22 agosto 2015 16:11

Qualche giorno fa ero a Forte dei Marmi, un posto che conosco bene, o almeno mi sembrava di conoscere bene, che passeggiavo per via Mazzini. Mi hanno fermato un ragazzo e una ragazza in bicicletta, cappellino in testa e piantina in mano: “Scusi, dov’è il centro storico?”.

“Di là”, ho risposto. “Ma è solo quel viale con i negozi?”. I due ragazzi si sono guardati e hanno riso: “Grazie, signora”. Poi hanno inforcato la bici e se ne sono andati spediti verso il mare. Ci sono rimasta subito un po’ male: io amo il Forte, lo amo a prescindere, anche se non ci vado quasi più e se non vado mai a vedere i negozi. Così ho deciso di andare a fare un giro. Erano le tre del pomeriggio, era tutto chiuso e immobile. È vero, il centro di Forte dei Marmi è solo uno shopping district di extralusso, un susseguirsi di vetrine.

Forse è sempre stato così, ma un tempo almeno c’era il cinema estivo nel cortile di una palazzina del centro, c’era la sala giochi con dentro fortemarmini veri, c’era quello che vendeva l’anguria con i tavoli di legno. Oggi è un paese laccato, sterilizzato, lucidato come il vetro di un negozio. Il paese-bomboniera, come lo chiama Fabio Genovesi, fortemarmino e autore di romanzi quasi sempre ambientati qui, e di un libro-reportage ormai di culto, Morte dei Marmi.

Cos’è successo al Forte? È successo che nell’ultimo decennio la grandissima maggioranza dei suoi immobili è stata venduta a stranieri: russi, arabi, svizzeri. Dove c’erano boschi e pinete – e case bellissime, dal gusto impeccabile, di ricchi italiani del nord – oggi ci sono villone color pastello, colonne, mosaici, fontane. Sono stati proprio i parmigiani, i milanesi, i fiorentini della prima ondata, mi spiega il sindaco Umberto Buratti, a vendere ai russi, più che ai locali. Sarà, ma il risultato è lo stesso. Da quando è arrivato questo “tsunami di denaro”, tutto è cambiato.

Certo, in paese i russi non sono molto amati, nonostante i soldi che hanno portato. Il proprietario di uno stabilimento balneare frequentato da gente normale, lontano insomma dagli sfarzi di Roma imperiale storicamente apprezzati dai vip, mi dice per esempio che quest’anno c’è stato un calo della clientela del 20 per cento. “La crisi colpisce la classe media, e quindi i nostri clienti sono i più colpiti. I russi? Io non li prendo. Da noi c’è solo una coppia con un bambino, ma sono russi normali. Quelli capricciosi con mille pretese non li prendo. Preferisco lavorare un po’ meno, e non avere persone maleducate”.

Oggi comunque la cosiddetta ondata dei russi è quasi finita o è in forte calo, ma nel frattempo il Forte è diventato un’enorme vetrina, non solo dal punto di vista materiale, ma anche fiscale. “Gli alberghi qui non producono un vero e proprio utile”, mi spiega un agente immobiliare. “Non rendono davvero. Quello che spendi è più di quello che guadagni in tre mesi. Lo stesso vale per i negozi. Non credere che il negozio di Gucci venda veramente. Le grandi marche comprano questi negozi solo per farsi pubblicità, per avere una vetrina”.

Un pescatore a Forte dei Marmi, il 1 settembre 2014. (Sergey Ponomarev, The New York Times/Contrasto)

Secondo il Sole 24 Ore gli italiani hanno ricominciato a comprare case di villeggiatura, e tra le più costose d’Italia, dopo Santa Margherita Ligure e prima di Capri, ci sono proprio quelle di Forte dei Marmi, con 14mila euro al metro quadrato. “Anche 30mila”, continua l’agente di Forte Case. “Qui le case a 10 milioni di euro le vendi in una giornata, sia agli italiani che agli stranieri, mentre non si riescono a vendere le case da un milione. Quelle rimangono lì. Lo stesso vale per gli alberghi: un hotel a cinque stelle è più facile vendere di uno più modesto”.

