Questo articolo è uscito il 15 gennaio 2022 a pagina 8 del numero 10 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

Gianmarco Boccaccio osserva i camion carichi di bitter e crodini pronti a partire verso i bar di mezza penisola e ammette di non potersi lamentare del suo impiego alla Campari. Sulla sua linea, nel reparto destinato all’imbottigliamento, lavorano in sei e alla fine di ogni turno consegnano centomila bottiglie. Durante la pandemia ha lavorato anche di sabato, due volte al mese. Infatti nonostante le chiusure e i coprifuoco abbiano quasi azzerato gli aperitivi al bar, il calo dei consumi è stato più contenuto del previsto, appena il 5 per cento, attutito da un fenomeno nuovo: quello degli spritz domestici.

La produzione di bevande analcoliche, spumanti e vermut non ha mai rallentato e il suo è uno dei pochi stabilimenti dell’area industriale di Novi Ligure, in Piemonte, che non sono stati sfiorati da crisi aziendali e licenziamenti A poca distanza, la Pernigotti ha lavorato al minimo e a Natale gli scaffali dei supermercati sono rimasti senza gianduiotti e torroni. Il vicino stabilimento dell’Ilva ha ridotto la produzione di acciaio per automobili e duecento lavoratori sono rimasti in cassa integrazione.

“Qui semmai ci lamentiamo perché c’è troppo lavoro”, dice Boccaccio. Per far fronte ai continui aumenti di produzione, dall’inizio del 2022 è stata creata un’altra squadra e ora i turni coprono tutta la settimana fino alla domenica mattina. Come premio per non aver saltato un giorno di lavoro quando l’Italia era chiusa per covid, alla fine del 2020 ha ricevuto una mensilità in più. L’azienda gli ha proposto di tenere congelata la somma per tre anni, al termine dei quali sarebbe stata convertita in azioni della società.

Boccaccio ha accolto l’offerta di buon grado, senza sapere che erano le prove generali di un nuovo progetto. Lo ha scoperto pochi mesi dopo, quando i dirigenti dello stabilimento di Novi Ligure hanno radunato tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, un centinaio in tutto, per chiedergli se avrebbero accettato, dal nuovo anno, di convertire ogni mese una parte del loro stipendio in azioni. Gli hanno dato tempo fino a metà dicembre del 2021 per scegliere se destinare una piccola parte della retribuzione – dall’1 al 5 per cento – all’acquisto di titoli dell’azienda.

Siccome la Campari, da quando è stata quotata in borsa nel 2001, ha visto aumentare le sue quotazioni in media del 16 per cento all’anno, Boccaccio ha pensato che si trattasse di un buon investimento e ha deciso di destinargli ogni mese il 5 per cento del suo salario lordo, che sarà versato a una banca e gestito da una società fiduciaria esterna. Trascorsi tre anni, le somme accumulate saranno convertite in titoli. In più, l’azienda gli regalerà un’azione ogni due acquistate, che significa pagarle un terzo in meno rispetto al prezzo di mercato. Dal primo gennaio 2022, Boccaccio è un azionista della società per la quale lavora. Sarà informato dell’andamento della società e potrà assistere all’assemblea annuale dei soci. Se vorrà, potrà anche prendere la parola.

Modello americano

“Abbiamo cominciato a ragionarci cinque anni fa, pensando che sarebbe stato importante far sentire le persone legate all’azienda in un modo concreto e tangibile”, afferma il responsabile delle risorse umane del gruppo Campari, Giorgio Pivetta. I manager si sono fatti consigliare da alcune società di consulenza, tra cui Deloitte, e alla fine hanno deciso di utilizzare un modello di partecipazione finanziaria diffuso in particolare negli Stati Uniti: si chiama Esop, è l’acronimo di employee stock ownership plan (piano di partecipazione azionaria dei dipendenti) e consiste nel favorire l’acquisto di azioni da parte dei lavoratori, spingendoli a investire sul loro lavoro e sul futuro dell’azienda. Hanno pensato di coinvolgere tutte le persone assunte a tempo indeterminato nei ventidue stabilimenti che hanno in altrettanti paesi del mondo.

