C’è un’ombra sulla campagna elettorale. O, almeno, così scrivono alcuni giornali. L’ombra è quella di una grana giudiziaria pronta a esplodere per impedire al centrodestra di vincere elezioni forse già vinte. Di cosa si tratti, però, non lo spiega nessuno. Si allude. Ci si limita alle suggestioni senza offrire dettagli, quasi si trattasse di profezie più che di notizie.

Il direttore di Libero Alessandro Sallusti, per esempio, il 4 agosto ha riferito di certi ambienti non meglio precisati – “bassifondi nei quali l’olezzo è insopportabile ma c’è vita vera e nulla sfugge” – in cui si darebbe per certo “che si stanno preparando un paio di botti giudiziari, scoppio previsto fine agosto, di quelli tosti, qualcuno azzarda anche i nomi di figure politiche di primo piano nell’area di centrodestra”. E ha scritto di “dossier già pronti tolti dai cassetti e messi sul tavolo pronti per la firma”. Qualche giorno dopo Ignazio La Russa, figura di spicco di Fratelli d’Italia (FdI), a una domanda postagli dal quotidiano la Verità su una “bomba giudiziaria” pronta a esplodere da qui al voto, ha risposto che “purtroppo non possiamo escludere questa eventualità guardando le campagne elettorali del passato, e le tempeste scatenate contro Berlusconi e Salvini”.

E, a proposito di Salvini, allarmante è anche la vicenda raccontata il 28 luglio dalla Stampa. Secondo il quotidiano torinese, da alcuni documenti emergerebbero “elementi nuovi sul rapporto tra Matteo Salvini e la Russia, che illuminano di una luce inquietante anche la caduta di Mario Draghi, e gli eventi accaduti negli ultimi due mesi di vita del governo”. Sul rapporto tra Salvini e le autorità russe si è giustamente concentrato per giorni il dibattito pubblico, con toni molto duri e legittime richieste di chiarimento. C’è però anche un altro aspetto che meriterebbe di essere considerato.

Siamo solo all’inizio di una campagna che già si presenta tra le più opache che la storia repubblicana ricordi

Quelle notizie provengono infatti da “documenti d’intelligence” non meglio circostanziati. Al momento della pubblicazione non era chiaro in che genere di attività fosse impegnata la fonte interna ai servizi segreti che ha trattato quelle informazioni. Non era chiaro di che struttura si trattasse. Non ne era chiara neppure la nazionalità. Franco Gabrielli, sottosegretario con delega ai servizi, ha smentito che quell’attività fosse riferibile ai servizi segreti italiani. Il giorno successivo all’uscita della notizia, il direttore della Stampa Massimo Giannini ha fornito qualche particolare in più, scrivendo di “documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence”. Non è molto.

Questo tipo di informazioni, per dire, non sarebbe utilizzabile neppure in tribunale. Altro sarebbe infatti se quelle notizie fossero emerse nel corso di una inchiesta della magistratura, che bene o male è assistita dalle garanzie per gli indagati. Poi, i mezzi di informazione fortunatamente seguono altre logiche, e quando si entra in possesso di una notizia questa va sempre pubblicata. Colpisce però che nessuno si sia allarmato anche per il fatto che in piena campagna elettorale siano finite sui giornali notizie contenute in “documenti informali di sintesi” provenienti da una fonte così intrinsecamente opaca come è l’intelligence, e che per di più riguardano uno dei principali candidati alle elezioni. D’altra parte, non c’è neanche chi si sia allarmato per il fatto che, a quanto ne sappiamo, servizi di sicurezza di nazionalità incerta, forse stranieri, terrebbero d’occhio attività e movimenti dei leader politici italiani.

Il rischio di una campagna elettorale costellata da episodi del genere dovrebbe essere evidente. Anche perché siamo solo all’inizio di una campagna che già si presenta tra le più opache e avvelenate che la storia repubblicana ricordi. Su ogni fronte: destra e sinistra, politica e informazione. E anzi sempre più di frequente si fatica a rintracciare il confine tra politica e informazione.

L’aria si è fatta talmente pesante che Guido Crosetto, tra i fondatori di FdI e oggi imprenditore molto ascoltato da Giorgia Meloni, ha proposto “un patto con gli avversari” per il bene del paese, poiché in autunno “vivremo momenti di difficoltà spaventosa”, con rischi addirittura di conflitti sociali da guerra civile “non solo figurata, visto quanto cresce la rabbia”. E non si capisce se sia un tentativo di stemperare i toni o se invece si tratti ancora di un’altra profezia.

D’altra parte, la campagna elettorale era iniziata con Salvini tornato a impugnare come un randello la questione dei migranti per recuperare il distacco nei confronti di Meloni e strapparle la leadership della destra, mentre Silvio Berlusconi ai parlamentari che abbandonavano Forza Italia dopo la caduta del governo augurava: “Riposino in pace”. C’è stato perfino chi ha preso di mira Renato Brunetta per il suo aspetto fisico. E poi è andata anche peggio. Gli attacchi personali e gli insulti si sono moltiplicati. Le polemiche sono state sempre contro qualcuno e mai per proporre un’idea. Sono stati ridotti ad argomento di polemica elettorale perfino i morti del disastro di Marcinelle, l’incidente avvenuto in una miniera di carbone belga nel 1956 che costò la vita a 262 minatori, dei quali 136 erano emigrati italiani.