È il paradosso dell’extralusso, bellezza. Qui al Forte c’è un mondo al contrario, dove gli abitanti non ci sono più, dove puoi acquistare un cappottino di Gucci per il tuo cane, ma dove è impossibile trovare non dico un calzolaio, ma una copisteria. Volete comprare una risma di carta per la fotocopiatrice? Dovete prendere l’auto e andare a Querceta o a Pietrasanta, nell’entroterra. Però se volete l’indirizzo di un hotel per cani a cinque stelle, eccolo qui.

“È chiaro, gli affitti sono troppo alti per una cartoleria. Ma a tutto questo c’è rimedio”, dice Fabio Genovesi. “C’è rimedio ai negozi di Prada al posto del calzolaio, perché in quel negozio a un certo punto può sempre tornare il calzolaio. Invece al cemento no, le ville in stile Las Vegas dei nuovi milionari, costruite al posto del boschetto, ecco, quelle ce le teniamo. E addio verde. Che poi non sono tutti russi. I russi sono ormai indistinguibili dagli italiani, solo a che a noi fa comodo chiamarli così. Ma siamo noi”.

Resta un mistero: il carattere respingente e assai poco incline all’accoglienza dei locali

Anche per i libri la vita è dura. Però c’è la bella Libreria del Forte dell’instancabile Stefano Giannotti, archeologo e libraio. “Il negozio è di mio padre, quindi spendo poco per l’affitto, altrimenti non riuscirei mai a tenere aperto”. D’estate si vende, soprattutto a clienti tra i cinquanta e i sessant’anni. L’inverno è duro, mi spiega Stefano: “Al limite della sopravvivenza”.

L’estate e l’inverno. Le due anime diversissime e insieme molto definite di questo litorale incastrato tra la Liguria, Massa e Viareggio. Da un lato gli abitanti, burberi all’ennesima potenza, e dall’altro i nobili e gli industriali chic che ci venivano in vacanza, i “signori”.

Se la cultura del luogo ha prodotto un pensiero anarchico, ribelle, grazie a scrittori un po’ outsider come sono stati Enrico Pea e Manlio Cancogni e come oggi è Genovesi, Forte dei Marmi è famoso quasi solo per la ricchezza dei suoi frequentatori. Personaggi indimenticabili come il Moscardino di Pea e gli antieroi sfigati di Genovesi non hanno davvero nulla di borghese. “Pea era un grandissimo, tradotto da Ezra Pound! Oggi è un dimenticato. Eppure il fatto di essere un outsider o anche solo un povero a Forte dei Marmi è ancora più interessante dal punto di vista letterario, il contrasto è più forte che altrove”, continua Genovesi.

Resta un mistero: il carattere respingente e assai poco incline all’accoglienza dei locali. Com’è possibile che questo dettaglio non abbia ostacolato il turismo? Che anzi lo abbia aiutato? Scrive Fabio Genovesi in Morte dei Marmi:

Siamo gente poco abituata alle vie di mezzo, siamo nati in mezzo agli estremi, stretti tra il mare e le vette di duemila metri, in un paese che d’estate è Disneyland e per il resto dell’anno somiglia alla Transilvania. Gente costituzionalmente incapace di accogliere il turista, ospitandolo e condividendo gli stessi spazi, il popolo di Forte dei Marmi ha sempre preferito consegnargli il paese, inginocchiandosi e servendolo a testa bassa. E questo mica per un sentimento di inferiorità o devozione, no, questo solo perché inginocchiandosi e abbassando lo sguardo si può evitare di guardare l’altro negli occhi, di parlarci e avviare un rapporto umano.

