30 luglio 2012 17:33

Le Olimpiadi di Londra sono ufficialmente aperte, dopo una cerimonia spettacolare e a tratti bizzarra che aveva il compito, fra l’altro, di presentare il Regno Unito al resto del mondo. A dirigere la cerimonia è stato Danny Boyle, un regista che all’epoca di Trainspotting era considerato alternativo ma che ormai da anni realizza opere mainstream. Questo prima ancora di Slumdog Millionaire, il film che l’ha incoronato re di un cinema cosmopolita, commerciale e confortante. Ma non si è montato la testa: a detta di tutti, Boyle è un uomo simpatico e disponibile.

Scelta perfetta, allora, per portare una brezza di novità in uno spettacolo che ha assunto la sua forma moderna (un megashow dal sapore più o meno propagandistico), nei giochi di Berlino del 1936, quando l’apertura veniva immortalata da una regista cinematografica, Leni Riefenstahl. Da allora la cerimonia dei Giochi ha sempre sofferto di una crisi d’identità: per il paese è un’occasione per mettersi in mostra o un’opportunità per trasmettere i propri valori? Se si opta solo per il primo motivo, le cose sono molto più semplici. Come scrive

Marina Hyde sul Guardian, con la dovuta ironia inglese, “Le cerimonie di apertura delle Olimpiadi hanno più senso quando sono allestite da stati totalitari che vogliono annunciare la loro egemonia globale imminente. Quelle quintessenziali sono Berlino 1936 e Pechino 2008, quando la Cina ha messo l’intero mondo in soggezione con uno spiegamento folle di manodopera, creatività muscolare e magia tecnica”.

Il Regno Unito non è uno stato totalitario, ha fatto la stessa scelta di Sydney nel 2000, Atene nel 2004, e tanti altri: ha optato per una via di mezzo fra esibizionismo e comunicazione. Però, come ha scritto su twitter Verashni Pillay, il vicedirettore del giornale sudafricano Mail & Guardian Online, l’ha fatto in un modo del tutto britannico. “Altri paesi mettono i loro costumi nazionali in bella mostra, fanno vedere qualche danza locale. Gli inglesi si vantano di essere autoironici (self-deprecating)”, ha scritto Pillay. Il momento clou di questa “self-deprecation”, quello più commentato all’estero, è stato quando James Bond (l’attore Daniel Craig) entra a Buckingham Palace e viene presentato alla Regina. Sì, quella vera, che per la prima volta interpreta sé stessa in un film. Poi salgono in elicottero senza i cani, che rimangono tristemente a terra, per arrivare allo stadio olimpico dove “Her majesty” si butta dall’elicottero con il paracadute. Qualche secondo dopo, eccola di nuovo fare il suo ingresso nello stadio, questa volta dal vivo, per aprire i Giochi. È chiaro che nella fase aerea di questo incontro fra cinema e realtà la regina è stata interpretata da una sosia. Ma il fatto che si sia comunque prestata alla sceneggiata di Boyle, che sia stata al gioco, ha sorpreso molti commentatori stranieri (e anche britannici, a dire il vero).

La cosa che personalmente mi ha fatto più riflettere, però, è stato l’insieme dei messaggi che la cerimonia di tre ore ha trasmesso su chi siamo noi britannici (non “inglesi”, per carità) nel 2012. Di cosa andiamo fieri? E quali sono i momenti o i personaggi della storia, della cultura e della scienza da cui vorremo essere definiti quando abbiamo un miliardo di telespettatori che ci guardano? La risposta? Beh, prima di tutto, abbiamo voluto sottolineare il fatto che un ciclista inglese ha vinto il Tour de France: schierare Bradley Wiggins in maglia gialla come primo protagonista “dal vivo” della serata era, in parte, il riconoscimento di un’impresa sportiva notevole. E, in parte, un piccolo momento di compiacimento nei confronti di nostri cugini francesi, l’ultimo colpo di una schermaglia che va avanti ormai da secoli. Poi, avanti con l’Inghilterra rurale del cricket, delle pecore (vere), del Maypole Dance. E un nostro tesoro nazionale, l’attore Kenneth Branagh, nei panni dell’ingegnere ottocentesco Isambard Kingdom Brunel (una sorta di Leonardo da Vinci della rivoluzione industriale) che inspiegabilmente recita un discorso tratto da La tempesta di Shakespeare (forse Boyle si sarà detto: “Visto che ho poco tempo, perché non fare un ‘du gust is megl’ che uan’ culturale?”).

Dopo, in ordine: le ciminiere della rivoluzione industriale, William Blake, i minatori oppressi, lo sfruttamento delle popolazioni locali nelle nostre colonie africane, caraibiche e asiatiche (no, questo no, sto solo scherzando), le Suffragettes, il glorioso servizio sanitario pubblico britannico (quello che David Cameron vorrebbe regalare al settore privato), J.K. Rowling che legge Harry Potter, Peter Pan e Mary Poppins (“tre gust is megl’ che uan”), la London symphony orchestra che interpreta la colonna sonora di Momenti di Gloria) con l’aiuto di un Mr Bean tastierista (un “tre gust is megl’ che uan” autoironico, difficile come un triplo axel), David Bowie, i Queen, i Sex Pistols, i Beatles, Dizzee Rascal, una storia del cinema inglese attraverso alcuni film, sir Tim Berners-Lee (inventore del web) che manda un tweet che riempie lo stadio e, last but not least, la gloria nazionale David Beckham in motoscafo sul Tamigi con la torcia olimpica, premio di consolazione dopo la sua esclusione dalla squadra britannica olimpica di calcio.

Alcuni riferimenti culturali o storici erano così nostrani che ci voleva una chiave di lettura per interpretarli, come questa pubblicata su La Repubblica. Ha ragione Marina Hyde nell’articolo già citato quando scrive: “Stasera, alla Gran Bretagna è stata data la possibilità di parlare direttamente al mondo. E, come conviene a una nazione che si rifiuta di imparare altre lingue, l’ha fatto in inglese”.

Alla fine, sono uscito un po’ sbalordito da una cerimonia che il Daily Telegraph ha definito “Bonkers but brilliant” (Matta ma meravigliosa? Demente ma deliziosa?). Da una parte capisco perché Curzio Maltese abbia trovato la cerimonia “una furbata… una specie di autoelogio, inframmezzato, come fanno sempre gli inglesi, da momenti di autoironia”. Effettivamente, come ho scritto sopra, abbiamo il brutto vizio di vantarci della nostra modestia. Dall’altra parte, ho apprezzato il commento della corrispondente del New York Times Sarah Lyall, che ha scritto: “Il Regno Unito si è presentato venerdì sera come qualcosa che spesso ha fatto fatica a riconoscere perfino a sé stesso: una nazione solida nella sua identità postimperiale”.

Ho apprezzato, ma non sono totalmente d’accordo. Ho visto una nazione orgogliosa di sé, certo, ma anche abbastanza insicura nella sua identità postimperiale. Una nazione fatta di frammenti, di miti nostalgici e simboli di una coesione che è più velleitaria che reale. La cosa che ci salva, forse, è il fatto che non siamo complessati a causa di questa frammentarietà. Anzi, ci ridiamo sopra.

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