11 agosto 2013 06:58

*Il centro di Hanawon ad Ansung, in Corea del Sud, il 28 maggio 2009. (Seokyong Lee, Bloomberg/Getty Images) *

Il centro si trova all’interno di un complesso di edifici color mattone circondati da risaie, campi e alcuni capannoni. Raggiungerlo non è molto facile, in teoria nessuno dovrebbe conoscerlo, e la persona con cui abbiamo appuntamento non ci dà indicazioni. La chiameremo appena arrivati dalle parti di Anseong, una città industriale a circa novanta chilometri da Seoul, e spiegherà direttamente al tassista come arrivare. Riuscire a visitare il centro di Hanawon, dove i coreani scappati dal Nord trascorrono i loro primi tre mesi al Sud per imparare a vivere in una democrazia capitalista e diventare dei perfetti sudcoreani, è un’impresa lunga e macchinosa, e l’ok definitivo lo riceviamo solo due giorni prima della data fissata. Il protocollo di sicurezza osservato qui è lo stesso della Blue House, la residenza presidenziale, perché, ci spiegano, si temono attacchi terroristici da parte dei nordcoreani infiltrati al Sud. La presenza dei defectors, disertori, come sono impropriamente chiamati in inglese i fuggiaschi del Nord, o rifugiati, altro termine inesatto perché una volta al Sud ottengono la cittadinanza sudcoreana, rende Hanawon un obiettivo sensibile. Una volta ottenuto il pass all’ingresso, però, l’atmosfera è tutt’altro che tesa. Un gruppo di donne di età diverse, con magliette azzurre e pantaloni neri, esce dalle classi dove è appena finita una lezione. Chiacchierano a voce alta, ridono e s’inchinano davanti agli estranei in visita.

La struttura, aperta nel 1999 in piena sunshine policy – la politica di distensione dei rapporti tra Seoul e Pyongyang finita nel 2008 – ospita solo donne e bambini. Gli uomini sono in un altro centro, aperto nel 2012. In totale i due centri di “rieducazione”, gestiti dal ministero dell’unificazione di Seoul, ospitano 1.100 persone, 700 a Hanawon e 500 in quello nuovo. La maggior parte dei nordcoreani che scappano viene dalle province al confine con la Cina: per chi vive nel resto del paese il viaggio è troppo lungo e pericoloso, e ottenere i permessi per spostarsi da una provincia all’altra, che sono obbligatori, non è facile se non si hanno i soldi per pagare le mazzette ai funzionari. La stragrande maggioranza, più del 70 per cento, è composta da donne. Un dato che si spiega con il fatto che le donne, in Corea del Nord, in genere svolgono piccole attività commerciali per integrare le entrate insufficienti con il solo stipendio dei mariti, quindi hanno più facilità di movimento, in particolare quelle che commerciano attraverso la frontiera porosa con la Cina.

Ci sono circa 25mila nordcoreani in Corea del Sud ma il flusso, cominciato a metà anni novanta con la morte di Kim Il-sung e l’inizio della grande carestia arrivata dopo che Mosca ha smesso di mandare aiuti a Pyongyang, è diminuito negli ultimi due anni. “In coincidenza con la morte di Kim Jong-il nel dicembre del 2011 e la transizione al potere, il regime ha irrigidito i controlli lungo la frontiera, e lo stesso ha fatto Pechino, quindi si è passati dai 2.700 fuggiaschi del 2011 a circa 800 nel 2012 e nel 2013”, ci spiega Seung Hun Jung, direttore della pianificazione dell’educazione a Hanawon. Solo una minoranza arriva direttamente al Sud attraverso la Cina e altri paesi asiatici – come Laos e Thailandia, dove si rivolgono all’ambasciata sudcoreana. Anche perché chi scappa, in genere, non ha intenzione di raggiungere il Sud. Solo una volta resisi conto che in Cina sono clandestini e rischiano il rimpatrio, decidono di partire. Molte nordcoreane rimangono in Cina anche diversi anni, alcune si sposano, tante finiscono nelle mani dei trafficanti che le vendono come mogli o prostitute.

