Per le strade di Roma i tabelloni per le affissioni elettorali sono sempre più vuoti e sgangherati, quasi inutili in un’epoca in cui la propaganda politica percorre altre strade. È finita l’epoca dell’attacchinaggio notturno e sono finiti gli anni settanta, che sopravvivono solo nei toni aggressivi e decisamente sopra le righe di una destra che sembra rimasta culturalmente prigioniera di quegli anni. Quest’anno, poi, quelle lastre di metallo appaiono più inutili del solito: il 12 e 13 febbraio si vota per rinnovare le amministrazioni regionali di Lazio e Lombardia, ma la campagna elettorale si è svolta soltanto in minima parte sulle piazze locali.

È trascorso troppo poco tempo dalle ultime elezioni politiche, e troppo importante è stato l’impatto della vittoria della destra di Giorgia Meloni, per pensare che un nuovo equilibrio politico sia già stato definito. Così, mentre il centrosinistra è di fatto sparito dalla scena, soprattutto a destra si attende il voto regionale per poi farlo pesare in chiave nazionale, anche nei confronti dei propri alleati. Per Meloni in particolare c’è la necessità di confermare il consenso popolare che l’ha portata fino alla presidenza del consiglio, e che ultimamente aveva cominciato a scendere per la prima volta, dopo mesi di crescita ininterrotta e impetuosa. Questo anche a causa dei molti inciampi nel cammino del governo, come il pasticcio del mancato taglio delle accise sui carburanti.

Anche così – ma non soltanto così – si spiega l’innalzamento dei toni di questi ultimi giorni, e la brutale conduzione del caso nato dalla rivelazione, da parte del deputato di Fratelli d’Italia (FdI) Giovanni Donzelli, di informazioni tratte da documenti sulla cui riservatezza si è subito acceso un violento scontro politico. Il caso riguarda in particolare la battaglia che l’anarchico Alfredo Cospito sta conducendo contro il regime di isolamento rafforzato noto come 41 bis, e un colloquio da lui avuto con alcuni deputati del Pd, avvenuto nell’esercizio delle prerogative parlamentari che consentono le visite in carcere per verificare le condizioni nelle quali avviene l’esecuzione della pena. Cospito avrebbe avuto anche dei contatti con alcuni condannati per reati di criminalità organizzata, sempre all’interno del carcere. Queste informazioni Donzelli le aveva ricevute dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, anch’egli di FdI, e le ha usate intervenendo alla camera per attaccare violentemente l’opposizione parlamentare. Delmastro nei giorni seguenti si è spinto fino a parlare di “inchino” del Pd ai mafiosi.

Per giorni Meloni è rimasta in silenzio, evitando anche le domande dei giornalisti, per poi intervenire con una lettera al Corriere della Sera con la quale ha chiesto a tutti di abbassare i toni. Ma ha anche confermato la propria fiducia nei confronti dei due esponenti del suo partito. E con ciò, che l’abbia o meno condivisa fin dall’inizio, ha dato copertura politica all’operazione di Donzelli e Delmastro. Parallelamente, Meloni e la destra hanno rilanciato con toni sempre più drammatici un allarme sicurezza per un presunto attacco allo stato che sarebbe in corso ad opera di gruppi anarchici. Dei comportamenti di Delmastro e Donzelli si occuperanno la magistratura e un giurì d’onore appositamente costituito alla camera dei deputati. Dal punto di vista politico è comunque evidente la rottura di ogni consuetudine nei rapporti politici con le opposizioni.

Alleati incerti

Non a caso, perfino gli alleati di FdI si sono di fatto sfilati. Nel partito di Silvio Berlusconi, la presa di distanza si è manifestata anche in modo esplicito, con una serie di dichiarazioni di esponenti di primo piano. Nella Lega a prevalere è stato più che altro un silenzio che si è saldato con l’atteggiamento piuttosto defilato che Matteo Salvini tiene ormai da settimane. Il leader leghista infatti in campagna elettorale è stato molto impegnato nell’annunciare cantieri e opere pubbliche, e alquanto assente dal dibattito su tutti i temi di natura più schiettamente politica. Tutti salvo uno: la cosiddetta autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario.

