La politica economica basata su bonus e agevolazioni è legittimamente discutibile. E discutibile è senz’altro anche l’idea di usare i bonus per promuovere la cultura. Tuttavia fa una certa impressione il fatto che mentre si rimettono in discussione le agevolazioni destinate a sostenere i consumi culturali dei giovani, si prevede un aumento delle spese militari di molte centinaia di milioni di euro, come segnala l’osservatorio sulle spese militari Milex.

Un bilancio definitivo lo si potrà fare solo quando la manovra economica messa a punto dal governo, e ora in discussione in parlamento, sarà stata definitivamente approvata. Il percorso seguito finora è stato piuttosto tormentato, tra annunci, smentite, promesse tradite come quella sui pagamenti elettronici e polemiche come quelle che hanno accompagnato la revisione in senso restrittivo del reddito di cittadinanza. Questa, in particolare, è stata una scelta altamente simbolica di come la destra intenda governare, e più in generale dell’idea di politica che intende rappresentare il governo guidato da Giorgia Meloni.

Cancellare ciò che funziona

Ma forse ancor più rappresentativa delle idee della destra ora al potere, e in particolare del suo rapporto con la cultura, è la decisione di rivedere il bonus cultura 18app.

Finora si è trattato di un contributo di 500 euro in favore dei neomaggiorenni che poteva essere speso per l’acquisto di libri, musica, biglietti per spettacoli teatrali, concerti, musei, ma anche per accedere a corsi di musica, teatro o lingue straniere, o acquistare abbonamenti a quotidiani e riviste. Nei sei anni in cui la misura è stata attiva, ha riguardato circa due milioni e mezzo di giovani per circa un miliardo di euro di valore totale, usato in gran parte per l’acquisto di libri. In particolare, nel 2017 hanno usato il bonus circa 356mila persone per un valore economico di poco più di 162 milioni di euro. L’anno successivo i richiedenti sono stati quasi 417mila per oltre 192 milioni di euro. Nel 2019 si è passati a circa 430mila richiedenti per quasi 200 milioni di euro, nel 2020 a quasi 390mila per oltre 183 milioni di euro, e nel 2021 a 415mila per più di 192 milioni di euro. Quest’anno siamo a più di 440mila richiedenti per quasi 155 milioni di euro, ma i dati non sono ancora definitivi.

Il requisito per accedere al fondo è stato fino a questo momento il compimento della maggiore età. Ma adesso le cose potrebbero cambiare. Nella manovra in via di approvazione si prevede infatti che il bonus cultura sia sostituito da due differenti misure cumulabili tra loro, una legata al reddito e una al voto ottenuto alla maturità. “La prima”, ha spiegato la presidente del consiglio Giorgia Meloni, consiste in un “bonus per i diciottenni le cui famiglie hanno un Isee non superiore a 35mila euro”, mentre “l’altra prevede 500 euro per chi consegue il diploma con 100 centesimi”.

Il processo di revisione del bonus racconta molto dell’idea che la destra ha della cultura e delle politiche culturali

Inoltre, Meloni ha annunciato che “saranno rafforzati anche i meccanismi anti-truffa” poiché – stando almeno a quanto hanno sostenuto molti rappresentanti della maggioranza di destra – quello delle truffe è uno dei problemi principali che affliggono l’attuale bonus cultura. In realtà a quanto risulta da un rapporto della guardia di finanza, le frodi tra il 2018 e il 2020 ammonterebbero a circa 17 milioni di euro, dei quali circa 13 di importi indebitamente percepiti e il resto ascrivibile a operazioni sospette. In quello stesso periodo sono stati spesi bonus cultura per oltre 354 milioni. Dunque i fondi indebitamente percepiti e quelli sospetti calcolati insieme sono pari al 3,85 per cento della spesa totale. Non sembrerebbe una cifra tale da giustificare la cancellazione della misura. Anche perché secondo molti operatori culturali il bonus stava funzionando.

