Davanti ai cancelli chiusi della Baritech, una fabbrica di tessuti in polipropilene per le mascherine chirurgiche nella zona industriale di Modugno, alle porte del capoluogo pugliese, c’è un gazebo bianco con alcune panche e sedie di plastica. Un gruppetto di persone è seduto a chiacchierare. Sono cassintegrati dell’azienda e sono lì a presidiare lo stabilimento. Hanno lavorato duro durante la pandemia di covid e sono stati scaricati quando i soldi dell’emergenza sono finiti. Ora vogliono evitare che la fabbrica sia consegnata di soppiatto a un’azienda di logistica, la Conserva, che ha firmato con i vecchi proprietari un preliminare di vendita da 4,1 milioni di euro che non prevede l’assunzione dei 118 dipendenti.

Francesco Mercuri è uno di loro. Giusto un anno fa, alla metà del dicembre 2021, era ancora al lavoro all’interno dello stabilimento. La pandemia stava per toccare un nuovo picco con la variante delta e le versioni della omicron, il vaccino era arrivato alla terza dose in pochi mesi, senza green pass non si poteva circolare e le mascherine erano obbligatorie ovunque. Mercuri non immaginava che nel giro di una settimana la fabbrica avrebbe chiuso e che un anno dopo sarebbe stato qui fuori a fare la guardia, mentre i compagni sono a manifestare davanti al palazzo della regione, sul lungomare cittadino a qualche chilometro di distanza. I lavoratori chiedono al presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, una soluzione alla crisi dell’azienda, trovando un investitore disposto ad assumerli o finanziando con fondi pubblici l’ennesima riconversione della fabbrica.

Diversamente, alla fine di dicembre Mercuri riceverà l’ultimo assegno di cassa integrazione, poi l’Inps gli pagherà un anno di Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi), un’indennità mensile di disoccupazione da poche centinaia di euro, e lui sarà costretto a cercare lavoro, come i suoi figli di 30 e 28 anni, il primo laureato in psicologia e il secondo in farmacia. La più piccola frequenta l’ultimo anno di liceo classico. Mercuri avrebbe potuto chiedere il reddito di cittadinanza, se il governo Meloni non avesse deciso di abolirlo dal 1 gennaio 2024. A 55 anni, sa bene di essere troppo anziano perché lo assuma un’azienda della zona e giovane quanto basta per non andare in pensione. Per questo si ostina a non arrendersi alla chiusura della Baritech.

Il business delle mascherine

Quando era stato assunto, agli inizi degli anni novanta, lo stabilimento apparteneva alla multinazionale tedesca delle lampade Osram. Nel 2015 è stato ceduto alla cinese Ledvance e lui, come tutti i 188 dipendenti di allora, è stato assunto dalla nuova azienda. La fabbrica non è stata però convertita alla meno inquinante e più economica illuminazione a led, di cui i nuovi proprietari erano i leader sui mercati asiatici. Ha continuato invece a produrre le sempre più obsolete luci fluorescenti e al neon. Dopo pochi anni è stata rimessa in vendita. A salvarla, nel 2019, era arrivato il Business creation investments, un fondo specializzato nel rilevare aziende in crisi con sede a San Gallo, in Svizzera. Aveva acquisito l’80 per cento delle quote, mentre il restante 20 per cento era finito nelle mani di una finanziaria con sede a Vaduz, in Liechtenstein. L’investimento era stato minimo, visto che il capitale sociale era di appena undicimila euro, e la Ledvance aveva garantito che ancora per due anni avrebbe distribuito le lampade prodotte dalla sua ex fabbrica.

Quando è esplosa la pandemia, i nuovi proprietari si sono lanciati nel business delle mascherine, pur non avendo né i mezzi né la formazione per produrle. Hanno investito otto milioni di euro in pochi mesi per riconvertire la produzione. Ad agosto erano pronti a mettersi al lavoro. Avevano acquistato da un’azienda cinese quattro linee di macchinari per la produzione di meltblown, un tessuto sintetico semilavorato, spendendo 2,8 milioni di euro, una cifra recuperata quasi per intero grazie a un credito d’imposta. “Hanno sfruttato la pandemia per superare la crisi”, dice Vito Cutrone, 61 anni, l’operaio con maggiore anzianità di lavoro, 37 anni, in una fabbrica dove l’età media si aggira sui 55 anni.

Uno striscione del presidio organizzato dagli operai della Baritech, 21 novembre 2022. (Christian Mantuano per L'Essenziale)

Si sospetta che prima ancora della riconversione produttiva i proprietari avessero già degli accordi per la fabbricazione di mascherine. Secondo un’interrogazione parlamentare del deputato di Forza Italia Massimo Mallegni la Baritech avrebbe firmato un contratto per la fornitura di tessuto meltblown da 46 milioni, 20 euro al chilo, con la Fca Italy “due mesi prima che fossero installate le macchine per produrlo”. Come ha ricostruito il sito web Openpolis, il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, nominato dal governo Conte, aveva assegnato alla ex Fiat 237,4 milioni di euro per produrre le mascherine chirurgiche. Per farlo aveva convertito la fabbrica di Pratola Serra, in Irpinia, dove la produzione di autoveicoli era in crisi.

