04 novembre 2013 15:17

Qualche giorno fa ho fatto una gita da una sponda all’altra del Bosforo. Per un turista a Istanbul è una tappa obbligata. Ma non l’ho attraversato con la nave: ci sono passato sotto, in treno.

La linea ferroviaria scavata sotto lo stretto che divide l’Europa dall’Asia si chiama Marmaray ed è stata inaugurata dal premier turco Recep Tayyip Erdoğan il 29 ottobre, in occasione del novantesimo anniversario dalla fondazione della repubblica guidata da Mustafa Kemal Atatürk.

Per una volta non mi sono sentito il solito turista spaesato: ero in buona compagnia. Anche per gli abitanti di Istanbul intorno a me questo viaggio - gratis per i primi giorni di apertura - era una cosa nuova, non ancora di routine. Per ora sono aperte solo quattro stazioni, due dalla parte asiatica e due dalla parte europea. Una volta a regime, la linea Marmaray dovrebbe trasportare fino a un milione e mezzo di pendolari al giorno, ma io ho visto famiglie con bambini, gruppi di ragazzi, fidanzati che si fotografavano con gli smartphone. Sembrava di stare a Berlino o Stoccolma: i treni erano belli, luccicanti, veloci, mentre le stazioni (piene di addetti che aiutavano la gente a orientarsi) erano luminose, funzionali, esteticamente curate.

È curioso trovarsi in un paese che per anni è stato sinonimo di arretratezza e invece oggi è in grande spolvero. I ristoranti sono pieni, e i prezzi sono quelli europei: a Istanbul una cena per due costa circa quaranta euro. Per non parlare, poi, di una località di mare come la supertrendy Alaçatı, che pullula di negozi griffati, cocktail bar e

butik otels. Molti turchi hanno cominciato a frequentare le isole greche - cosa impensabile fino a dieci anni fa - perché lì si spende meno.

Eppure nel nostro immaginario resiste un’idea folkloristica della Turchia. In un film come Skyfall, Istanbul è ancora rappresentata dal Gran bazar, da Aya Sofia, dai vecchi caffè alla turca e da stretti vicoli pieni di venditori ambulanti. Quando James Bond deve agire in una città supermoderna, viene scelta Shanghai. Per risparmiare bastava attraversare il Corno d’oro e puntare sui nuovi quartieri finanziari e residenziali di Levent o Maslak, con i grattacieli e gli enormi centri commerciali come Kanyon o Istinye Park, dove i turchi figli di papà vanno a disfarsi di qualche lira in eccesso.

È chiaro però che il benessere turco non è di tutti i turchi e non è neanche necessariamente nell’interesse di tutti i turchi. Il boom economico di questo nuovo impero ottomano è la copertina patinata di una rivista di difficile lettura. Il paradosso di questo paese diviso tra Asia ed Europa, tra una cultura liberale e laica (molto radicata e rumorosa soprattutto nelle città, vedi le proteste di piazza Taksim) e un elettorato prevalentemente conservatore e religioso, è messo a fuoco da un aneddoto raccontato dal giornalista britannico Christopher De Bellaigue nel corso di una riflessione molto azzecata sulla Istanbul di Orhan Pamuk, a otto anni dalla pubblicazione del libro che il premio Nobel ha dedicato alla sua città.

De Bellaigue racconta di una sua amica di Istanbul che voleva comprare casa in un’enclave di lusso in uno dei nuovi quartieri nel nord della città. Ci è riuscita nonostante la resistenza di un comitato di quartiere che non vedeva di buon occhio il fatto che fosse single. Ma quando ha ammesso di non essere vergine, le è stato proibito di frequentare la piscina pubblica perché (così le è stato riferito) poteva diffondere malattie. Le altre donne del condominio, scrive De Bellaigue, “hanno invitato la mia amica a frequentare i loro corsi sul Corano, e intanto le prestavano i loro cataloghi di biancheria intima Victoria’s Secret. Questa è la vita a cui aspirano molti turchi: una miscela di islam e America a cui Erdoğan ha dato forma”.

La mattina del giorno in cui ho preso il treno sotto il Bosforo, il 31 ottobre, quattro deputate del partito di Erdoğan sono entrate in parlamento portando il velo islamico (che in Turchia si limita di solito a un semplice foulard). L’ultima volta che una parlamentare turca aveva provato a entrare in aula con il capo coperto, nel 1999, era stata ostacolata in tutti i modi: il governo di Bülent Ecevit arrivò perfino a sospendere la sua cittadinanza.

Questa volta c’è stato qualche discorso infuocato da parte dell’opposizione, ma niente di più. Il diritto è ormai acquisito: l’abolizione del divieto di indossare l’hijab imposto da Atatürk ai dipendenti pubblici e agli studenti era un impegno elettorale di Erdoğan, ed è arrivato puntuale a fine settembre (resta in vigore per la magistratura e le forze armate, due bastioni del laicismo militante turco).

Resta da vedere se questa conquista è, come sostiene Erdoğan, una vittoria per i diritti umani e una prova di maturità di una democrazia non più legata al laicismo “repressivo” di Atatürk, oppure il segno che questo paese meraviglioso, complesso, pieno di energia, sta scivolando verso un’islamizzazione di stampo saudita, dove l’unica libertà rimasta, soprattutto per le donne, è quella di fare shopping.

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