Tra gli altri lo ha spiegato, sulle pagine di Repubblica, l’editore Giuseppe Laterza ricordando i dati Istat secondo cui si è registrata una crescita di lettori tra i 18 e i 21 anni dal 46 al 54 per cento a partire dal 2016, anno di introduzione del bonus. Laterza ha anche affermato che “il lato innovativo della 18app è stato quello di lasciare a tutti i ragazzi la possibilità di scegliere come investire quell’incentivo, stimolando i giovani a mettersi in gioco”, mentre “i nuovi criteri virano verso un approccio assistenzialista”.

In modo simile si è espresso parlando con il Corriere della Sera un altro editore, Stefano Mauri, secondo il quale in questi anni il bonus “ha prodotto una nuova ondata di lettura presso i giovani, di acquisti di libri e di familiarità con i canali di acquisto del libro, le librerie, l’online”. Insomma, “ha avuto un esito brillante nella vita di alcuni comparti culturali, e lo ha avuto seguendo le scelte dei giovani. Stiamo parlando dello 0,0003 per cento della spesa dello stato: lasciarlo in mano ai giovani non è un grande sforzo”.

È presto per capire se le misure che dovrebbero sostituire il bonus cultura porteranno a risultati paragonabili: come detto, i conti si faranno alla fine dato che per il momento le misure annunciate da Meloni sono ancora in fase di approvazione. Ma c’è già qualcosa che si può dire, poiché ciò che in questi ultimi giorni è emerso dal dibattito che ha accompagnato il processo di revisione del bonus racconta molto dell’idea che la destra ha della cultura e delle politiche culturali.

Scelta rinnegata

Intervenendo sul quotidiano Avvenire, il presidente dell’associazione librai italiani Ali-Confcommercio Paolo Ambrosini ha affermato che forse non si sta valutando l’effetto positivo, “da moltiplicatore”, del bonus che ha consentito ai giovani “di avvicinarsi alla cultura nelle sue varie declinazioni con quella libertà di scelta che la cultura e i saperi richiedono”. “Volutamente”, ha proseguito Ambrosini, “il bonus è rivolto a chi raggiunge la maggiore età, quando cioè si matura una libertà anche formale nelle scelte, per offrire uno strumento per essere liberi e non condizionati dalle esigenze economiche famigliari o dalle limitazioni imposte dai modelli educativi”.

Qualcosa di molto simile ha sottolineato anche lo scrittore Emanuele Trevi intervenendo sulle pagine del Corriere della Sera: “A non piacermi, è la messa in discussione di un intervento dello stato che permette a dei singoli esseri umani che si affacciano alla soglia della vita vera, indipendentemente dal censo dei genitori, di spendere 500 euro in libri (come ha fatto la stragrande maggioranza), in musica, in altri consumi capaci di produrre conoscenza del mondo o piacere estetico”.

Il punto, insomma, riguarda più la politica culturale che la politica economica. Lo stato aveva deciso di investire risorse nella crescita culturale dei neomaggiorenni, scegliendo una modalità che favorisse non solo i consumi culturali ma anche l’esercizio di scelte libere, indipendenti dalle condizioni culturali ed economiche della famiglia di origine, e capace di favorire così anche processi di emancipazione personale. Quella scelta adesso la destra la sta rinnegando, in nome di ragioni meramente economiche, come emerge anche dalle parole della stessa Meloni, perdendo così completamente di vista la parte più nobile della misura. E riducendo le politiche culturali a una sovvenzione di natura assistenziale.

Per decenni la destra si è lamentata dell’egemonia culturale della sinistra. Lo ha fatto con toni vittimistici e recriminatori. Ora avrebbe la possibilità di affermare le proprie idee. Se la decisione sul bonus cultura è davvero rappresentativa di quelle idee in materia di politiche culturali, allora c’è davvero di che preoccuparsi.

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