31 marzo 2014 15:18

Il documento che ho sulla scrivania viene dall’ufficio comunicazione di un’università italiana. Questa frase richiede già una minima nota, perché non è scontata. Le università italiane hanno un ufficio comunicazione? Certo, è l’ufficio che si occupa tra l’altro dei rapporti con i giornali e della gestione del sito internet dell’ateneo e dei dipartimenti, che pianifica le campagne pubblicitarie (o, più soavemente, di orientamento), e insomma che cura l’immagine dell’università. Niente di strano e niente di male, nella cosa in sé, e nessuna ragione d’indignarsi: esiste un pubblico, esistono degli utenti da informare, serve che qualcuno ci pensi.

Il documento viene dunque dall’ufficio comunicazione di un’università italiana e parla di un prossimo Festival della Ricerca al quale la mia università è invitata a partecipare: vogliono fare un consorzio. Il documento è lungo 22 pagine ed è scritto in (ottimo) inglese. Perché in inglese? Perché il documento verrà inviato “a Bruxelles” (così nella lettera di accompagnamento) allo scopo di partecipare a un bando per il finanziamento di progetti “tesi a sensibilizzare la cittadinanza sui temi della ricerca scientifica”. Si tratta di finanziamenti per milioni di euro, e l’università proponente (o il consorzio proponente, se accettiamo l’invito) ne vorrebbe una fetta.

Il progetto non ha ancora un acronimo (“a Bruxelles”, per comodità nel disbrigo delle pratiche, chiedono che ogni progetto abbia un acronimo), mentre ha già un titolo, The Fifth Virtue (La quinta virtù), titolo il cui senso è chiarito alle pp. 2-3 del documento, che qui riassumo. Ci sono, secondo la dottrina cristiana, quattro virtù cardinali: fortezza, prudenza, giustizia e temperanza. Sono quattro virtù fondamentali anche per chi fa ricerca in campo scientifico, anzi si può dire che la ricerca scientifica sia la somma, la sintesi di queste quattro virtù: bisogna essere resistenti, cauti, equi, metodici. Questa somma o sintesi esprime appunto la “quinta virtù”, la virtù del ricercatore. Onde il titolo The Fifth Virtue. Onde la richiesta di finanziamento “a Bruxelles”.

“Sensibilizzare la cittadinanza sui temi della ricerca scientifica” non vuol dire, ovviamente, fare ricerca: non vuol dire cioè – per riempire di un contenuto questa formula che ormai suona ridicola, a forza di essere ripetuta in tutte le salse – leggere libri, fare lezioni, andare in laboratorio, pubblicare articoli. Vuol dire “organizzare eventi che sappiano comunicare soprattutto ai giovani delle scuole superiori i valori della ricerca”. Ammesso e non concesso che esista qualcosa come i “valori della ricerca”, perché fare una cosa del genere? Semplice, per convincere “i giovani delle scuole superiori” a iscriversi all’università, e per fare in modo che le città, gli stati e la Ue continuino a finanziare l’università e i centri di ricerca. Si chiedono insomma alla Ue fondi per organizzare “eventi pubblici” che convincano i cittadini che è giusto pagare le tasse per finanziare la ricerca scientifica: si chiedono fondi pubblici per fare in modo che i fondi pubblici continuino ad essere erogati.

Quali saranno, questi eventi? Questo si tratta appunto di decidere all’interno del consorzio, ma nel documento si avanzano già alcune proposte: un concorso pubblico per la realizzazione di un Logo per la ricerca, che verrà pubblicato sul sito del Festival della Ricerca; un altro concorso dal titolo Mamma portami al Festival della Ricerca, pensato per gli scolari delle elementari e delle medie; una serie di caffè o aperitivi e insomma di conversazioni della durata di un quarto d’ora/mezz’ora con i ricercatori, nei bar del centro.

Il documento è, dicevo, interessante per due ragioni, una relativa alla forma, l’altra relativa alla sostanza.

Quanto alla forma. Il linguaggio è, si capisce, respingente. “Gli eventi”, i “valori della ricerca”, il verbo “sensibilizzare”: è tutta ovviamente neolingua. Ma, si può obiettare, il mondo è cambiato, la barriera tra istituzioni e pubblica opinione è caduta, ed è un bene che sia così: ha ancora senso indignarsi per il cattivo uso della parola eventi? Non per questo, in realtà, e neanche perché si parla di una festa come se si trattasse dello sbarco sulla Luna (“If the CT [Coordination Team] cannot find a satisfactory solution, the issue is brought to the SC [Steering Commitee]. Issue solving in the CT+ST is taken by consensus where possible or by majority voting if consensus is not reached”); e nemmeno per lo scialo di terminologia economica soft (il “Buzz-marketing”, il “Web 2.0 marketing”, che poi vuol dire aprire una pagina Facebook), senza che questa compromissione con l’Economico comporti il rischio che la compromissione con l’Economico comporta per tutti coloro che agiscono realmente sul mercato, cioè il rischio di fallire, e di pagare in solido per il fallimento: il finanziamento di “Bruxelles”, infatti, è a fondo perduto, il che vuol dire che comunque vada sarà un successo. Queste sono pecche trascurabili.