Nei primi mesi lo stabilimento di Modugno ha lavorato 24 ore su 24, usando tra 80 e cento operai a rotazione, mentre chi non lavorava era tenuto in cassa integrazione. Il 1 ottobre 2021 la Fca ha però dimezzato gli ordini. La Baritech ha dapprima ha chiuso due linee produttive, aumentando la percentuale di cassa integrazione. Poi, quando a dicembre la commessa non è stata rinnovata perché le Ffp2 avevano ormai rimpiazzato le mascherine chirurgiche, mentre il governo Conte 2 andava verso la crisi e la gestione dell’emergenza del commissario Arcuri era contestata e oggetto di indagini giudiziarie, la Baritech ha interrotto del tutto la produzione. I 118 lavoratori, che pure avevano beneficiato della gestione emergenziale della pandemia, ne sono rimasti vittime. Il 21 dicembre 2021 per loro è stato l’ultimo giorno di lavoro.

La criminalità ne approfitta

Alla fine di febbraio è arrivato il governo Draghi, che ha sostituito Arcuri con il generale Francesco Paolo Figliuolo. Quest’ultimo non ha rinnovato la commessa per le mascherine, ma la Baritech era ormai già in dismissione. I proprietari hanno svuotato la fabbrica e venduto i macchinari. “Quando ci siamo accorti che avevano smantellato le linee produttive e se le stavano portando via, abbiamo seguito i camion e li abbiamo bloccati, anche perché erano state acquistate sfruttando il credito d’imposta, dunque con soldi pubblici”, racconta Cutrone.

A maggio, il presidente della regione Michele Emiliano si è presentato ai cancelli della fabbrica promettendo ai lavoratori che non li avrebbe lasciati soli. Alla lunga non c’è stato però nulla da fare. L’azienda partecipava ai tavoli istituzionali di crisi con la regione Puglia e i sindacati, e allo stesso tempo conduceva trattative parallele per la vendita dello stabilimento. Lo hanno scoperto gli stessi lavoratori, che hanno scovato il preliminare di vendita del capannone a alla Conserva e fatto esplodere il caso. “Ci siamo trasformati in investigatori”, dicono.

A un sit-in davanti alla regione, sul lungomare cittadino spazzato dal vento di maestrale, quasi nessuno tra i lavoratori della Baritech crede che la vicenda si risolverà in maniera positiva. C’è sfiducia e volano parole pesanti pure nei confronti dei sindacalisti impegnati nel difficile negoziato per salvare i posti di lavoro. Molti di loro vivono una situazione difficile. Prima della crisi, Cutrone guadagnava 1.850 euro, ora ne prende un migliaio di cassa integrazione, che definisce “un obolo”. Elenca i conti delle ultime bollette: 300 di elettricità, 450 di gas e 450 di conguaglio all’Acquedotto pugliese. Il suo è l’unico reddito in famiglia e ha due figli iscritti all’università. Dal 1 gennaio riceverà un anno e due mesi di Naspi, poi più nulla. “Ho bisogno di una sola risposta: chi mi darà da mangiare?”.

Alcuni operai denunciano di essere già stati avvicinati da usurai o da esponenti della criminalità organizzata, l’unica disposta ad assumerli. “Mi hanno detto che se ho bisogno di soldi potrebbero aiutarmi”, racconta uno di loro. In Puglia si contano 49 crisi lavorative, che però non arrivano al ministero dell’ex sviluppo economico, ora delle imprese e del made in Italy, per la regola imposta dall’ex ministro Giancarlo Giorgetti, della Lega, di prendere in considerazione solo le crisi di aziende che superano i 250 dipendenti. Il rischio è che le organizzazioni criminali ne approfittino per reclutare manodopera nel bacino dei disoccupati. “Sono dietro l’angolo, pronti a intervenire”, conferma Saverio Fraccalvieri, segretario della Filctem-Cgil di Bari.

