04 aprile 2015 12:11

Non so che rapporto avete con la Pasqua o con il cristianesimo in generale, se voi siete credenti o dei convinti anticlericali, islamici o buddisti; se siete stati battezzati – e ne avreste fatto a meno – o se siete per qualche motivo familiare affezionati comunque alle feste della settimana santa; se vi piace l’uovo e l’abbacchio ma ve ne fregate dei simbolismi annessi; se consideriate il cattolicesimo un fanatismo o il residuo obsoleto di una modernità ormai declinante oppure magari tutto sommato non vi dispiace questo papa…

In ogni caso, se oggi provaste a entrare anche due minuti in una chiesa rimarreste spiazzati.

Il sabato santo è l’unico giorno dell’anno in cui non si celebra la messa. Le porte delle parrocchie e delle cattedrali sono aperte, i sacerdoti girano tra i banchi con un’andatura smarrita, l’ambiente è pulito, entra un’aria umida dalle porte lasciate socchiuse, qualcuno magari ha anche messo i fiori a posto; ma la sensazione che si respira è quella di uno sciopero, di una dismissione.

Il tabernacolo dietro all’altare è spalancato ma vuoto. Qualcuno forse, in sordina, s’inginocchia, si confessa. Ma non c’è nessun odore di incenso. Nessun cero acceso.

Se giovedì santo e il venerdì santo sono il teatro di due riti intensi e complessi come la coena domini e la via crucis, ritrovarsi di fronte a questo silenzio mette invece in imbarazzo anche il più fervente tra i credenti. Che senso ha questa giornata di nulla?

Secondo la tradizione, nel sabato santo Gesù – dopo essere morto sulla croce – visita gli inferi. Il credo recita: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi”. In uno dei passaggi più misteriosi e discussi della Bibbia (la lettera di Pietro, 3-18,19) si dice: “Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione”. In ebraico gli inferi e la prigione sono lo sheol, il luogo dei morti, appunto.

Perché scende laggiù? Per manifestare la sua divinità anche a loro? Per salvare tutti, anche i morti? Per patire addirittura l’inferno? Perché Dio è morto sul serio e Gesù, come tutti gli uomini, accetta di vivere nel pieno l’esperienza della morte?

Poi, lo sappiamo, arriva il terzo giorno, la domenica, e c’è la resurrezione, la Pasqua, il pranzo con i parenti, la fila per il mare.

Ma guardando le cose dalla prospettiva di oggi, tutta la vicenda di Cristo e del cattolicesimo assume un altro colore.

E se non resuscitasse? E se non ci fosse la Pasqua? E se la verità della religione fosse questa chiesa deserta, senza un rito? Se anche domani non ci fosse nessuna messa, e domani l’altro lo stesso? Le chiese come luoghi in cui contemplare il vuoto di senso, un dio che è morto, e meditarne l’assenza irreparabile.

In fondo, credere nella morte di Gesù non è complicato – anche considerandolo semplicemente un invasato che girava da un paese all’altro nella Palestina di duemila anni fa. Credere nella resurrezione è certo meno scontato; ma per un credente o per un non credente, non è raro ritrovarsi ad ammettere che la religione sia una specie di rassicurazione: una consolazione, un balsamo contro le angosce della sparizione, e la paura della fine. Dio mi rasserena, e me lo tengo così.

Sarà vero? Non sarà vero? Pace. Credere nella vita dopo la morte – che io sia cristiano o di un altro culto – mi dà comunque il controllo sulla mia vita. Credo perché credo, perché voglio credere; questa capacità del resto non manca nemmeno ai fondamentalisti.

La cosa più difficile è dunque tenere le due cose insieme: la morte e la resurrezione. Qui si vacilla.

Anche se prescindiamo dalla teologia cristiana, la sfida più ardua è proprio questa: poter sostare in un doppio deserto, quello terreno e quello celeste. Guardare in faccia la morte fino in fondo, e fissare al tempo stesso un cielo vuoto. Chi ce la fa?

La scrittrice Cristina Campo, in una riflessione sulla liturgia del sabato santo, scriveva: “Come si fa a credere a un dio che è silenzioso, non si mostra, non offre garanzie, non rassicura?”.

Sarebbe più agevole passare dal venerdì santo direttamente alla domenica. “La chiesa stessa è sempre sospettosa verso l’assenza, verso il silenzio di Dio, preferisce il martirio al senso di sospensione di una risposta non data. Teme il vuoto, confonde l’assente con il nulla”.

Nel flusso di notizie non si parla poco di dio, di religione, di fede. Qualche giorno fa in un Kenya apparentemente tranquillo centocinquanta ragazzi sono morti, vittime del fanatismo religioso , del fondamentalismo armato. Erano a scuola, è arrivato un commando, sono stati trucidati, alcuni sono stati sgozzati.

Le truppe d’assalto che sono intervenute hanno sparato sui guerriglieri e quelli sono – a quanto dicono le cronache – letteralmente “esplosi”.

Cosa c’entra Dio in tutto questo, che sia un dio islamico o cristiano, è difficile dirlo. Certo ci si domanda: perché in questi casi non si manifesta? Forse se si facesse a meno delle religioni, si eliminerebbe una consistente quantità di odio nel mondo? O forse un mondo privo di ogni fede sarebbe un luogo di persone senza speranza?

Il sabato santo è il tempo per queste domande che non abbiamo smesso di farci, un giorno paradossalmente ecumenico – per certi versi l’immagine della nostra vita stessa, a pensarci: una scarna e silenziosa sala d’attesa per qualcosa che non sappiamo se accadrà.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it