Il linguaggio è respingente perché indossa la retorica del disinteresse e della virtù (la Ricerca scientifica!) nel momento stesso in cui difende il privato interesse di un piccolo numero di cittadini, cioè degli stipendiati dall’università: un fatto formale che nasconde una questione di sostanza, giacché si chiedono soldi per sé – impiegati, docenti – facendoli passare per un investimento nell’interesse del Bene. Del resto, questo è un topos di tutti i discorsi sull’istruzione fatti da chi d’istruzione vive: “non lo facciamo per noi, lo facciamo per voi”. Ma che si tratti del Bene e non, appunto, del proprio interesse personale, non è possibile dimostrarlo con argomentazioni razionali, e questa impasse genera i mostri retorici dei quali il documento sul Festival della Ricerca è un esempio. La caduta della barriera tra istituzioni e pubblica opinione implica infatti che al contribuente non basti dire che le sue tasse servono a garantire il buon funzionamento dell’università: il contribuente va coinvolto, perché bisogna dimostrargli che l’università, come tutto, è anche roba sua.

Ecco allora un linguaggio motivazionale/ispirazionale simile a quello che si adopera nei manuali di auto-aiuto o nei gruppi di supporto per alcolisti: anche tu, soprattutto tu, ce la puoi fare, servono soltanto passione e immaginazione: “Everyone can become a researcher, when she/he starts using the fifth virtue to imagine a new world and a new way of doing things”. Col che l’attitudine alla ricerca scientifica è sottratta sia alla sfera del caso (col bernoccolo per la matematica “ci nasci”, e se non ci nasci fai qualcos’altro) sia alla sfera dell’applicazione (la scienza è studio e fatica); del procedimento, del costume scientifico si isola e privilegia uno solo dei tratti caratterizzanti, un solo fascio di virtù: lo scienziato è creativo, appassionato, immaginativo, tutte doti che, non essendo misurabili nei termini aridi ma esatti dei test a crocette, tutti possono dichiarare di possedere.

Si tratta di un linguaggio sincero? Chi lo adopera pensa davvero quello che scrive? Pensa davvero che “everyone can become a researcher” o che le quattro virtù cardinali possano fare da ponte verso la quinta, che è la virtù del ricercatore? Ovviamente no, e così tocchiamo il problema fondamentale che riguarda la forma di documenti come questo. Il problema è che i documenti di questo genere sembrano essere scritti nella segreta, mai esplicitata convinzione che chi li leggerà è un cretino o, se non proprio un cretino, un burocrate col paraocchi a cui la verità (“vorremmo i vostri soldi per fare in modo che i giornali parlino di noi, così che i contribuenti vedano che siamo importanti”) può essere detta solo attraverso gli infiniti travestimenti della retorica.

Chi ha compilato questo progetto ha però chiaramente la sua parte di ragione, perché il bando sembra davvero essere stato concepito da un burocrate col paraocchi, cioè da qualcuno che ha l’aria di voler essere preso in giro, intontito dalle parole, qualcuno a cui bisogna somministrare non la verità ma una ben confezionata serie di bugie o esagerazioni. Il documento ha tre sezioni, e ciascuna sezione non deve eccedere – si dice nelle istruzioni per la compilazione – le trenta pagine: chiunque abbia partecipato a un concorso riconosce qui, dilatata, quella tendenza anti-sintetica in cui si accordano il potere burocratico (perché la proliferazione dei testi giustifica la proliferazione degli uffici preposti a esaminarli, e viceversa) e il precetto che ogni scolaro porta inciso nella carne: scrivere tanto, scrivere largo, ripetere le proprie poche idee ogni volta con parole diverse.

Secondo problema: di sostanza. Anni fa, Philippe Muray coniò l’etichetta di homo festivus per dare un nome alla nuova umanità che bruciava il suo tempo tra la Fête de la musique e Paris-Plage. Come molte buone idee reazionarie, quella dell’homo festivus diceva un pezzo di verità sui tempi tristemente gai che viviamo, ma non sapeva vedere, o rifiutava di vedere tutto il vasto mondo che stava attorno all’homo festivus e tutte le conseguenze, non solo negative, che la festivizzazione del mondo può avere ed ha su chi il mondo lo abita. Vale a dire che, da un lato, nessuna categoria concettuale è abbastanza capiente da esprimere la totalità del mondo attuale: che contiene l’homo festivus e la sua coazione al party ma anche tanti altri* homines* che fanno un buon uso della loro libertà disertando le feste e standosene per conto proprio, o con pochi amici, a studiare o a lavorare; e dall’altro che un’insospettabile quantità di intelligenza può nascere dalla stupidità: che tutto o quasi tutto, persino la tv spazzatura, persino le visite guidate per le strade di Roma, il plotone di turisti distratti dietro la guida col microfono e la bandierina, persino questo può servire a qualcosa perché porta con sé – anche se in modi stravolti, mortificanti – un’offerta che può essere colta, una chance di movimento per chi non ne ha altre, e ha tutto l’interesse a muoversi. La frenesia è volgare ma, in generale, è meglio della stasi che piace agli intellettuali.

