“Quando sono passate due settimane o due settimane e mezzo dall’inizio del mese finisco i soldi. Mi succede di non avere in tasca nemmeno un euro per comprare il pane o il latte”, confessa Rossana Pisano, 56 anni, romana. Pisano vive in una casa di proprietà del comune in cui paga 150 euro di affitto al mese in un quartiere alla periferia est della capitale, ha una figlia di 26 anni a carico a causa di una malattia invalidante.

A febbraio ha smesso di percepire il reddito di cittadinanza di 768 euro perché erano scaduti i diciotto mesi previsti dalla misura, che in ogni caso dovrebbe essere soppressa entro la fine dell’anno. Secondo quanto emerso da alcune bozze del ministero del lavoro dovrebbe essere sostituita da un nuovo sussidio, il Mia, destinato a un minor numero di beneficiari. “L’ultimo mese sono stata tre giorni senza mangiare”, racconta Pisano. “Non mi andava di chiedere un’altra volta aiuto a mia madre, che è pensionata”, dice la donna, che nel 2020 aveva un Isee (indicatore della situazione economica equivalente) lordo di 1.600 euro all’anno. Capelli a caschetto brizzolati, forte accento romano, non riesce a trattenere le lacrime mentre parla della sua condizione. Negli ultimi tempi ha dovuto chiedere aiuto molte volte alla sua famiglia di origine.

“Non mi hanno mai negato un piatto di pasta o qualche soldo per comprare delle medicine, ma mi vergogno”, racconta. La madre è pensionata, la sorella è una parrucchiera. Pisano non avrebbe mai pensato di trovarsi senza lavoro e senza un reddito alla soglia dei sessant’anni, con una figlia ancora a carico. “Quello che mi umilia e mi spaventa di più è non potere comprare delle medicine per lei”. La prima settimana del mese, appena incassa il reddito di cittadinanza, paga le bollette e l’affitto. “La metà del reddito mi va via per pagare le spese di casa”, racconta. “Ogni volta penso: o pago le bollette o faccio la spesa. Decido di pagare le bollette, perché ho paura di essere mandata via da casa”.

Con quello che resta, va al supermercato e fa una spesa di beni essenziali: “Se ne vanno circa cento o centoventi euro”. Ma non si permette qualsiasi cosa, sceglie con cura i beni da acquistare: “Da quando sono in questa condizione non compro la carne o il pesce, perché non posso permettermeli, al massimo una vaschetta di macinato che costa quattro euro. Poi cerco di acquistare i prodotti che sono in offerta”.

Per una vita ha venduto mobili nell’attività di suo padre, ma poi durante la pandemia l’attività è fallita e Pisano si è trovata senza reddito. “Ho cominciato a ritirare i pacchi alimentari da Nonna Roma, un’organizzazione che si occupava della distribuzione durante la pandemia”, racconta. “Ci vado ancora una volta al mese, anche se anche loro non hanno più i fondi che avevano durante la crisi sanitaria. Qualche volta vado in parrocchia e anche lì mi danno una mano”, racconta.

L’indigenza e le difficoltà hanno degli effetti anche sul suo umore e sulla sua salute: “Ci sono stati giorni in cui piangevo, quando tornavo a casa. Oppure quelli in cui non mi andava di alzarmi dal letto per la tristezza”, ricorda. “Poi ho cercato di non perdere la speranza, di tirarmi su, anche se non è facile. Se non ho il pane prendo un po’ di farina e la impasto, improvviso con quello che ho”, racconta. Ma spesso ha dovuto rinunciare a comprarsi delle medicine o ad andare dal medico: “Dovrei curarmi due denti, ma non ho i soldi per farlo”.

