27 maggio 2015 14:45

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Farcito di massime nel genere Baci Perugina (eh sì, la vita è fatta a scale), Youth – La giovinezza è uno dei film più strambi ma anche più lagnosi visti da tempo.

Il postmoderno non c’entra: è un film molto vecchio (più del suo protagonista Michael Caine, che da probo attore qual è ce la mette tutta) e che rientra in quel fenomeno che è stato definito dagli anni trenta del novecento con il nome di kitsch. Sui dizionari “kitsch” è “la produzione di presunti oggetti artistici, in realtà banali e di pessimo gusto”, ma questa è una definizione eccessiva perché si conoscono anche prodotti kitsch spiritosi e divertenti, e perché è capitato spesso che l’imitazione di una presunta opera d’arte risultasse migliore dell’originale. Ma in questo caso?

Per raccontare la vecchiaia, Paolo Sorrentino s’inventa mitteleuropeo o grandeuropeo. Spostarsi da Napoli in Svizzera gli aveva permesso di fare il suo film migliore, Le conseguenze dell’amore, di cui qui speravamo di ritrovare gli umori. Invece purtroppo no, perché dopo il successo di La grande bellezza – che era kitsch anche quello, ma di qualche spanna sopra Youth – Sorrentino si sente filosofo e poeta, guarda alla Vita e alla Morte, all’Arte e al Cinema sempre con le maiuscole, e perde il senso della misura perché gli si è fatto credere, dai critici più sciagurati, che sia questo il nuovo modo di fare arte, di fare cinema e perfino di filosofare.

Il postmoderno è una cosa seria, nata da una mutazione irreversibile nella storia del mondo che è cominciata negli anni ottanta del novecento (e annunciata in cinema dalle nouvelles vagues più radicali) e ha travolto tutto, ché resta poco dell’evo moderno nelle nostre società e anche nelle nostre vite e nei nostri pensieri. Negli Stati Uniti, come sempre all’avanguardia di ogni mutazione, si è manifestato con le opere di Don DeLillo, di Thomas Pynchon, di Robert Pirsig, a cui si contrapponevano i minimalisti del sentimento e delle piccole vite, i Nanni Moretti locali, pallidi protagonisti delle loro pallide storie.

Più che un fenomeno letterario e cinematografico, è postmoderno, ahinoi, il sistema di potere che ci sovrasta, con tutte le sue derivazioni, ed è con questo che bisognerebbe fare i conti anche nelle arti, invece di seguire le mode che esso impone e sostiene. MaYouth, ripetiamolo, non è un film postmoderno, è un film banalmente kitsch, che punta alla filosofia e all’arte con i poveri mezzi della citazione, dell’imitazione.

Due i suoi modelli, tutti due altissimi, troppo alti per lui, La montagna incantata e , e certamente non i film sulla vecchiaia di Ingmar Bergman (Il posto delle fragole) o di Akira Kurosawa o perfino (sarebbe stato divertente) di Howard Hawks. Uno solo il modello italiano “giovane” e post-tutto: l’immenso Baricco, che però Sorrentino batte ai punti. La vecchiaia è un pretesto occasionale (è riuscito a narrarla con straniante efficacia Matteo Garrone nell’episodio delle due sorelle del Racconto dei racconti) ed è dominata dal conformismo biologico e mentale nel 999 per mille dei casi. I vecchi di Sorrentino sono marionette di ricchi che si piangono addosso, noiosi come la morte, e che sparano sentenze a raffica, l’una più consunta dell’altra.

Film eminentemente narrativo, minuziosamente sceneggiato e somigliante, con minore speditezza, a lavori che negli anni tra le due guerre parlavano già allora di massimi problemi in trame di mélo che scopiazzavano i grandi (Grand hotel: gente che va gente che viene). La sua originalità dovrebbe consistere nel salto dei toni più che nella prevedibile varietà dei personaggi, nell’avvicendarsi di pseudorealtà e visionarietà, del giorno e notte della coscienza e della regia. Ma le fellinate non sono paganti, pesano come macigni là dove nel modello erano lievi e vitali come rondini o farfalle, o cupe e abissali come il nulla.

Tutto di testa, mai libero e mai autentico, mai leggero e mai profondo, a Youth manca semplicemente, fellinianamente, un’anima. Neanche l’ombra di un’asa nisi masa.

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