Chi entra a Hanawon ha già superato il vaglio dell’intelligence, che deve accertarsi che non si tratti di spie mandate da Pyongyang, e dopo tre mesi esce con una nuova carta d’identità, la cittadinanza sudcoreana e un grande punto interrogativo sul futuro. La parte più difficile, infatti, comincia insieme alla nuova vita nel paese d’adozione. Il programma d’inserimento dei nordcoreani prevede innanzitutto cure mediche e supporto psicologico. “Molte donne arrivano con problemi gastrointestinali, epatite e patologie legate alla malnutrizione, e hanno bisogno di cure dentistiche che non hanno mai ricevuto in vita loro”, ci spiega Seung Hun Jung. La clinica odontoiatrica, vuota quando la visitiamo, sembra nuova di zecca, con apparecchiature ipertecnologiche e una dottoressa che ci sorride da dietro la mascherina. Insieme allo studio psicologico e a quello psichiatrico, la clinica è sponsorizzata da aziende private, tra cui la Hyundai, il cui fondatore aveva origini nordcoreane. Dopo la prima assistenza, comincia il ciclo di lezioni obbligatorie e alcune ore di corsi facoltativi. “Il livello d’istruzione delle ospiti del centro in genere è basso”, racconta Seung Hun Jung. “Molte arrivano da regioni sottosviluppate e dopo la grande carestia, tra il 1994 e il 1999, il sistema d’istruzione al Nord è collassato. I ragazzi non andavano più a scuola per lavorare nei campi, quindi il tasso di analfabetismo tra chi era in età scolare in quegli anni è alto e con loro bisogna cominciare da zero”. Si studia la lingua, che in più di 60 anni di divisione a nord e a sud del trentottesimo parallelo si è diversificata. Chi vuole può seguire anche un corso per imparare la pronuncia standard del coreano, in modo da camuffare un accento che potrebbe rivelarsi un ostacolo all’integrazione. Si studia la versione “corretta” della storia della penisola, dato che nelle scuole nordcoreane si insegnano solo le imprese eroiche del Grande leader Kim Il-sung e del figlio Kim Jong-il. Si studiano i rudimenti dell’economia di mercato, la matematica, e s’impara cos’è e come funziona un sistema democratico. Oltre alla teoria, ci sono molte lezioni pratiche: come aprire un conto in banca, come usare il bancomat, come prendere la metropolitana o affittare un appartamento. Come prima esperienza del mondo esterno, le ospiti di Hanawon trascorrono una notte in una casa vera, con una famiglia sudcoreana. Nulla, però, rende l’idea di come sarà la vita fuori.

La formazione professionale – lezioni di maglia, cucito e cucina per le donne, lavori pesanti per gli uomini – e l’inserimento nel mondo del lavoro sono le sfide più difficili per il ministero dell’unificazione, che nel 2012 ha speso 100 miliardi di won (circa 67 milioni di euro) per il programma d’inserimento e deve fare i conti con dati negativi. “Offriamo incentivi alle aziende che assumono nordcoreani pagando 500mila won al mese (340 euro circa) per un anno e, se si supera l’anno, 700mila won al mese per un massimo di tre anni”. Al momento sono 2.500 le aziende che partecipano al programma, ma il tasso di disoccupazione tra i nuovi coreani del sud rimane ancora alto. Il ministero parla del 7,5 per cento, mentre il tasso al Sud è del 2,8 per cento. Secondo altri dati, però, la percentuale dei nordcoreani che non trovano lavoro sarebbe quasi il doppio. “Nessuno vuole assumerli, ci vuole troppo tempo perché si adattino e imparino il lavoro”, ci spiega Hyeon Seo Lee, studentessa universitaria e attivista per i diritti dei cittadini del Nord scappata da adolescente e arrivata a Seoul dopo dieci anni trascorsi in Cina. Per lei i tre mesi a Hanawon sono stati del tutto inutili. “Una totale perdita di tempo. In Cina avevo lavorato per un’azienda sudcoreana, avevo un fidanzato del Sud e sapevo già prendere la metropolitana e cose simili”. Ma la sua storia è un’eccezione che merita un racconto a parte.

È ora di pranzo, e le madri con i figli che frequentano l’asilo nido si dirigono verso la mensa. Nei corridoi sono appesi i disegni dei bambini della scuola materna: in uno c’è l’aereo con la bandiera sudcoreana con cui l’autore è arrivato al Sud dalla Thailandia. In un altro ci sono delle navi, e anche qui svetta la bandiera bianca rossa e blu. I più piccoli – al momento a Hanawon ci sono 14 bambini in età prescolare – trascorrono alcune ore alla settimana negli asili della zona, in modo da farli interagire con i coetanei. Probabilmente saranno loro quelli davvero in grado di integrarsi in una società che, a giudicare dalle testimonianze di molti nordcoreani, non si mostra molto accogliente.

Quando chiediamo al direttore un bilancio finale del programma d’inserimento che ci ha appena illustrato con slides molto dettagliate, si capisce che abbiamo toccato un tasto dolente. Nonostante i 4 milioni di won una tantum (2.700 euro) al momento del “diploma”, l’assistenza per trovare una casa (il governo fornisce appartamenti in leasing), altri 3 milioni di won divisi in tre tranche (e un’assistenza speciale per i disabili, le madri single e gli anziani) e 18 milioni per chi mantiene lo stesso lavoro per almeno sei mesi, la percentuale di chi riesce a mantenersi e a integrarsi è bassa. “Circa il 50 per cento vive con il sussidio di sussistenza del governo e molti devono pagare i debiti contratti per arrivare al Sud e mandare aiuti alle famiglie rimaste al Nord”, ammette Seung Hun Jung, che però è convinto che, se un giorno dovesse esserci l’unificazione, il programma messo a punto a Hanawon potrebbe essere un modello per favorire l’integrazione. “Ma, se mai dovesse accadere, la risorsa più importante per l’integrazione dei nuovi cittadini sarebbero i nordcoreani che escono da qui”. Ma oggi l’unificazione sembra ormai solo un miraggio da nostalgici. Al Sud, specialmente ai giovani, non sembra importare granché, né dell’unificazione né dell’integrazione dei cugini del Nord. Forse, ci permettiamo di suggerire al Sig. Seung, si potrebbe pensare a un programma di educazione anche per i coreani del Sud.

(Grazie a Andrea De Benedittis per l’interpretariato)

Junko Terao è l’editor di Asia e Pacifico di Internazionale. Su Twitter: @junkoterao

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