Ma che succede quando la coazione alla festa s’insedia in luoghi che, per vocazione o compito, festivi non dovrebbero essere?

Non sarebbe giusto dire che quella che l’estensore del documento chiamerebbe la mission storica dell’università (far entrare degli ignoranti e farli uscire meno ignoranti) non sia più veramente la mission dell’università. L’idea fondamentale resta questa, e anzi negli ultimi decenni l’idea non ha fatto altro che estendersi, potenziarsi, trasformandosi nel lusinghiero Ideale (lusinghiero soprattutto per chi lo difende) di erudire tutti, e soprattutto i renitenti all’erudizione. Ma mentre un tempo questa era la sola mission che importasse, la sola della quale l’università dovesse darsi pensiero, oggi il mansionario si è infinitamente allungato e diversificato. In primo luogo, l’università è parte di un territorio, col quale deve interagire, collaborare, e al quale almeno in parte deve rendere conto. In secondo luogo, l’università è, se non proprio un ufficio di collocamento, un luogo – diciamo – neutro ma certificato nel quale, liberamente, “laureati e imprese s’incontrano”. In terzo luogo, l’università completa il processo di socializzazione che gli studenti hanno cominciato nella scuola dell’obbligo: li aiuta a fare sport, li manda all’estero per un semestre, all’occorrenza si prende cura dei loro problemi psicologici. Il Festival della Ricerca, questo strano ibrido tra una visita ai laboratori e Giochi senza frontiere, mette insieme un po’ tutti questi aspetti: i cittadini entrano nell’università e verificano (senza ovviamente poterlo davvero verificare) che i loro soldi siano spesi bene; le aziende constatano quanto siano zelanti e inventivi coloro che lavorano nell’università; e questi ultimi imparano a “vendere bene” il loro prodotto.

Tutto questo non è necessariamente un male: essere nel mondo è meglio che non essere nel mondo. Ma ci sono delle conseguenze, e la principale è che, moltiplicandosi le iniziative del tipo Festival della Ricerca, è inevitabile che energie e denaro in quantità sempre maggiori prendono la strada non della ricerca e dell’insegnamento bensì quella dell’amministrazione. L’ufficio comunicazione di un grande ateneo italiano ha le dimensioni di un piccolo dipartimento universitario. Il tempo e i soldi che si spendono per iniziative collaterali come i festival, l’orientamento, la pubblicità, sono tempo e soldi sottratti al core business dell’università, cioè all’insegnamento e alla ricerca, perché queste iniziative richiedono personale, e il personale richiede altro personale che lo amministri. L’ipertrofia dell’apparato amministrativo è stata ed è una delle ragioni della crisi delle università americane, ma ci sono buone ragioni per ritenere che problemi analoghi dovranno fronteggiare presto le università italiane. Ogni specialista di computer-grafica o “comunicatore sui social network” che viene assunto, è un paleografo, o un ingegnere, che non viene assunto. E ogni nuovo impiegato distaccato al Festival della Ricerca (o al sito d’ateneo, o al timesheet, o alla newsletter per gli alumni) è, anche, un’altra rotella dell’ingranaggio: e anche lei avrà bisogno di olio, di manutenzione nonché, e soprattutto, di qualcosa o qualcuno da controllare.

Inoltre, così come la festa era, nelle epoche prefestive (quelle descritte da Bachtin, da Camporesi), il rovescio del duro lavoro quotidiano, e però presupponeva quel duro lavoro, era l’interruzione momentanea ma anche il frutto di quella fatica, allo stesso modo, oggi, il rovescio della festività diffusa è il lavoro, ossia la variante postmoderna del lavoro: un vertiginoso intrico di progetti, riunioni, documenti preparatori, pranzi di lavoro, conference call, caffè, aperitivi per fare due chiacchiere, ore bruciate in macchina, in treno, nei parcheggi, telefonate e soprattutto email, valanghe di email che “fanno andare avanti il progetto” e danno, quando si sia riusciti a smaltirle tutte in una giornata, la sensazione di aver fatto il proprio dovere, di aver davvero lavorato. Ma più che altro è acqua pestata nel mortaio: e per quanto uno s’inventi delle storie, la sensazione che resta, dopo tutto questo agitarsi, è quella di una globale inutilità. E anche di un’inutilità personale.

L’ultimo dubbio è che alla fine sia proprio questo ciò che il mondo vuole, ciò di cui il mondo ha necessità, producendolo a sua volta: questo terziario pletorico, questo oceano di fuffa nel quale galleggiano progetti ed eventi, e uffici che pianificano, vagliano, preparano progetti ed eventi. Possibile che sia così, anzi probabile, per ragioni che un economista saprebbe senz’altro spiegare.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it