Una manifestazione degli operai della Baritech sul lungomare di Bari, 1 novembre 2022. (Christian Mantuano per L'Essenziale)

Cutrone, Mercuri e i loro colleghi della Baritech non sono gli unici ad aver perso il lavoro per la fine dell’emergenza covid. Quando è scoppiata la pandemia, Nella De Vivo lavorava con un contratto part-time di quattro ore al giorno per il call center della compagnia telefonica Vodafone, gestito dall’azienda Almaviva. Quando la ditta aveva ricevuto la commessa per la gestione del numero verde gratuito 1500, istituito dal ministero della salute per fornire informazioni sul covid e il green pass, “mi avevano chiesto di dare un supporto”, racconta De Vivo. “Mi hanno fatto seguire un corso di formazione di tre giorni”. Alle quattro ore di lavoro per Vodafone ne ha aggiunte altrettante per rispondere ad anziani in difficoltà, malati con difficoltà respiratorie o loro familiari in lacrime, persone che chiedevano informazioni o a volte solo un supporto psicologico. Nel periodo più acuto dell’emergenza, aveva anche 700 telefonate in attesa. Per questo dopo un po’ “mi hanno chiesto di lasciare la Vodafone e passare a tempo pieno al 1500, con la garanzia che una volta finita la pandemia sarei tornata al servizio d’origine”.

“Mi sono trovata a dover gestire una mole di lavoro enorme, in particolare nei primi tempi ci arrivavano telefonate che spesso faticavamo a gestire”, dice Eugenia Gaeta, impiegata da vent’anni con un contratto part-time all’Almaviva. “Chiamavano persone molto agitate, mi è capitato un signore che non riusciva a far rientrare i figli dall’estero; una volta una donna era nel panico perché il marito non respirava bene, ho dovuto mantenere la calma per tranquillizzarla”. Per un anno e mezzo ha lavorato da una stanza del suo appartamento condiviso con il marito e due figli di tredici e dieci anni, a Palermo. “Mi isolavo per ore, era come se non ci fossi per loro”. Ora che l’emergenza non c’è più, le chiamate si sono quasi azzerate.

Le due operatrici sono all’80 per cento in cassa integrazione, pagata poche centinaia di euro. Gaeta non è rientrata alla Wind e De Vivo non è più tornata alla Vodafone perché nel frattempo la Almaviva ha lasciato la gestione dei call center delle due aziende telefoniche. Entrambe si sentono “beffate”, perché “quando servivamo abbiamo fornito il nostro apporto a 360 gradi, e ora ci mettono alla porta”. Non sono le uniche dipendenti dell’Almaviva a rischiare il posto. Alla fine di febbraio terminerà la cassa integrazione per 75 lavoratori che hanno rinunciato al trasferimento al call center della compagnia aerea Ita e per altri 28 che non sono passati al customer care di Distribuzione Italia, che gestisce il traffico telefonico della Tim. In più, l’azienda ha annunciato che non sarà rinnovato l’appalto per l’American Express che sposterà l’attività in Spagna, con il risultato che altre 39 persone rimarranno senza lavoro. Una parte di loro sarà riassorbita nel gruppo, altre andranno fuori. “Le uniche possibilità che abbiamo sono di incentivare gli esodi o di formare i lavoratori al settore business”, spiegano dall’Almaviva.

Per i 528 operatori dei call center del 1500 l’unica possibilità di non rimanere disoccupati è di essere spostati a qualche altro servizio telefonico pubblico. La maggior parte di loro lavora tra Catania e Palermo, gli altri a Milano, Napoli e Rende, il 70 per cento è assunto con un contratto part-time di quattro o sei ore al giorno che definiscono “involontario”, cioè non voluto da loro. L’Almaviva ha fatto sapere di voler abbandonare il settore dei call center “perché molti bandi sono al ribasso e non coprono il costo del lavoro”, puntando sui servizi “business”, vale a dire la gestione degli ordini delle aziende. L’ufficio stampa fa sapere che “su questa commessa perdiamo 200mila euro al mese, perché in parte è retribuita in base al traffico, che si è molto ridotto”. Nel giugno 2021 il ministero aveva comunicato all’azienda che avrebbe preparato un bando di gara per l’assegnazione di altri servizi e che in questo modo avrebbe impiegato i lavoratori del 1500. “Ci hanno chiesto una serie di informazioni, poi non abbiamo saputo più nulla”. Dopo le elezioni e il cambio alla guida del ministero della salute – da Roberto Speranza all’ex rettore dell’università romana di Tor Vergata Orazio Schillaci – la commessa è stata prorogata dalla fine di ottobre alla fine di dicembre, ma del bando non c’è più traccia. “Con il cambio di governo c’è stato un black out di comunicazione”, spiega il segretario della Slc-Cgil di Palermo Massimiliano Fiduccia, che è anche un lavoratore dell’Almaviva.

Se il ministero della salute chiuderà il 1500, dichiarando archiviata l’emergenza covid, alla fine di dicembre De Vivo e Gaeta rimarranno disoccupate e alla fine di febbraio scadranno pure gli ammortizzatori sociali. De Vivo si trova in una situazione che definisce “molto precaria”. Abita a Catania, ha due figli ed è separata. “Chi si deve mantenere da sola come me non ce la fa”. Gaeta ha appena ricevuto una bolletta dell’elettricità da 700 euro, “perché in estate per il caldo abbiamo tenuto accesi a lungo i condizionatori”. A 45 anni, sta pensando di emigrare in qualche luogo più fresco.

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