Il sindaco Buratti – area centrosinistra, da poco confermato dalle elezioni regionali con un’ampia maggioranza – per darmi conferma del brutto carattere dei versiliesi cita un vecchio romanzo di Riccardo Bacchelli, Il fiore della Mirabilis (1942), in cui si racconta di come la gente del Forte fosse dura, diffidente, tanto che quando aprirono la farmacia nessuno voleva comprare le medicine, perché non c’era da fidarsi dei medici.

Ma basta andare in spiaggia e fare due chiacchiere con un bagnino per avere conferma di tutto ciò. “Per l’ombra spostare la sdraio, non l’ombrellone”, si legge vicino alle cabine di uno stabilimento. È la peculiare forma di gentilezza di questa gente, penso.

Al Bagno Felice c’era un bagnino, che oggi ha più di ottant’anni, conosciuto in tutto Forte dei Marmi per i divieti impensabili che imponeva ai bambini: “Non giocate”, “Non correte”, “Non urlate” (ma in tutto il litorale di Forte è vietato perfino appendere gli asciugamani ai tendoni). Benito, che oggi è in pensione, passa tutta la giornata all’ingresso dello stabilimento, seduto sotto un platano. Sta lì a controllare chi entra e chi esce. Saluta con un cenno impercettibile del capo, e parla solo in rarissimi casi. Somiglia un po’ a uno dei personaggi di Chi manda le onde, l’ultimo romanzo di Fabio Genovesi (premio Strega giovani) che è appena stato venduto all’asta negli Stati Uniti.

Il ristorante Lobster Russian Corner a Forte dei Marmi, il 29 agosto 2014. (Sergey Ponomarev, The New York Times/Contrasto)

“Per inventare il personaggio di Ferro ho messo insieme un po’ di vecchi bagnini che conosco. Devo molto a queste persone, sono loro che mi hanno aiutato a creare l’epica di questa terra”. Ferruccio detto Ferro è la summa letteraria del brutto carattere versiliese. È appunto un ex bagnino in pensione, che vive nella Casa dei fantasmi, un’abitazione molto malmessa e circondata da un boschetto ancora selvatico, uno dei pochi rimasti. Ferro ci abita orgogliosamente e la difende dall’eventuale arrivo dei russi armato di fucili, uno per stanza, e con l’aiuto di qualche mina sparsa in giardino: “Ho un fucile per ogni finestra e una riserva di grappa che mi dura cento anni. Adesso digli ai russi che vengano, digli che vengano quei figli di puttana delle agenzie a dirmi che devo vendere per forza”. La casa, simbolo di una Forte selvatica, è descritta così dalla narratrice tredicenne del romanzo:

La Casa dei fantasmi fa paura solo a guardarla. Le case vicine sono tutte nuove, giganti e color crema, i padroni ci stanno solo in agosto e lo stesso sono sempre pulite, l’erba è tagliata precisa e gli alberi non ci sono proprio, o al massimo qualche palma perché le palme non sporcano. La Casa dei fantasmi invece sparisce in fondo a una foresta di alberi fitti e storti, che sembrano lì lì per cadere ma forse stanno in piedi perché si reggono l’uno con l’altro, si attorcigliano e si mescolano e sotto ci sono i rovi e le spine ed è sempre buio, anche adesso che è l’ora di pranzo.

Ma c’è un aneddoto che chiunque abbia frequentato Forte dei Marmi tra gli anni ottanta e novanta conosce. Una storiella che la dice lunga sul caratteraccio e sull’indifferenza alla fama di questa gente. Una mattina del 1987 Ruud Gullit, stella del calcio, entrò in una panetteria (che oggi non esiste più) e l’anziana padrona lo cacciò pensando fosse un “vu cumprà”, come si chiamavano allora i neri che avevano cominciato a vendere accendini e fazzoletti di carta.