Nonostante le preoccupazioni per gli effetti di questa riforma espresse dalle opposizioni, da numerosi amministratori locali, da Confindustria e, indirettamente, perfino dalla stessa Meloni, alla fine il via libera è arrivato il 2 febbraio con l’approvazione in consiglio dei ministri. Certo, si tratta di un via libera preliminare. Per l’attuazione di quanto previsto in quel testo servirà un procedimento molto articolato, che coinvolgerà molti soggetti tra enti locali e stato centrale, e che inevitabilmente porterà via molto altro tempo: mesi, forse anni. Ma era fondamentale per la Lega portare a casa qualche risultato prima del voto per giocarsi la carta in chiave elettorale, soprattutto al nord dove Salvini è in forte difficoltà, tanto da rischiare di perdere la guida del partito.

Tuttavia, anche considerando tutte queste circostanze, si riesce a spiegare solo in parte la necessità per FdI di innalzare i toni dello scontro fino al punto toccato in questi ultimi giorni. La questione, infatti, ha a che fare soltanto parzialmente con le contingenze politiche, e sembra avere piuttosto natura culturale. Il fatto è che, nonostante sia ormai al governo del paese, Fratelli d’Italia sembra soffrire di una sorta di sindrome da accerchiamento, come molti osservatori l’hanno definita.

La parola chiave del primo discorso di Giorgia Meloni dopo la vittoria delle elezioni politiche, la notte del 25 settembre scorso, era stata “riscatto”. Quella stessa parola l’aveva pronunciata più volte in campagna elettorale. Per esempio nell’ultima intervista prima del voto, concessa all’allora direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, poi chiamato dalla stessa Meloni al governo come ministro della cultura. In quella occasione la leader di FdI affermò che una sua eventuale vittoria sarebbe stata “un riscatto non solo per le donne ma per un sacco di gente che in questa nazione ha dovuto per decenni abbassare la testa”. E nel discorso con il quale chiese la fiducia di camera e senato, si era definita un “underdog”, ossia “lo sfavorito, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici”.

Meloni e i suoi mostrano un’assoluta inconsapevolezza del ruolo che occupano e del potere quasi assoluto che ormai detengono

Si tratta di un genere di retorica che nella destra che proviene dal Movimento sociale italiano riscuote ancora molto successo. Meloni quella storia la rappresenta bene. I toni che usa nei suoi discorsi hanno spesso il sapore della recriminazione o comunque del vittimismo, e a volte sfiorano il limite del caricaturale. Almeno in un caso, lei stessa ha finito per riconoscere i propri eccessi per poi scusarsene. Ma anche il suo manifesto politico Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021) ne è ricco. “Quando la sinistra ti liscia il pelo e si complimenta con te per le tue posizioni ‘presentabili’, vuol dire che stai sbagliando qualcosa. È la ragione per la quale io ci tengo a non piacere a quella gente”, scrive per esempio Meloni. “La loro ostilità è per me come una stella polare che mi conferma che la rotta è quella giusta”.

Si tratta di toni e argomenti che erano già vecchi trent’anni fa, quando non solo gli anni settanta ma anche gli anni ottanta del novecento erano finiti. Eppure Meloni e i suoi sembrano ancora fermi lì. Sembrano essere ancora culturalmente prigionieri di quelli anni. Si muovono nelle istituzioni mostrando un’assoluta inconsapevolezza del ruolo che occupano e del potere quasi assoluto che ormai detengono. E si dimostrano per questo sempre più pericolosamente inadeguati per guidare il paese.

Alcune settimane fa, intervenendo alla camera, Fabio Rampelli (FdI) aveva concluso un proprio intervento molto duro nei confronti delle opposizioni con una citazione dal Cimitero di Praga di Umberto Eco: “Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria”. Rampelli ne aveva parlato come di una frase “che non cesserà mai di essere attuale”. Ma, tutto considerato, forse anche un po’ scivolosa da maneggiare di questi tempi, nell’aula della camera.

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