04 febbraio 2016 15:35

Cos’è. È l’ottavo film di Quentin Tarantino. Nato originariamente come seguito del precedente Django unchained, The hateful eight racconta la storia di una taglia che deve essere riscossa a Red Rock, in Wyoming, nel mezzo dell’inverno, qualche anno dopo la fine della guerra civile. A causa di una bufera di neve, il cacciatore di taglie (Kurt Russell), un suo collega (Samuel L. Jackson), la fuorilegge catturata (Jennifer Jason Leigh) e il sedicente nuovo sceriffo di Red Rock (Walton Goggins) raggiungono con carrozza e cavalli una locanda lungo il percorso, e lì cercano riparo. I gestori abituali non ci sono, e al loro posto c’è il messicano Bob (Demián Bichir) che ospita già un veterano sudista (Bruce Dern), un fattore (Michael Madsen) e un boia di origine britannica (Tim Roth). Nel gelo della locanda, le identità di ciascuno diventano sempre meno evidenti e le intenzioni sempre più chiare.

La colonna sonora originale del film è di Ennio Morricone. Il film è stato girato in 70mm con la fotografia del fuoriclasse Robert Richardson.

The hateful eight

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Com’è. I giallisti più virtuosi di tanto in tanto si cimentano nel genere del “mistero della camera chiusa”, quello in cui il delitto è apparentemente impossibile, essendo avvenuto in una stanza chiusa dall’interno. Per questo suo ottavo film, Quentin Tarantino ha deciso di mettersi alla prova e fare un po’ la stessa cosa. The hateful eight è un concentrato del suo cinema di cacciatori e prede, ma senza inseguimenti fisici e duelli al sole: ogni dinamica di avvicinamento e smascheramento è spostata sul piano del dialogo, e l’intero film si svolge su una carrozza per i primi 35 minuti, e nella locanda per le restanti due ore. Lo stallo messicano, quella situazione in cui in un gruppo di persone ciascuno punta la pistola contro un altro ma è a sua volta sotto tiro, diventa la condizione esistenziale per questa gente di montagna, questi soldati, questi criminali che vivono con la consapevolezza di poter uccidere o morire da un momento all’altro.

A Tarantino è sempre piaciuto il cinema che si prende poco sul serio, dove i personaggi sono sopra le righe e chiacchierano senza tregua con un vocabolario carico e riconoscibile, abituati a stare molto ben lontani da realismo e naturalezza. Il cinema squattrinato di genere, con la sua facilità nel gestire la scansione delle scene e la tipizzazione rapida dei personaggi senza perdersi in troppe finezze, è da sempre uno dei suoi modelli, oltre a tanto cinema d’autore che si vede meno ma c’è. Infatti The hateful eight ha il cast e il budget di un film grosso, ma è concepito come se fosse un film piccolo in cui uno dei produttori si è defilato una settimana prima delle riprese. Così la storia si è trasformata in una sfida che potrebbe essere o molto colta e teatrale, come in Carnage di Roman Polanski, oppure molto artigianale e incosciente. Tarantino sta a metà strada. Perché nei modi e nei riferimenti è un cinefilo onnivoro con una particolare passione per le battute memorabili, le pistole e la sfrontatezza estetica, ma è anche uno sceneggiatore e un regista molto più raffinato di quello che i suoi modi da tamarro facciano pensare.

Un cast stellare si ritrova fermo in una stanza a sfidarsi prima solo con le parole e poi con molto altro. Non si capisce se sia perché lui li scrive in quel modo fumettoso o perché gli attori sono molto capaci, ma in tutto il cinema di Tarantino non c’è un interprete che non aderisca al personaggio, e anche questa volta sono tutti perfetti, primo tra tutti il solito Samuel L. Jackson. Jackson incarna una figura, quella dell’afroamericano consapevole e orgoglioso, tipica non dell’ottocento ma del cinema giovane e politicizzato degli anni sessanta e settanta, che rileggeva i generi classici in un’accezione probabilmente anacronistica dal punto di vista storico, ma politicamente e socialmente significativa. Questo infatti è anche il film più politico di Tarantino. Oltre a essere una partita a scacchi o a Cluedo con gli stereotipi western tipici (il boia, il fattore, il messicano) come personaggi, è anche una riflessione sulle origini della violenza e della segregazione negli Stati Uniti.

