08 agosto 2015 18:07
Una manifestazione delle donne in bianco a Bruxelles. (Simon Blackley, Internazionale)

Dal 29 giugno di quest’anno il boulevard Anspach, un ampio rettilineo che attraversa il centro storico di Bruxelles, è in gran parte zona pedonale. La misura ha scontentato molti abitanti e commercianti della zona, che, a ragione, denunciano l’assenza di dibattito pubblico e lo spirito “principalmente turistico e commerciale” dell’iniziativa. Eppure la prima volta che ho visto questo vialone haussmanniano – impero delle macchine per un secolo e mezzo – occupato solo da pedoni e ciclisti liberi di zigagare, da tavoli da ping-pong e da campi di pétanque, ho provato un fremito di piacere.

È proprio qui che un gruppo di donne sans papiers ha deciso di darsi appuntamento, ogni mercoledì alle sei del pomeriggio, per sfilare lungo il boulevard tra gli sguardi incuriositi dei passanti. Vestite di bianco, avanzano reggendo uno striscione con un messaggio semplice: “Nessuno è illegale. Mettetevi al nostro posto”. Alcune di loro sono accompagnate dai figli, che sgambettano al ritmo degli slogan. “Sapevate che i bambini senza documenti di meno di tre anni non hanno il diritto di iscriversi al nido?”, spiega, tra le altre cose, il volantino che distribuiscono. Di bianco sono vestite anche ledonne “avec papiers” che le affiancano, mentre gli uomini non portano un colore distintivo.

Sfilano cantando e accompagnandosi con dei tamburi-sonaglio. C’è chi applaude e si unisce alla marcia, chi invece rifiuta di prendere il volantino serrando la mascella in segno di dissenso. Tanti – turisti e non – tirano fuori il cellulare per riprendere la scena. Il 5 agosto, giorno della seconda manifestazione, il corteo era formato da una quarantina di persone.

L’azione è pacificamente sovversiva. Attraverso queste donne, la politica irrompe in un centro pedonale pensato come spazio di svago e di shopping. Il loro invito – “mettetevi al nostro posto” – è un appello a ridefinire la collettività che dovrebbe ritrovarsi sull’asfalto sgombro dalle macchine. “Non lasciate che un pezzo di carta ci divida”, conclude il volantino. Il 5 agosto non si è vista l’ombra di un poliziotto durante tutta l’azione, durata oltre un’ora. Provare a fermare un corteo di donne e di bambini sotto lo sguardo di turisti, famigliole e giocatori di ping-pong è un’operazione rischiosa per l’immagine di una città.

Ma questo è il centro, dove la civiltà è un’eccezione ancora possibile. Ai confini delle città europee, degli stati membri, dell’Unione, il quadro è diverso. Durante la manifestazione parlo con Riet Dhont, del Partito del lavoro del Belgio. È appena tornata da Calais. “Arrivo dal funerale di un giovane eritreo”, Moussa Houmed, annegato il 19 luglio in un bacino di ritenzione del tunnel sotto la Manica. “È stato seppellito accanto a un neonato”. La madre era incinta di ventidue settimane quando è caduta da un camion. Il figlio è nato morto. Da allora la donna è scomparsa. “Il personale dell’ong Médecins du monde con cui ho parlato mi ha detto che la situazione è più drammatica che in molti campi profughi visti nel resto del mondo”.

In una recente intervista all’Afp, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker si è detto“deluso” dalla scarsa solidarietà degli stati membri, che hanno bocciato la proposta della Commissione di spartirsi delle quote obbligatorie, nonché irrisorie, di richiedenti asilo, preferendo accoglierli su base volontaria(l’Austria e l’Ungheria hanno rifiutato). Ma quale solidarietà può pretendere un’istituzione il cui approccio “olistico” alle politiche migratorie ricorda lo “scenario peggiore” presentato dalla mostra itinerante “Moving beyond borders”, inaugurata a Bruxelles a metà giugno: un futuro in cui non ci sarà più bisogno di controllare le frontiere esterne dell’Unione europea, in cui i centri d’identificazione ed espulsione non serviranno più, perché intere aree del sud del mondo saranno sigillate e i cittadini di quei paesi vi rimarranno intrappolati. In parte succede già oggi grazie ad accordi come quello che la Commissione sta negoziando con l’Eritrea, accordo denunciato dal sacerdote eritreo Mussie Zerai, dal giornalista Vittorio Longhi e dall’avvocato Anton Giulio Lana in una petizione lanciata il 3 agosto.

Juncker ha anche invitato i governi europei a non cedere al “pensiero populista”. Sembra dimenticare che, come scrive l’Osservatorio belga dell’estrema destra, “più alti saranno i muri, più taglienti i recinti di filo spinato, più difficili le rotte via terra e via mare, più insalubri i luoghi di transito, e più l’estrema destra potrà illustrare la sua menzogna: ‘immigrazione = insicurezza’”. “I ministri, a differenza dei cittadini, hanno l’obbligo di agire”, ha aggiunto Juncker. Ma sono i cittadini che a Calais, a Ventimiglia, in Ungheria, alle frontiere della Macedonia e in tante altre parti d’Europa stanno agendo, e mostrando al presidente della Commissione cos’è la solidarietà.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it