21 febbraio 2016 12:03

Chi scrive queste righe, e chi le legge, appartiene per forza di cose alla vasta categoria di persone che Umberto Eco descriveva così venti anni fa: “Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: ‘Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?’. Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni”.

È una delle ironie che Eco si è lasciato dietro dopo la sua morte. Circola molto sul web, insieme ai dati chiave della sua biografia: nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932; semiologo, autore tra gli altri dei saggi Diario minimo, Apocalittici e integrati, Kant e l’ornitorinco; premio Strega nel 1981 per Il nome della rosa; fondatore nel 1988 del dipartimento della comunicazione dell’università di San Marino; amante dei fumetti e professore di Andrea Pazienza al Dams di Bologna; condirettore dal 1959 al 1975 della casa editrice Bompiani, che ha pubblicato tutti i suoi romanzi, compreso l’ultimo, Numero zero, nel 2015.

Alcune delle storie dietro questi dati, in quarant’anni di interviste.

Interviste lette: 23.
Periodo: 1970-2015.
Lunghezza: 14mila caratteri.

Tra i giornali: The Paris Review, Corriere della Sera, l’Espresso, The New York Times, l’Unità, La Stampa, Wired, La Repubblica.

Tra le firme: Valentino Parlato, Lee Marshall, Francesco Merlo, Lila Azam Zanganeh, Deborah Solomon.

È cresciuto ad Alessandria, che città era?
Alessandria è una città che non si muove, scettica, senza entusiasmi. Ma è anche la città che ha avuto l’unico papa non nepotista, che non ha mai avuto un ghetto ebreo, che non ha mai speculato su San Francesco. Una città, quindi, senza eroi e senza miti, ma che non ha mai ammazzato nessuno per averli.
La Stampa, 1981

La sua famiglia?
Mio padre era un contabile e suo padre un tipografo. Mio padre era il primo di tredici figli. (…) Mio nonno ha avuto molta influenza nella mia vita, anche se non andavo a trovarlo spesso, ed è morto quando avevo sei anni. Era eccezionalmente curioso, e leggeva un sacco di libri. Quando andò in pensione, iniziò a rilegare libri. Perciò ne aveva un sacco non rilegati sparsi per il suo appartamento – vecchie, meravigliose edizioni di romanzi popolari di Gautier e Dumas. Quelli sono stati i primi libri che ho visto. Quando morì nel 1938, molti proprietari di quei libri non rilegati non li chiesero indietro, e la famiglia li mise in uno scatolone. Quasi per caso, quello scatolone finì nella cantina di casa mia. Mi ci mandavano di tanto in tanto, per prendere carbone o una bottiglia di vino, e un giorno ho aperto lo scatolone e ho scoperto quel tesoro di libri. (…) Sfortunatamente, li avrei poi persi tutti, ma nel tempo li ho riacquistati.
The Paris Review, 2008

Quando ha deciso cosa voleva fare da grande?
Fino a sei anni volevo fare il tranviere. Poi a otto anni ho cominciato a leggere Salgari e i libri di mia nonna, da Il piccolo alpino a Papà Goriot. Cosi iniziai a scrivere dei racconti con tanto di casa editrice personale: Matenna, cioè matita e penna.
L’appuntamento, Tmc, 1991

C’è una lezione di scrittura che ricorda?
Colombo, Vattimo e io abbiamo partecipato a un concorso per telecronisti Rai e abbiamo fatto tre mesi di corso con Gennarini. Ci portava in sala proiezioni e ci faceva assistere a un tg muto. Poi ci metteva in mano l’Ansa e ci diceva: “Questo pezzo dura 63 minuti, voi dovete scriverci la notizia con l’Ansa che vi ho dato. Una volta terminato ci diceva che sopra i 63 minuti dovevamo scrivere un testo di trenta minuti. Poi di quindici e infine di dieci. Gran scuola, quella. Un’altra buona scuola credo sia stata la redazione di schede per le riviste di estetica. Dovevo scrivere in 15 righe l’essenza di un libro. Infine i risvolti di copertina per Bombiani. Diciassette anni di risvolti. Con quella misura di righe si dice tutto.
L’Unità, 1993