Genovesi mi spiega che a quei tempi c’erano i veri vip, tipo Mina o Mike Bongiorno, che non volevano essere riconosciuti o scocciati, e quindi i bagnini del Forte erano perfetti. “I vip di oggi ci tengono molto a essere riconosciuti e fotografati. La gente fa la fila davanti ai negozi per vedere queste star che sono star per una o due estati se gli va bene”.

Dopo aver vagato per le vetrine in attesa che il caldo passasse, ho deciso di fare un giro per il lungomare. Sono partita dal pontile, il famoso simbolo del Forte. Per una qualche magia dell’urbanistica, questo lungo molo che fu distrutto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale e poi ricostruito, è rimasto identico negli anni. Anche se è a due passi dalle vie dei negozi, il pontile pullula ancora di vecchietti che si danno appuntamento per commentare i fatti del giorno, come succede in ogni piazza di paese. Ci vanno i ragazzini a pescare o a tuffarsi e i venditori ambulanti che fanno una pausa tra una passeggiata sulla sabbia e l’altra.

L’anno scorso il sindaco ha emesso un’ordinanza per chiudere l’area sotto al pontile con delle reti in modo da impedire i bivacchi e l’accumulo di sporcizia, ordinanza che naturalmente ha fatto discutere. La sera al tramonto ci sono anche molti turisti che vengono a passeggiare e a vedere le onde, che in fondo sono molto meglio delle vetrine.

Ecco la famosa Capannina di Franceschi. Un locale che è un pezzo di storia

Proseguendo sul lungomare verso la parte più esclusiva del paese (qui tendone e cabina da maggio a settembre possono costare anche 10mila euro), a un certo punto ci s’imbatte in una gigantografia di Jerry Calà. Ecco la famosa Capannina di Franceschi. Un locale che è un pezzo di storia, come si dice.

All’inizio del novecento la Capannina era un capanno degli attrezzi in riva al mare, dove s’incontravano Ungaretti, Montale, Primo Levi e naturalmente lo scrittore Enrico Pea, nato a Serravezza, che era un po’ il riferimento culturale dell’epoca in Versilia. Manlio Cancogni, nato anche lui in Versilia – nella Fiumetto dove ancora oggi, a 98 anni, vive – era negli Stati Uniti a fare il giornalista. Italo Balbo si dice che arrivasse alla Capannina in aliante. Si beveva Negroni.

Poi vennero le star internazionali: Edith Piaf nella sua unica apparizione in Italia, Paul Anka, Maurice Chevalier, Pérez Prado. Poi l’incendio. La ricostruzione. “In quella zona della Versilia scoprii, insieme ad altri ragazzi, il jazz hot”, ha scritto Attilio Bertolucci, che aveva casa ai Ronchi. “Ascoltavamo all’interno della piccolissima Capannina di allora i dischi di Armstrong, di Ellington. Ricordo ancora il vecchio grammofono”.

Nella strada dei negozi di lusso a Forte dei Marmi, il 29 agosto 2014. (Sergey Ponomarev, The New York Times/Contrasto)

Il fondatore della Capannina si chiamava Achille Franceschi, amico degli artisti e lui stesso scultore che aveva frequentato la scuola d’arte a Pietrasanta. Franceschi aprì anche il Grand hotel, dove andava Thomas Mann, e l’hotel Franceschi (conosciuto al Forte come Villa Nella, dal nome della moglie di Franceschi che lo gestiva come fosse una casa aperta agli ospiti: un luogo incantato e sobrio, oggi purtroppo chiuso dopo una vendita all’asta a un industriale che poi è fallito). Negli anni ottanta e novanta alla Capannina ci venivano Edoardo Vianello e Bruno Lauzi ma anche Ray Charles e Gilberto Gil. Io ricordo i poster di Ornella Vanoni, di Cocciante. Oggi durante la stagione estiva si alternano mestamente Umberto Smaila e Jerry Calà (a parte gli eventi speciali dell’estate, i Subsonica e Skin).