Il film è fermo dal punto di vista delle scene, ma per il resto è molto poco prevedibile, essendo un esempio inedito di western classico ribaltato, figlio illegittimo di Agatha Christie e John Carpenter. La fotografia, soprattutto se lo si vede nella versione in pellicola a 70 millimetri, è semplicemente stellare: morbida e pulsante anche nella semplice inquadratura di un attore seduto che parla, lirica quando si sofferma sul fiato dei cavalli o lascia intravedere la neve che permea dalle fessure delle pareti della locanda.

Una menzione speciale va alla musica di Ennio Morricone e al tema che si sposa perfettamente con l’atmosfera a cavallo tra frontiera e terrore, anche se ha poco spazio nel film in termini di tempo.

Perché vederlo. L’uscita di un film di Tarantino è un evento al quale si partecipa con entusiasmo, andandoci in gruppo, organizzandosi prima e prenotando nelle sale migliori. Durante la proiezione c’è una voglia di cinema palpabile, e anche solo questo sarebbe sufficiente per andarci e basta, senza nemmeno conoscere la trama e il cast.

Nello specifico, The hateful eight è un film concepito e realizzato con il massimo della cura possibile, almeno dal punto di vista di Tarantino. È girato in pellicola, e con la pellicola migliore che ci sia; il direttore della fotografia è uno dei più bravi viventi; l’ambientazione del grande freddo alle pendici delle Montagne Rocciose richiama il cinema avventuroso di frontiera; gli attori sono tutti bravi e in stato di grazia; il soggetto è affascinante in sé ed è realizzato senza compromessi; la colonna sonora originale è di Ennio Morricone, eroe personale del regista e maestro indiscusso; la sceneggiatura e la regia sono talmente fitte che si apprezzano meglio la seconda volta, ma trasudano da subito piccole finezze da ogni angolo.

Chi ha amato la scena di Bastardi senza gloria in cui Christoph Waltz parla con il contadino che nasconde una famiglia di ebrei nel seminterrato, qui ha un’estensione caleidoscopica di quella stessa piacevole sensazione di strangolamento. Nel film c’è poi una sensazione di puro divertimento che passa in ogni inquadratura. Per esempio, dopo un po’ ci si rende conto che Walton Goggins è stato scelto in quanto sosia di Richard Widmark, il cattivo migliore di sempre (e una battuta conferma il riferimento citando la scena de Il bacio della morte in cui Widmark spinge una vecchia signora in sedia a rotelle giù dalle scale).

Sotto a tutto questo, soprattutto quando si rivede il film, c’è una riflessione sul western e sulle sue nevrosi, sul west, sull’origine della violenza, sulla componente di rapacità che sta alla base della fondazione degli Stati Uniti, sul narratore onniscente e la sua natura di falsario professionista; tutto questo va oltre le citazioni, il giocattolo estetico e le sottigliezze cinefile.

Perché non vederlo. Gli ultimi film di Tarantino sono sempre di più dei carillon di cui si ammira sì la musica, ma si osservano anche con rapimento gli ingranaggi scintillanti che ruotano in sintonia. In altre parole sono film che al divertimento e alla cura di sempre hanno aggiunto un certo gusto dichiarato per se stessi. C’è un approccio volutamente artificiale nella costruzione delle scene, nell’estenuante lunghezza dei dialoghi, nel loro essere chiaramente dei balletti classici in forma di duello, dove la crescita costante della tensione è un obiettivo che Tarantino persegue quasi come esercizio sperimentale. Nei suoi primi film, come Le iene, a cui The hateful eight somiglia, questo compiacimento era stemperato dalla novità e da una certa leggerezza da cinema indipendente.

Per questo The hateful eight può lasciare l’amaro in bocca: perché almeno a prima vista è un esercizio di stile pieno di storia del cinema, e come tale difende le sue premesse più dell’equilibrio del film. Non importa se il crescendo verboso del primo tempo a tratti è estenuante, se la violenza quando arriva è così violenta da segare le gambe a quello che è successo prima, se l’inserimento sporadico di una voce fuori campo (che nella versione in lingua originale è di Tarantino stesso) aumenta la sensazione di osservare un esperimento dall’esterno di un laboratorio più che una storia ambientata in una stanza. Il film è solido e ben fatto da ogni punto di vista, ma è talmente fitto di estetica, scrittura e regia da non lasciare quasi spazio per lo spettatore. The hateful eight diverte e appassiona, stimola e interessa, ma non è fatto per l’immedesimazione: è meglio saperlo prima, fatica a emozionare nel profondo.

Una battuta. L’assenza di passione è la vera essenza della giustizia.

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