Il concorso risale al 1954, nove anni dopo sarebbe nato il Gruppo 63.
Le polemiche verbali erano all’ordine del giorno. Su l’Espresso, recensendo un mio intervento, Vittorio Saltini menzionava con sarcasmo una mia citazione da Blaise Cendrars, che diceva “tutte le donne che ho incontrato si profilano agli orizzonti – coi gesti pietosi e gli sguardi tristi dei semafori sotto la pioggia”. Versi bellissimi, ma Saltini commentava che a me “solo i semafori evocavano pensieri erotici”. Bene, gli risposi di mandarmi sua sorella! (…) Ci divertivamo un mondo. Ed è questo in qualche modo l’idea balestriniana di tipo terroristico. C’era stata l’esperienza del Gruppo 47 tedesco, scrittori sperimentali che si ritrovavano a leggere i propri testi e poi criticarsi ferocemente l’un l’altro (…) Ecco in cosa consisteva l’atto terroristico di Balestrini: lanciare nell’ambiente letterario un modo nuovo di interagire.
Il Venerdì, 2013

Facevate arrabbiare anche i politici, però.
Stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana (…) C’era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci. All’epoca l’unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con il manifesto: l’unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci.
Il Manifesto, 2011

Era complicato essere anticonformisti, che significa esserlo?

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Com’è nato Il nome della rosa?
Il romanzo è nato per caso: ricevetti la proposta di scrivere un poliziesco di cento pagine. Rifiutai per mancanza di tempo. Poi, però, tornando a casa, iniziai a pensare a quest’idea che sicuramente vedevo ambientata nel medioevo. Mi trovai per le mani un trattato sui veleni, si parlava di uno in grado di passare attraverso la pelle. D’istinto mi venne in mente il giallo dell’abbazia e un romanzo di cinquecento pagine.
L’appuntamento, Tmc, 1991

Come reagirono al successo i suoi colleghi universitari? E gli scrittori?
Intanto vorrei precisare che è solo dopo il romanzo che ho ricevuto 38 lauree ad honorem e quindi pare che i colleghi universitari l’abbiano presa bene. Caso mai sono i non universitari. In Italia, per ovvie ragioni qualcuno ha detto: ma questo faceva il cameriere in un bar e ora ha messo su un happy hour! Non era invidia, era non accettazione del vicino di casa. Anche perché in casa si conosce un’infinità di mie attività zuzzurellone, come il Diario minimo e quelle cose lì, mentre all’estero appaio solo come autore di libri seri. C’è poi un’altra caratteristica italiana. Se negli Stati Uniti Philip Roth vende molti libri, questo non ne diminuisce l’immagine che la critica se ne fa. Potrei mostrarle – ma bisognerebbe tirare giù dei faldoni – almeno due signori molto noti che appena uscito Il nome della rosa ne hanno scritto un peana, e quando il libro è arrivato alle 200mila copie hanno scritto tutto il contrario. Se fosse rimasto entro le 5.000 copie sarebbe stato un capolavoro.
Corriere della Sera, 2012

Tra questo esordio e il secondo romanzo passarono otto anni, come mai?
Per Il nome della rosa avevo migliaia di documenti in mano, ma ci ho messo solo due anni per scriverlo. Le ricerche e la scrittura del Pendolo di Foucault sono durate otto anni! Anche se non dicevo a nessuno cosa stavo facendo, oggi mi è chiaro che ho vissuto in un mondo tutto mio per quasi un decennio.
The Paris Review, 2008

Quello degli anni ottanta.
Se le dico la ragione per cui ho fatto nascere tutto verso l’ottantuno, ottantadue, ottantatré, è perché avevo bisogno che Jacopo Belbo (uno dei protagonisti del romanzo, ndr) scrivesse sul computer, e i personal computer sono stati messi in commercio nell’ottantatré – e non poteva essere prima.
Grenzgänge, 1994

Il computer ha cambiato il suo modo di scrivere?
Nessuno poteva evidentemente prevedere che cosa sarebbe avvenuto. Ma il primo documento di Belbo spiega in che modo il computer avrebbe cambiato i rapporti tra pensiero e scrittura, con la mano che segue docilmente il ritmo della tua fantasia, senza preoccuparsi troppo perché dopo si ha la possibilità di correzione, ripulitura, controllo degli eccessi, spesso riscrittura. Questo fa una differenza enorme tra chi scrive oggi e chi incideva su tavolette d’argilla. Ed era chiaro sin da allora.
La Repubblica, 2013