Una nuova misura

Secondo il rapporto dell’Istat Mercato del lavoro, redditi e misure di sostegno, pubblicato l’8 marzo, nel biennio 2020-2021 il reddito di cittadinanza è stato uno strumento importante di contrasto alla povertà. Le famiglie che ne hanno beneficiato nel 2021, infatti, nel 74 per cento dei casi appartenevano allo strato più povero della popolazione. Soprattutto nel contesto della pandemia, che ha colpito le fasce di lavoratori più indigenti, il sussidio ha permesso di calmierare gli effetti della crisi.

“Le misure preesistenti di contrasto alla povertà e quelle introdotte nel corso della pandemia hanno attenuato significativamente l’impatto della crisi economica, limitando la contrazione dei redditi disponibili delle famiglie”, spiega Cristina Freguja, direttrice centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat. “L’Istat ha stimato che le misure di sostegno economico erogate nel 2020 abbiano permesso a un milione di individui (in circa 500mila famiglie) di non trovarsi in condizione di povertà assoluta. Le famiglie in cui vivono queste persone, in assenza di sussidi, avrebbero infatti avuto una spesa per consumi inferiore alla propria soglia di povertà”, continua Freguja. “In altri termini, in assenza di sussidi, l’incidenza di povertà assoluta a livello individuale sarebbe stata dell’11,1 per cento (anziché del 9,4 per cento) e avrebbe coinvolto 6,6 milioni di persone, anziché 5,6”.

Il governo di Giorgia Meloni tuttavia ha inserito nella legge di bilancio la sospensione del reddito di cittadinanza a partire dal settembre del 2023, con la completa abolizione nel 2024. Successivamente ha annunciato di volere introdurre un nuovo sussidio chiamato Misura di inclusione attiva (Mia), che prevederebbe minori investimenti complessivi e quindi un numero ridotto di beneficiari.

Secondo il progetto del governo, il Mia prevederebbe un contributo economico di al massimo 500 euro mensili (seimila euro all’anno) per persona, che si riducono a 375 euro in caso in persone “occupabili”, quindi che hanno la possibilità di essere inserite nel mercato del lavoro. La misura introduce inoltre un termine di dodici mesi per gli occupabili con delle deroghe per le famiglie con disabili, anziani o minorenni.

Meno risorse

Sono molti gli analisti e gli esperti che esprimono, tuttavia, perplessità sull’introduzione del nuovo strumento, che lega l’erogazione del sostegno economico all’occupabilità del beneficiario, cioè alla sua capacità di trovare un lavoro e che di fatto riduce le risorse economiche destinate al contrasto alla povertà.

Per il presidente dell’ordine degli assistenti sociali Gianmario Gazzi “è sbagliato dividere i beneficiari tra ‘occupabili’ e ‘inoccupabili’: sarebbe meglio non mescolare le politiche attive del lavoro con le politiche di contrasto alla povertà”. Basta pensare che esistono persone che lavorano, ma hanno salari troppo bassi per vivere dignitosamente. “Siamo la società dei working poor, cioè di persone che lavorano, ma non riescono ad arrivare alla fine del mese”, spiega.

“Il tema della povertà è complesso: si deve tenere conto dei salari bassi, della situazione immobiliare delle città, della salute fisica e psicologica della persona che si assiste. Non si può legare il contrasto alla povertà solo alla possibilità di trovare un lavoro”.

La riforma, secondo Gazzi, costringerebbe molte persone a ricorrere ai servizi sociali, senza che tuttavia sia previsto alcun ulteriore investimento in questo settore: “Non si prevedono finanziamenti per le strutture di welfare, con una platea che sarà molto maggiore rispetto a prima, se questa riforma dovesse passare. Si dirà che dei poveri si devono occupare i servizi sociali, ma se poi non si stanziano dei fondi per i servizi sociali e per il terzo settore, è un problema”, spiega.

