il periodo in cui gli omosessuali hanno cominciato a uscire allo scoperto. Per un buon decennio l’idea che gli italiani avevano dell’omosessualità ha coinciso con quella dei protagonisti del film e io stesso, da ragazzino, sono cresciuto con quasi solo quel modello davanti agli occhi.

Tra i dodici e i quattordici anni mi ero quasi rassegnato all’idea che avrei dovuto procurarmi un kimono di seta e indossare solo quello per il resto della vita. Poi, per fortuna, i nostri modelli di riferimento si sono evoluti e a quindici anni ho capito che potevo anche restare vestito, purché mi attenessi scrupolosamente alle sobrie regole di stile dettate da Elton John o Boy George.

I mezzi d’informazione italiani, che non sono mai stati campioni del politicamente corretto, eccellono invece in una disciplina: la semplificazione. E così, anche oggi che il modello del Vizietto è stato faticosamente superato, la tendenza è sempre quella ad appiattire il fenomeno dell’omosessualità: sulla stampa italiana i gay sono tutti ricchissimi e istruiti, i maschi hanno tutti i muscoli, le donne i capelli corti, le transessuali vanno sempre in giro con le tette di fuori e vivono tutti, indistintamente, in un misterioso paese lontano che risponde al nome di Sordido Ambiente Omosex.

Ora ho deciso di ribaltare le parti e, uno al giorno per dieci giorni, scoverò i vizietti e i cliché in cui cade quotidianamente la stampa italiana quando parla di questioni lgbt. Perché a volte basta soffermarsi un momento in più su una parola per capire che si tratta di una piccola violenza nascosta che si può e si deve evitare.

1) Coming out

Cominciamo dal coming out, cioè il momento in cui una persona dichiara la propria omosessualità. Ovviamente la parola viene presa in prestito dall’inglese perché noi italiani le parole nuove non le sappiamo assolutamente inventare. È più forte di noi: se c’è una nuova invenzione siamo costretti a dargli un nome in inglese perché l’italiano, con le sue misere 240mila voci nel dizionario, non riesce a trovare le parole giuste. La stessa cosa è avvenuta con gay, che evidentemente viene dall’inglese.

Che, poi, bisogna fare una distinzione: con gli insulti noi italiani andiamo fortissimo, abbiamo una fantasia sterminata (e basti pensare a frocio, finocchio, checca, ricchione, culattone, cula, buco e chi più ne ha più ne metta), ma se poi chiedi a un italiano di trovare semplicemente una parola più agile per definire un omosessuale, eh, allora no, deve per forza andare a pescare gay dall’inglese perché non gli viene in mente proprio nulla.

Insomma, siamo schiavi dell’inglese, e questo già si sapeva, ma il problema più grave è un altro: l’inglese non lo sappiamo! E così spessissimo sulla stampa italiana invece di coming out si trova outing, che vuol dire tutt’altro.

L’outing avviene quando qualcuno svela pubblicamente, e spesso anche senza permesso, l’omosessualità di qualcun altro. Per tornare agli insulti, che in italiano non mancano mai, vorrebbe dire sputtanare qualcuno.

Sono famosi gli outing dei politici, delle star del cinema, o anche solo del vicino di casa, fatti dagli attivisti per i diritti degli omosessuali. Per esempio, quando ho letto che Tiziano Ferro aveva fatto outing su Vanity Fair, la mia prima reazione è stata: “E di chi?”.

Secondo molti giornalisti italiani, quindi, l’omosessuale italiano non fa coming out, ma più che altro si sputtana da solo. E il problema è che ormai il termine outing - sicuramente anche perché è più immediato ed economico di coming out - è entrato nel linguaggio comune. E così si sente in giro sempre più gente dire cose tipo: “Faccio outing: sono un fan di Antonello Venditti”. Che in questo caso è, sì, un autosputtanamento non indifferente, ma forse non era quella l’intenzione di chi l’ha detto.

Oppure si arriva al paradosso apparso sui giornali nelle settimane scorse, dove Raoul Bova si “autosputtana” dichiarando la sua eterosessualità.

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