Senza computer non ci sarebbe Internet, eppure della rete ha un’altra idea.
Internet è come una sterminata biblioteca senza filtraggio. La virtù delle biblioteche, come delle enciclopedie, non è soltanto quella di conservare la memoria, ma di buttare via quello che a una cultura non serve. Se non buttassimo via nulla saremmo come Funes el memorioso, di un racconto di Jorge Luis Borges. Questo personaggio ricordava tutto: era un uomo dalla memoria totale, incapace di ragionare, perché incapace di filtrare. Internet è come Funes: contiene tutto, il vero e il falso, il che è un grave rischio soprattutto per i giovani.
Famiglia Cristiana, 2012

Ha prevalso il suo spirito apocalittico?
No, non del tutto. Quando Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili, i più poveri non corsero subito per avere una copia della Bibbia a 42 linee, ma la lessero un secolo dopo. E non dimentichiamoci di Lutero. Nonostante il diffuso analfabetismo, la sua traduzione del Nuovo testamento circolò in tutte le classi sociali della Germania del sedicesimo secolo. Quello di cui abbiamo bisogno è un Lutero della rete.
Wired, 1997

Nell’attesa non c’è niente che si possa fare?
La cultura è un’alternanza continua tra la libera presa di parola e la critica di questa presa di parola. Quello che sta accadendo col web, invece, è che si sta idolatrando l’ideale del’assoluta presa di parola, senza alcun controllo da parte degli altri. Volendo essere cattivo – o apocalittico – potrei dire che è il trionfo della “parola al cretino”. Ma questa non è cultura. O meglio: il cretino può anche parlare e persino insegnare all’università, purché permanga la possibilità per gli altri di controbattere, contestare, porre modelli alternativi. Con queste forme di pseudo-partecipazione, invece, chiunque esprime quello che gli salta per la testa, talora anche indulgendo in toni e contenuti offensivi. Rischia di venire a cadere, così, il presupposto fondamentale della democrazia, ovvero l’assunzione che non tutto quello che si dice va bene. Chi teorizza il contrario, propugnando la pura presa di parola come unica forma di espressione, ha di fatto rinunciato alla democrazia – e dunque alla cultura democratica – come critica delle opinioni.
Doppiozero, 2014

Anche negli anni di Silvio Berlusconi ha parlato di una rinuncia alla democrazia, ma attribuendone la causa al populismo mediatico.
Il populismo mediatico consiste nel rivolgersi direttamente al popolo attraverso i media. Un politico che ha in mano i media può orientare il corso della politica al di fuori del parlamento, e persino eliminare la mediazione parlamentare (…) Dal 1994 al 1995 e dal 2001 al 2006 Berlusconi è stato al tempo stesso l’uomo più ricco d’Italia, il presidente del Consiglio e il proprietario di tre reti televisive, avendo inoltre sotto il suo controllo le tre emittenti di Stato. È un fenomeno che potrebbe accadere, e forse è già in atto in altri Paesi, in base allo stesso meccanismo.
The New York Times, 2007

Qual è il ruolo di un intellettuale, allora?
Quando un intellettuale si pronuncia per una parte politica non fa affatto il suo lavoro di intellettuale. Fa il suo lavoro di cittadino. Quando dico che gli intellettuali devono stare zitti, parlo dell’intellettuale nel senso di produttore di pensiero. La loro funzione è di riflettere su quanto è accaduto, su quanto potrebbe accadere. Poni che qualcuno sia un esperto di sistemi di sicurezza. Se è il caso, deve scrivere che le sale cinematografiche non hanno dei sistemi di controllo antiincendio sufficienti. E in tal modo esercita la sua funzione critica di intellettuale. Nel momento in cui, mentre è al cinema e il cinema brucia, lui non ha altro da fare se non quello che deve fare ogni persona di buon senso. E se è più sveglio, in quanto cittadino, sarà il primo ad attaccarsi al telefono e a chiamare i vigili del fuoco. Ma chiederti in quel momento, mentre la casa brucia, di firmare un appello, è una futile forma di spettacolo.
L’Unità, 1997

C’è qualcosa che rimpiange?
Forse invecchio con allegria perché penso che invecchiare sia bellissimo. Non capisco i miei coetanei che si lamentano: sono convinto di avere la stessa memoria d’acciaio di quando ero ragazzo, anche se passo notti a cercare libri con il dorso giallo che hanno invece il dorso rosso. Di sicuro ho anche una grande esperienza. E poi… sono contento di avere fregato tutti quegli altri che sono morti prima di me.
La Repubblica, 2015

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