La parabola della Capannina rappresenta un po’ l’evoluzione dell’Italia. Un tempo non si poteva entrare in Capannina con i jeans strappati. Oggi c’è Belén Rodríguez con i suoi minishort sbrindellati. Dove c’era il jazz oggi c’è il silicone. “È molto rassicurante dire che il Forte è cambiato”, dice Genovesi. “È tutto cambiato. È cambiata l’Italia. I miliardari sono cambiati. Siamo cambiati noi. E poi il passato è destinato a essere sempre più scintillante del presente, dài. E in ogni caso questa è la ricetta del Forte: vagheggiare una versione passata di sé. Perché è questo il desiderio della gente che torna in questo posto ogni estate”.

Il sindaco Buratti ha dovuto occuparsi di una delle peggiori ferite mai subite dal paese: la tromba d’aria del marzo scorso, con un vento a 300 chilometri all’ora che ha dimezzato letteralmente i famosi pini marittimi simbolo di Forte dei Marmi. Via Trento, via Scassi Carli, il parco della Versiliana, almeno nella parte che costeggia viale Apua, sono irriconoscibili. “Abbiamo avuto circa tre milioni di euro di danni a livello pubblico, ma anche tanti danni a privati, perché i pini sono caduti quasi sempre su qualcosa, macchine, porticati, siepi, cancelli”.

“Io sono nato e cresciuto in via Trento”, mi racconta il sindaco, e “quando ero bambino d’estate traslocavamo per lasciare la casa ai villeggianti. Andavamo a vivere nel retrobottega di mia madre, che faceva la sarta. È vero, oggi la maggioranza delle case è stata venduta ai russi, ma stiamo cercando di favorire i residenti con un piano casa che prevede degli aiuti, con un vincolo di vent’anni”.

Buratti mi dice che a Forte dei Marmi manca lo spirito associativo e che si cerca di lavorare in quella direzione sostenendo l’associazionismo culturale e sportivo. “Se è difficile fare le cose in generale, qui lo è di più”. Ora il comune è alle prese con la direttiva Bolkestein, una direttiva europea che prevede di rimettere sul mercato le concessioni demaniali degli stabilimenti balneari entro il 2016, prorogata al 2020, e che farebbe perdere migliaia di posti di lavoro (per ora ha azzerato gli investimenti provocando solo danni e incertezza).

Come si fa a non essere nostalgici quando si cerca un posto che non c’è più?

Fabio Genovesi mi aveva avvertito. Il rischio più grande quando si parla del Forte – un rischio direttamente proporzionale all’età – è la cifra nostalgica. Ma come si fa a non essere nostalgici quando si cerca un posto che non c’è più? Un paese fantasma dove non vive più nessuno? Se sono nostalgica io, figlia di villeggianti della prima ondata, figuriamoci i vecchietti del pontile. Dov’è la sala giochi? Chiusa. Che è successo al bar Sport sulla via provinciale, quello dove si prendevano le prime sbronze? Oggi c’è un ristorante azzurrino pieno di pizzi e merletti che sembra una fotografia di Instagram. Dove è la gelateria Nelson? Chiusa, al suo posto c’è un cantiere. Stanno costruendo “appartamenti di lusso”, però non hanno mai i soldi per finirli.

D’accordo, c’è ancora Valè che fa le schiacciatine più buone del mondo, c’è ancora la pista con i pony sedati. Il chiosco dell’Anguria, per dire, che esiste in ogni località di mare, qui l’hanno chiuso perché rovinava l’eleganza delle vetrine di Prada. “Questa cittadina che di fantasmi campa, rivendendoti ogni giorno a caro prezzo i tuoi stessi ricordi”, ha scritto Edoardo Nesi, pratese, che ha frequentato e frequenta la Versilia.

