Giulia aveva 13 anni quando suo padre è stato ricoverato per il covid: era nel marzo del 2020 e del virus si sapeva ancora pochissimo. Quando l’hanno caricato sull’ambulanza, la ragazzina non immaginava che non l’avrebbe più rivisto.

In casa i giorni seguenti sono stati convulsi: la madre era molto agitata perché non riusciva ad avere informazioni, la sorellina non capiva cosa stava succedendo. E poi è arrivata la notizia: il padre era morto, ma non si sapeva se e quando sarebbe stato possibile vederlo e fare il funerale. Giulia non si è concessa di piangere, diceva alla psicologa che la seguiva: “Adesso devo essere forte, papà avrebbe voluto così”.

Sua madre è caduta in depressione, non aveva un lavoro e la famiglia è rimasta senza un sostentamento economico. “Mi posso trovare un lavoro per aiutare la mamma?”, chiedeva Giulia alla psicologa. Per un momento ha anche pensato di lasciare la scuola, ma poi ha cambiato idea e si è trovata un lavoretto come baby sitter. Dopo qualche settimana però è crollata: non aveva più voglia di uscire dalla sua stanza, ha lasciato la pallavolo e non voleva più andare a scuola. Viveva continui flashback dell’ultima volta che aveva visto il padre, e piano piano ha sentito crescere dentro di sé una forte rabbia.

La storia di Giulia (il nome è di fantasia) è simile a quella di tanti ragazzi e ragazze che hanno perso un genitore durante la pandemia. “Questi giovani hanno vissuto un lutto e non hanno avuto la possibilità di elaborarlo”, spiega Giovanna Bonvini, psicologa del Mandorlo, consultorio familiare di Casalpusterlengo, in provincia di Lodi, che ha seguito molte famiglie colpite dalla morte di una persona cara per via del covid, nel primo epicentro della pandemia nel 2020.

“Ci trovavamo in piena zona rossa. In quella fase sono mancati i passaggi chiave che aiutano a prendere consapevolezza e accettare la perdita di una persona: salutarla un’ultima volta, partecipare al suo funerale o condividere la sofferenza con familiari e amici. Sono saltati tutti i fattori protettivi per l’elaborazione fisiologica del dolore: i bambini e gli adolescenti sono rimasti sospesi nella sofferenza, che si è prolungata, creando danni maggiori”.

Secondo una ricerca condotta in 21 paesi e pubblicata sulla rivista medica
The Lancet, in Italia durante il primo anno di pandemia 3.201 minori hanno perso un genitore a causa del covid: 671 sono rimasti orfani di madre, 2.529 di padre, e un bambino ha perso entrambi i genitori. A loro si aggiungono 366 bambini o adolescenti con il nonno o la nonna a cui erano stati dati in affidamento morti di covid, e altri 2.214 che hanno perso nonni o parenti che vivevano nella stessa casa.

Nonostante questi numeri, nel nostro paese ancora non esiste un percorso specifico di supporto psicologico, sociale ed economico per gli orfani di vittime del covid. Nel marzo 2021 è stato presentato un disegno di legge che prevede sostegni in favore di questi minori, che però al momento è bloccato alle camere. Nel frattempo, ogni territorio ha risposto attivando le proprie risorse, attraverso progetti di associazioni, sportelli psicologici nei consultori familiari o percorsi nei reparti di neuropsichiatria infantile degli ospedali: servizi che però sono diversi da regione a regione.

Reti sociali

“Nel nostro territorio, nonostante l’impatto della pandemia sia stato devastante, l’aspetto solidale è stato fortissimo e si è mobilitata una rete sociale molto efficiente”, racconta Enrica Bianchi, che gestisce il consultorio Il Mandorlo di Casalpusterlengo, in provincia di Lodi. “Dall’oggi al domani i ragazzi hanno perso la loro quotidianità: non andavano più a scuola, non vedevano più gli amici né le persone di riferimento. Le famiglie erano isolate a casa, senza avere notizie dei pazienti ricoverati in ospedale, in attesa di una telefonata: il clima familiare era fortemente compromesso, e i bambini lo sentivano”.