A sinistra Lo Spiritello, Leonetto Cappiello, 1921. A destra Donna con cappello, Franz Marangolo, anni sessanta. (Campari)

“Non è stato facile adattare il piano alle diverse legislazioni nazionali”, racconta Alessandro Crippa, responsabile del gruppo per l’Europa meridionale, il Medio Oriente e l’Africa. Alla fine, sono riusciti a raggiungere l’80 per cento dei 4.200 dipendenti, lasciando fuori solo Argentina, Cina e Russia, dove le leggi non consentono ai lavoratori di entrare nel capitale delle aziende in cui lavorano. Hanno chiamato la campagna Camparista shares (“camparista” è il nomignolo con il quale i dipendenti si chiamano tra loro). Poi hanno sottoposto il piano all’assemblea dei soci e ai sindacati.

Entrambi l’hanno approvata. Il sì più convinto è arrivato dalla Cisl, che ci ha visto non solo un modo per far arrivare più soldi nelle tasche dei lavoratori ma una “evoluzione delle relazioni industriali su base partecipativa”. “Per noi rappresenta un importante passo in avanti perché, oltre alla partecipazione finanziaria, i lavoratori acquisiscono il diritto a essere informati, possono partecipare all’assemblea generale annuale e prendere decisioni congiunte sul futuro dell’azienda”, spiega il segretario della Fai Cisl della Lombardia, Massimiliano Albanese.

I manager della Campari invece mantengono un profilo più basso. Spiegano che la partecipazione è soprattutto finanziaria e si aggiunge ad altre misure a favore dei dipendenti. “Non vogliamo esagerare il valore di questo strumento, uno dei tanti della nostra filosofia di remunerazione, che prevede diverse misure di welfare per i redditi più bassi”, dice Pivetta.

Pure il sindacalista Albanese ammette che, se volessero davvero pesare nelle decisioni, “gli operai dovrebbero organizzarsi in maniera collettiva per parlare con una voce unica nelle assemblee”. Per ora, si tratta soprattutto di un modo per legare gli aumenti salariali all’andamento della società.

Cifra record

All’ultimo piano del quartier generale di Sesto San Giovanni, costruito dall’architetto ticinese Mario Botta sullo scheletro in stile liberty della vecchia fabbrica, si tirano le somme dell’adesione a Camparista shares. Gli ideatori pensavano, per il primo anno, di non riuscire a convincere più di un lavoratore su tre, per poi arrivare dopo qualche anno al 70-80 per cento. Invece ha detto sì più della metà.

Per la precisione, ha deciso di investire nella loro azienda il 51,6 per cento degli operai e degli impiegati. “È un grande risultato per noi”, commenta l’amministratore delegato Bob Kunze-Concewitz. Un risultato in linea con quelli di altre aziende italiane che hanno adottato piani simili, una decina in tutto, tra le quali il colosso dei cavi per l’energia e le telecomunicazioni Prysmian, le assicurazioni Generali ed EssilorLuxottica, la multinazionale degli occhiali italo-francese.

Il 23 dicembre 2021 la EssilorLuxottica ha diffuso i dati del suo programma, chiamato Boost: il 65 per cento dei lavoratori, 54mila persone in 78 paesi nel mondo, dal Benin al Marocco, ha deciso di sottoscrivere per il 2022 le azioni della società. Dopo la fusione con i francesi di Essilor, l’azienda fondata da Leonardo Del Vecchio ha dovuto fare i conti con una legge francese che dal 2013 incentiva la partecipazione dei lavoratori.

La Valoptec, l’associazione alla quale aderiscono 20mila azionisti-dipendenti del partner francese, chiedeva di nominare due rappresentanti nel nuovo consiglio d’amministrazione e solo dopo una lunga trattativa ha accettato di nominare una sola consigliera, mentre altri due sono stati indicati dai sindacati.