Ma perché qui sono sempre venuti tantissimi artisti, scrittori, intellettuali? La prossimità anche visiva di montagna e mare, spiaggia e marmo ha fatto la sua parte. Nel caso degli scultori, la vicinanza fisica alle cave sulle alpi Apuane. Henry Moore, che visse a lungo in via Cividali, fu attratto dalle cave dove andava a lavorare ogni giorno, anche se poi si stabilì qui. Così è accaduto in anni recenti allo scultore Igor Mitoraj, che ha vissuto e lavorato per anni nella vicina Pietrasanta dove aveva il suo atelier.

All’inizio fu anche una questione di tranquillità, di silenzio: il Forte era lontano dalla già affollata Viareggio: “Era un posto tutto particolare”, ha scritto ancora Attilio Bertolucci. “Il treno non ci arrivava proprio. Forse per questo era un luogo riservato e frequentato dagli intellettuali. Lì ho incontrato dal libraio Thomas Mann e Aldous Huxley”. Huxley stesso scrisse qui Foglie secche (1925) dove il Forte diventa Marina di Vezza (forse con un richiamo alla vicina Serravezza?). Bacchelli diede invece al Forte un nome fantasioso, Battifredo d’Ugliancalda, mentre Thomas Mann usò il più scontato Torre di Venere.

Il sindaco mi fa vedere un questionario del quotidiano La Nazione del 1951 che tiene incorniciato nel suo ufficio. È rivolto a Eugenio Montale e le domande riguardano il soggiorno del poeta in Versilia: “Vorrei che gli svaghi e le attrezzature fossero proibiti. Si stava meglio vent’anni fa”, esordisce Montale, che soggiornava all’hotel Alpe Mare (oggi è la villa di Andrea Bocelli). E aggiunge che, fosse per lui, “sopprimerebbe tutti i rumori”. Quando gli chiedono cosa preferisce tra le attrattive del Forte lui appunta: “Il mare, le pinete, e i platani del caffè Roma”.

Forte dei Marmi non è un paese per poveri. E forse non è nemmeno più un paese

Non sono alberi qualunque, i platani del Forte. Il celebre quarto platano, cioè il quarto albero della fila che partiva da via Mazzini vicino ai tavolini del caffè, fu per anni un luogo di appuntamento fisso per artisti e scrittori: Curzio Malaparte, Anna Banti, Roberto Longhi, Carlo Carrà, Ardengo Soffici, Renato Fucini, Lorenzo Viani, Giuseppe De Robertis, Alfonso Gatto, Alberto Savinio. Anche Carlo Emilio Gadda frequentò il quarto platano e scrisse un esilarante reportage intitolato “Versilia” (1950) dove per vezzo chiama Forte dei Marmi Battifredo, come l’aveva battezzato Bacchelli: “Qui, al quarto platano del Battifredo, gli amici dall’alto intelletto, onorandomi della loro conversazione, mi assistono misericordi, confederati in una specie di croce rossa balnearia”.

Ci fu anche ovviamente Gabriele D’Annunzio, che abitò alla Versiliana, la villa con parco faraonico che oggi è un teatro-maneggio-parco di straordinaria bellezza. Ci fu Mario Tobino, che era di Viareggio e scrisse molti libri ambientati qui. Ma è Mario e il mago di Thomas Mann la cosa migliore scritta su Forte dei Marmi (e sull’Italia in genere) visto da uno straniero: è un racconto cupissimo, la storia di un mago improvvisato che ipnotizza il cameriere di un lussuoso hotel e poi lo uccide, la metafora del fascismo e del potere incantatore del duce.

Non è più un paese per intellettuali, Forte dei Marmi. “Non è un paese per poveri. E forse non è nemmeno più un paese”, si legge alla fine di Morte dei Marmi. Ma c’è ancora chi lo ama per quel suo “mare infinito, di creta e di mondiglia”, che non è cambiato tanto, quello no, da quando Eugenio Montale lo evocava nella Bufera.

Correzione 24 agosto 2015
Nella versione precedente di questo articolo c’era scritto che Igor Mitorajha il suo atelier a Pietrasanta. Ma Mitorajha è morto il 6 ottobre 2014.

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