È quello che è successo ad Adriano (nome di fantasia), dodici anni, che ha perso il nonno materno, morto di covid. Dopo il suo ricovero in ospedale non arrivavano notizie e la madre era in un profondo stato di agitazione Senza sapere che il nonno si fosse aggravato, due settimane dopo sono stati informati che era morto. Adriano non è potuto andare al suo funerale. “Per lui il nonno era un importante punto di riferimento, visto che suo padre era morto in un incidente stradale due anni prima della pandemia”, racconta la psicologa Lucia Guasconi del Mandorlo, che ha seguito la famiglia.

“Questa scomparsa ha riattivato anche il lutto della morte del papà, che non era stato completamente elaborato”. Adriano ha iniziato a soffrire di un’ansia da separazione dalla madre molto grave: temeva che anche lei si ammalasse, non la lasciava mai. E poi ha smesso di giocare a calcio e di andare a scuola. La casa per lui era l’unico luogo sicuro, ripeteva: “Qui succedono solo cose brutte”.

Non esistono cose che non possono essere dette ai bambini, l’importante è trovare le parole giuste

Anche di notte Adriano voleva dormire con la mamma, aveva incubi su quella che immaginava essere stata la morte del nonno o del papà. Ha smesso di mangiare. Stava sempre nella sua stanza a giocare ai videogiochi, perché “almeno lì puoi controllare le cose” e se muori hai diritto a un’altra vita. Poi è arrivata l’insonnia, l’irritabilità e l’aggressività, soprattutto nei confronti della madre: “Da un lato la proteggeva, dall’altro si sfogava con lei”, racconta Guasconi.

“Con entrambi abbiamo fatto un lungo percorso psicologico in parallelo, e alcune sedute insieme, per aiutarli a elaborare il dolore”. Oggi Adriano sta meglio, frequenta la seconda media e ha ripreso a giocare a calcio, anche se a volte quando fa gol ancora si gira verso gli spalti a cercare con lo sguardo il nonno che esulta.

Le conseguenze emotive e psicologiche di un lutto possono essere diverse a seconda dell’età: “Nei bambini delle elementari sono frequenti i sintomi di ansia da separazione dai genitori, dovuti al timore che possano mancare da un momento all’altro, e comportamenti regressivi, come fare la pipì a letto o non voler più dormire da soli”, spiega Lucia Guasconi.

“Spesso i bambini hanno incubi o pensieri intrusivi, come il terrore del suono dell’ambulanza. Nei ragazzi più grandi sono più comuni sintomi come depressione, ansia, episodi di autolesionismo, disturbi alimentari, tendenza al ritiro sociale, dipendenza da internet e inversione del ritmo sonno-veglia”.

Già prima dell’arrivo del covid era stata avviata una riflessione su come aiutare bambini e adolescenti a elaborare il lutto di un genitore morto per malattia: diversi ospedali e associazioni avevano attivato progetti per dare un sostegno psicologico ai minori e alle famiglie che dovevano affrontare il decorso di una malattia. Nel 2015, per esempio, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo aveva iniziato una sperimentazione con il progetto Lego, rivolto ai bambini con genitori malati di cancro.

“Nei momenti critici, come quelli della malattia, i bambini soffrono molto del fatto di non essere coinvolti e non capire”, spiega la dottoressa Maria Simonetta Spada, direttrice dell’unità di psicologia clinica dell’ospedale. “Considerando che la morte è un tabù, è fondamentale prendersi il tempo di spiegare ai bambini quello che sta succedendo ed esplicitare anche le proprie emozioni, senza voler sembrare dei supereroi”.

Per proteggere i figli

Lo stesso discorso vale per i lutti avvenuti durante la pandemia. “Per proteggere i figli, alcuni genitori hanno preferito omettere informazioni o dire bugie”, dice Spada. “Ma non è l’approccio giusto: i bambini sentono comunque che in casa c’è un clima di sofferenza, è inutile negarglielo”. Così, fin dal primo lockdown, l’unità di psicologia clinica si è attivata con un supporto a distanza per le famiglie, per aiutarle a comunicare il decorso della malattia ai più piccoli.