Enrico Letta aveva annunciato con una lettera al Corriere della Sera di volersi recare a Marcinelle “per onorare quelle 262 vittime e anche, simbolicamente, tutti gli altri caduti, in altre viscere, a partire da quelle del Mediterraneo”. Ed ecco pronta Giorgia Meloni ribattere che quell’incidente avvenne in un quadro “radicalmente diverso da quello dell’attuale situazione dell’immigrazione verso l’Italia”, alla quale concorrono “ingenti flussi di immigrati irregolari che i governi di sinistra (o ai quali la sinistra ha partecipato) non hanno mai saputo né voluto arginare”.

La fine delle idee
Si potrebbe andare avanti a ancora a lungo con gli esempi. Ma a che servirebbe? In fondo, sono i toni e i modi della seconda repubblica, e nessuno se ne stupisce più. Anche in passato le campagne erano dure. Basterebbe ricordare che dal dopoguerra e fino agli anni ottanta del novecento a scontrarsi erano Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, due partiti organizzati ideologicamente per rappresentare orizzonti politici e geopolitici radicalmente divergenti. Ma si trattava anche di forze popolari e interclassiste, e per questo avevano insieme natura espansiva e inclusiva. Lo scontro era di natura schiettamente politica e serviva per determinare il destino di una comunità, non soltanto quello individuale o di un gruppo raccolto attorno un interesse. Poi, è cambiato il mondo.

In Italia accadde negli anni drammatici dell’assalto stragista di Cosa nostra e delle inchieste milanesi di Mani pulite. Erano i primi anni novanta del novecento. I partiti popolari vennero spazzati via, alcuni dalle inchieste giudiziarie, altri dalla storia. Furono sostituiti da organizzazioni snelle, simili a comitati elettorali. Alle idee si sostituì il culto del leader. Si affermò un sistema bipolare muscolare, e in questo contesto le nuove formazioni politiche iniziarono a ricostruire la propria identità soprattutto contro gli avversari, non avendo molto altro da dire. In breve cambiò anche il tono della comunicazione, che si fece più rapida e spiccia perché non serviva più a rappresentare un orizzonte culturale ma a indicare il nemico. E poi cambiò anche l’informazione.

Come quelli della politica, anche i toni della informazione generalista negli anni sono diventati sempre più aspri

Spariti i giornali di partito, si è affermato un sistema misto capace di rappresentare insieme interessi politici e aziendali, a destra come a sinistra. Anch’esso su base bipolare. Si è iniziata così ad accorciare la distanza tra informazione e potere. Nella cronaca giudiziaria si sono fatte sempre più rare le inchieste vecchio stile, sostituite da carte di procura e indiscrezioni. Nelle pagine politiche, la cronaca è stata soppiantata da un nuovo genere, il retroscena, che regala al lettore la sensazione illusoria di leggere qualcosa che sia fuori dal controllo del potere.

In generale, come quelli della politica, anche i toni della informazione generalista negli anni sono diventati sempre più aspri. “La sinistra fa schifo”, è per esempio il titolo che apre la prima pagina di Libero del 5 agosto scorso. E tre giorni dopo: “Calenda Pagliaccio. Comiche a sinistra”. Ed è lo stesso direttore della stampa Massimo Giannini a definire “retroscena” e non inchiesta l’articolo sui rapporti tra Salvini e le autorità russe.

Se queste, per sommi capi, sono le caratteristiche delle campagne elettorali della seconda repubblica, ebbene li ritroviamo tutti nello spettacolo offerto nelle ultime settimane dalla politica, e soprattutto dal centrosinistra, a partire dalla necessità di proclamare la consueta emergenza democratica, individuando un nemico che in questo caso è rappresentato non più da Silvio Berlusconi o da Matteo Salvini, ma da Giorgia Meloni.

Che Meloni sia di destra è noto da sempre, e di una destra che spesso si manifesta come radicale e allarmante. Sono ancora nell’aria le sue parole a un recente comizio della destra spagnola di Vox, per le quali poi si è dovuta parzialmente scusare. Tuttavia, poiché i voti Fratelli d’Italia li prende proprio per quella ragione, ripetere ossessivamente che sia fascista non serve a molto, se non a preparare l’abituale richiesta di voto utile degli ultimi giorni. E nel frattempo per provare a tenere unita una coalizione così eterogenea da essere implosa da sé dopo pochi giorni di campagna elettorale, un po’ per mancanza di una linea politica chiara, un po’ per i tatticismi e il radicale individualismo di molti dei suoi leader, tra i quali Carlo Calenda.

Proprio Calenda, peraltro, dopo aver rotto l’accordo con Enrico Letta, è andato al Tg5 a spiegare che “il Pd ha fatto prima un patto con noi e poi ha fatto un patto, con contenuti contrari, con chi ha votato 55 volte contro la fiducia a Draghi, con chi dice di no a tutto, al termovalorizzatore, con chi in fondo è comunista, perché poi, alla fine della fiera è questo”.

Povero Calenda, faceva quasi tenerezza nel suo aver ricondotto se stesso a una così inavvertita normalità da piccolo Berlusconi. Tuttavia no, alla fine della fiera non ci sono più i comunisti. Alla fine della fiera pare non esserci più nulla, nessuna idea, soltanto insulti e grida. Considerati i suoi protagonisti e lo spettacolo che stanno offrendo, questa campagna elettorale è insomma l’apoteosi della seconda repubblica, e insieme la rappresentazione del suo radicale fallimento.

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