30 luglio 2013 09:44

Sono trascorsi due mesi dal referendum bolognese sui finanziamenti comunali alle scuole d’infanzia paritarie private. Ieri il consiglio comunale si è ritrovato in maniche di camicia, con il costume da bagno già in valigia, a votare sul da farsi. Cioè niente. Ci sono volute ben due lunghe sedute consiliari per appurarlo.

Il consiglio comunale di Bologna ha respinto l’atto di indirizzo presentato da Sel (in maggioranza) e dal M5s insieme a Federica Salsi, l’epurata da Grillo (all’opposizione). Le forze politiche che hanno appoggiato il referendum del 26 maggio chiedevano che si prendesse atto del risultato uscito dalla urne. Degli ottantaseimila votanti, cinquantamila (cioè il 59 per cento) si sono detti a favore dello spostamento dei fondi comunali dalle scuole d’infanzia paritarie private a quelle pubbliche.

Il Pd si è invece espresso con un ordine del giorno per il mantenimento dello status quo precedente al referendum, e i gruppi consiliari di PdL e Lega l’hanno votato, elogiando l’operato e la posizione della giunta comunale.

Il sindaco Merola ha ringraziato gli oppositori-alleati, specificando però che non si tratta delle prove generali di grandi intese anche a Bologna. In effetti viene da dire che qui si è piuttosto in presenza di “basse intese”, davvero infime, se ciò su cui Pd e PdL si sono trovati d’accordo è ignorare l’esito di una consultazione popolare.

Del resto, è pur vero che il “democratico” sindaco Merola l’aveva annunciato già prima del voto che nulla sarebbe cambiato, a prescindere dal risultato. Dunque tutto come da copione.

Probabilmente non c’era da aspettarsi granché di diverso da forze che portano avanti una politica di piccolissimo cabotaggio, di gestione minima dell’esistente, di attenzione a non urtare alcun equilibrio di potere, nella speranza che le persone si abituino un po’ alla volta alla cessione di sovranità, alla perdita di democrazia, che elaborino il lutto, e passino oltre stringendo ancora di un buco la cinghia.

Tanto meno ci si poteva aspettare uno strappo dagli alleati di maggioranza vendoliani, che hanno condotto il dibattito consiliare con argomentazioni giuste, ma solo dopo averle disinnescate in partenza con la premessa che la suddetta maggioranza non era in alcun modo in discussione.

È meglio specificare che, parlando di democrazia, non la si intende come ideale o come feticcio formale. La democrazia è prima di tutto un’attitudine pratica all’apertura, alla discussione, alla condivisione delle decisioni che riguardano una comunità attraversata inevitabilmente da disaccordi e conflitti. La democrazia è quell’insieme di pratiche imperfette che fanno attrito rispetto allo slittamento progressivo della società verso l’oligarchia, l’unanimismo e l’autoritarismo. Un processo che avanza non già a passo di marcia, ma per forza d’inerzia e per pusillanimità politica.

E i promotori del referendum, gli eroici spartani del Nuovo Comitato Articolo 33? Sono rimasti in Piazza Maggiore non stop per tre giorni e tre notti, dandosi il cambio su un piedistallo, come statue viventi, esponendo un cartello molto semplice: “Rispetto per il referendum”.

Infine, ieri, quando ormai è stato chiaro che i giochi erano fatti, hanno emesso l’ultimo comunicato, avanzando una richiesta provocatoria a tutto il consiglio comunale, maggioranza e opposizione trasversali: se dalla consultazione popolare non siete in grado di trarre alcuna conseguenza, né di tipo amministrativo né di tipo politico, abbiate il coraggio di modificare lo statuto comunale e cancellare lo strumento del referendum consultivo.

In effetti, dopo il voto consiliare di ieri che senso potrebbe mai avere chiedere di essere ancora consultati?

Del resto, basta alzare lo sguardo sull’Italia e constatare che, oltre a un parlamento eletto con una legge che avrebbe fatto invidia ai paesi del socialismo reale, abbiamo il secondo governo non eletto consecutivo, sorretto dalle medesime forze conservatrici.

Questa nazione è diventata una repubblica presidenziale

de facto, senza elezione diretta del presidente. E attualmente è governata da una compagine tanto promiscua quanto immobile che riesce a compattarsi perfino di fronte a una plateale violazione dei diritti civili e internazionali come il caso Ablyazov.

Di fronte a tutto questo che importanza potrà mai avere un referendum consultivo ignorato? Ne ha. È il caso di preoccuparsi di ogni segnale che ci dice forte e chiaro a cosa dovremo fare fronte.

La partita bolognese finisce così, nel mezzo di questa lunga estate calda, ma resta l’esempio pratico di ciò che è successo, l’incredibile esperienza di lotta dal basso che ha sfidato i vertici della politica e dell’economia cittadina e li ha battuti sul campo. Resta il paradosso in cui questi si sono chiusi, incapaci di riconoscere la sconfitta, costretti a negare la realtà, arroccati dentro il palazzo, mentre fuori il mondo cade a pezzi (per dirla con Marco Mengoni).

I reduci della battaglia, che ieri si sono visti negare anche il minimo riconoscimento dei loro sforzi e della vittoria ottenuta insieme a cinquantamila bolognesi, non stanno a lagnarsi o a piangersi addosso. Raccolgono lancia, spada e scudo e tornano a lucidarli per la prossima occasione. Perché di questo almeno si può stare certi: non mancheranno le occasioni per ingaggiare ancora battaglia insieme a tutti coloro che vorranno esserci. In difesa della scuola pubblica e contro l’arroganza del potere politico.

“We shall overcome / some day…”

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