“È fondamentale rafforzare la fiducia nell’adulto di riferimento e costruire un’alleanza, cominciando con il dire la verità”, continua Spada. “Non esistono cose che non possono essere dette, l’importante è trovare le parole giuste”. Gli psicologi sono stati contattati da genitori che non sapevano come tranquillizzare i figli, che giocavano a disinfettarsi, a mettersi la mascherina, o sviluppavano giochi legati al controllo. “C’era una grande paura di essere contagiati e di contagiare: nei bambini si è diffuso un senso di colpa legato al contagio, anche se loro ovviamente non avevano nessuna responsabilità”.

A partire da aprile del 2020, anche Save the Children ha attivato un servizio di sostegno a distanza per le famiglie, e un gruppo Facebook per condividere i propri dubbi. “Come sempre, chi ha sofferto maggiormente sono stati i più vulnerabili, cioè i ragazzi e le famiglie con meno risorse economiche, sociali e culturali”, spiega Erika Russo, responsabile dell’area psico-sociale e case management di Save the children Italia.

“Il tema dei bambini rimasti orfani in pandemia non è ancora stato affrontato strutturalmente in Italia. In altri paesi, come India e Perù, il dibattito è aperto: come organizzazione abbiamo fatto un’importante azione di advocacy per evitare che questi bambini venissero messi in orfanotrofio o finissero in un mercato illecito di sfruttamento, chiedendo che i governi prevedessero aiuti anche economici per le famiglie affidatarie”.

La violenza domestica resta un fenomeno sommerso, ancora di più in un periodo di emergenza sanitaria e di isolamento

La questione dei maltrattamenti dei bambini rimasti orfani per via del covid è urgente anche in Italia: nell’Indice regionale sul maltrattamento dell’infanzia 2022, l’organizzazione umanitaria Cesvi fa notare che, durante la pandemia, situazioni di particolare stress familiare, unite a crescenti difficoltà economiche, hanno portato al peggioramento dei fattori di rischio di abusi sui minori.

“Questo non significa che ci siano effettivamente più bambine e bambini maltrattati, ma che in queste condizioni il fenomeno degli abusi familiari diventa più probabile”, spiega Valeria Emmi, curatrice del rapporto. “La violenza domestica resta un fenomeno sommerso, ancora di più in un periodo di emergenza sanitaria e di isolamento, con le scuole chiuse e i pediatri che non visitavano di persona: sono mancati quei presidi territoriali che normalmente svolgono un importante ruolo di sentinella per intercettare nuovi casi di maltrattamento. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, per ogni caso di abuso su un minore, ce ne sono altri nove che non emergono”.

Divario tra nord e sud

Il rapporto mostra anche la differenza tra il nord e il sud in Italia: “Al nord i giovani hanno vissuto una sofferenza psicologica e sociale più profonda e prolungata rispetto a quelli del sud, per via dell’improvvisa ed estesa diffusione del coronavirus fin dall’inizio del 2020, che ha alimentato stress, paure e angosce, e un numero maggiore di lutti”, racconta Emmi. “Nel meridione invece la criticità principale è legata soprattutto alla diminuzione delle risorse economiche per le famiglie e alla crisi occupazionale, che si sovrappone a una vulnerabilità sociale ed economica preesistente”.

Benché sia stato più colpito dalla pandemia, il nord ha dimostrato una maggiore capacità di reazione, anche attraverso un potenziamento dei servizi di prevenzione degli abusi sull’infanzia: l’indice mostra che la regione con il sistema più strutturato in questo senso è l’Emilia-Romagna, seguita da Veneto, Toscana e Trentino-Alto Adige. Le ultime quattro in classifica sono invece il Lazio, la Sicilia, la Calabria e la Campania.

“La pandemia ha mostrato come nel nostro sistema ci siano differenze notevoli di tutela dei minori, che varia a seconda del territorio”, conclude Valeria Emmi. “Da anni rileviamo un’Italia a due velocità, dove chi nasce al sud ha più possibilità di essere maltrattato di chi nasce al nord. Dovremmo lavorare per stabilire standard di base comuni a livello nazionale, per appianare le differenze geografiche e garantire a tutti i bambini gli stessi diritti”.

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