A sinistra Campari Soda, Franz Marangolo, anni sessanta. A destra Bitter Campari L’aperitivo, Marcello Nizzoli, 1926. (Campari)

L’Italia è molto indietro rispetto al resto d’Europa, dove 2.700 società hanno piani di partecipazione azionaria e i lavoratori che aderiscono sono 7,1 milioni. In un rapporto presentato alla fine di marzo del 2021, la Federazione europea dell’azionariato dei dipendenti (Efes) ha scritto che, dopo una flessione nel 2020 dovuta alla pandemia, nei primi mesi del 2021 il capitale nelle mani dei lavoratori ha raggiunto la “cifra record” di 420 milioni di euro. A insidiare la “continua crescita”, secondo l’Efes, è però l’aumento delle delocalizzazioni, “non condivise dai dipendenti e favorite dalla mancanza di armonizzazione fiscale”.

All’inizio di novembre, nella commissione lavoro della camera dei deputati è cominciata la discussione di un progetto di legge presentato dal deputato di Italia Viva Gianfranco Librandi. Il testo prevede che “i contratti collettivi o individuali possono disporre l’accesso privilegiato dei dipendenti dell’impresa al possesso di azioni o di quote di capitale dell’impresa stessa, direttamente o mediante la costituzione di apposite società di investimento, fondazioni o associazioni, alle quali i dipendenti possono partecipare”.

La partecipazione dei lavoratori si limita alla possibilità di introdurre nei contratti collettivi o aziendali “apposite procedure di informazione e di consultazione dei dipendenti sulla situazione dell’impresa, sui programmi di sviluppo, sui flussi occupazionali stimati e sui cambiamenti nell’organizzazione del lavoro”.

In Germania, invece, un consiglio di sorveglianza composto in parte da rappresentanti dei lavoratori controlla l’operato dei consigli di amministrazione e può esercitare un diritto di veto in caso di delocalizzazioni e della chiusura di impianti produttivi. Il sindacalista Albanese ritiene che i sindacati dovrebbero gestire le quote destinate ogni mese dai lavoratori all’acquisto di azioni, ma pensa che “non sono ancora preparati ad affrontare un cambiamento del genere”. Dovrebbero abituarsi a un doppio regime, di lotta e di governo, lontano dalla loro cultura e storia.

Un altro modo di investire

Nello stabilimento di Novi Ligure l’adesione degli operai della Campari al piano di partecipazione azionaria è stata forte. “Lo hanno scelto anche colleghi che all’inizio erano scettici”, spiega Giuliano Piras, un operaio addetto agli imballaggi. Negli ultimi vent’anni il gruppo ha acquisito una trentina di società del settore e una cinquantina di marchi, dalla tequila messicana al rum giamaicano, passando per il whisky americano e il mirto sardo, ed è diventata la sesta multinazionale al mondo nel settore degli alcolici.

Un’espansione che il fondatore Gaspare non avrebbe mai immaginato, all’indomani dell’unità d’Italia, quando sperimentava i primi bitter mescolando spezie provenienti da ogni dove nel retrobottega del Caffè dell’amicizia a Novara. E non l’avrebbe immaginato neppure suo figlio Davide, che nel 1932 ebbe l’intuizione di commissionare a Fortunato Depero la bottiglietta che ancora oggi contraddistingue la bevanda. A fronte di questo successo i lavoratori dello stabilimento piemontese hanno percepito l’azionariato come “un altro modo di investire i propri soldi”, più che come uno strumento di partecipazione attiva.

Piras, che è nato a Novi Ligure ma appartiene ai cosiddetti “milanesi”, i più anziani, assunti quando la produzione era ancora a Sesto San Giovanni e “c’era una maggiore coesione tra gli operai”, dice invece che vuole essere tenuto al corrente e coinvolto nelle decisioni che riguardano l’azienda. C’era anche lui il giorno in cui i lavoratori dello stabilimento piemontese sono stati convocati dall’azienda per essere informati dell’iniziativa. Ricorda “l’atmosfera di curiosità” che aleggiava tra gli operai e come la novità sia stata accolta con favore da tutti. Ha deciso di destinare all’acquisto di azioni un po’ meno del suo collega Gianmarco Boccaccio: il 3 per cento dello stipendio ogni mese. La definisce “una scelta ponderata per il futuro”, suo e dell’azienda.

Questo articolo è uscito il 15 gennaio 2022 a pagina 8 del numero 10 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

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