A preoccupare Gazzi è anche la durata del sostegno, che sarà limitata nel tempo: “Non si può predeterminare quanti mesi servono a una persona per uscire dalla povertà. Anche il reddito di cittadinanza e il reddito di inclusione avevano un limite temporale, ma mettere un termine di dodici mesi è insufficiente. Servono dei meccanismi per estendere questa misura, se necessario”. C’è poi il problema di quelli che sono definiti ‘inoccupabili’: “Ci sono persone che sono fuori dal mercato del lavoro per ragioni strutturali di salute fisica e mentale o di povertà culturale. Che facciamo con loro? Le lasciamo per strada dopo dodici mesi”.

Questo sembra l’unico obiettivo: risparmiare”

Per Alberto Campailla, presidente dell’associazione Nonna Roma, il primo problema da affrontare, nel luglio del 2023, sarà quando circa 660mila beneficiari del reddito di cittadinanza, considerati dal governo occupabili, perderanno il diritto a ricevere il reddito. Poi da settembre il reddito dovrebbe essere sospeso per tutti. “Le politiche attive del lavoro che erano state promesse per riportare queste persone considerate occupabili nel mondo del lavoro non sono ancora partite”, denuncia Campailla. Per il presidente di Nonna Roma, le bozze che sono circolate del Mia sono preoccupanti, perché si ridurrà di un terzo la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza.

“Avranno diritto al Mia solo quelli che hanno un Isee di 7.200 euro annui invece dei 9.360 euro di oggi. Questo significa che un terzo dei beneficiari dell’rdc perderà il diritto a percepirlo”, afferma. Ma poi in generale c’è un minore stanziamento di risorse pubbliche per fare fronte alla povertà. “I non occupabili percepiranno 375 euro di sostegno al mese, che è niente”, continua Campailla. “Dopo avere a lungo criticato il reddito di cittadinanza, il governo di fatto lo lascerà in piedi semplicemente riducendo i fondi. Taglierà tre miliardi da questa misura. Questo sembra l’unico obiettivo: risparmiare”, conclude.

Nel frattempo il 31 marzo, la Caritas ha proposto al governo di riformare il reddito di cittadinanza sostituendolo con due differenti misure: l’assegno sociale per il lavoro (al) e il reddito di protezione (rep). “L’assegno sociale per il lavoro è rivolto alle persone in grave difficoltà economica, senza lavoro da un determinato periodo di tempo (occupabili) e prive di sostegni pubblici per la disoccupazione. La sua finalità è il reinserimento lavorativo. Si articola in un trasferimento monetario e in attività mirate a trovare un nuovo impiego. È a tempo limitato e pone ai beneficiari stringenti condizioni affinché si impegnino attivamente nella ricerca di un’occupazione”, spiegano in una lettera al governo il professore di economia Cristiano Gori e il direttore della Caritas italiana don Marco Pagniello.

Il reddito di protezione, invece, sarebbe rivolto alle famiglie in povertà. “Assicurerebbe la possibilità di condurre una vita decente e offrirebbe percorsi di reinserimento sociale e di avvicinamento al mercato del lavoro”. Il rep dovrebbe essere composto da un trasferimento monetario e di servizi alla persona, differenziati in base alle specifiche caratteristiche delle famiglie. “Lo si riceve per un certo periodo di tempo, concluso il quale è possibile presentare nuovamente domanda e, se persiste la condizione di povertà, continuare a fruirne”.

Ci vuole un reddito

In Italia sono circa 5,6 milioni coloro che vivono in povertà assoluta, cioè che non riescono ad avere accesso a beni e servizi essenziali; mentre le persone a rischio di esclusione sociale sono 15 milioni. “In questi anni il reddito di cittadinanza ha svolto un ruolo chiave per la tenuta sociale del paese: erogato a tre milioni e mezzo di persone, ha protetto una rilevante fascia della popolazione permettendogli di superare la soglia di povertà e arrivare alla fine del mese”, spiegano in un comunicato una trentina di organizzazioni che si occupano di marginalità sociale e povertà e che hanno annunciato una settimana di mobilitazioni dall’1 al 6 maggio per protestare contro l’abolizione del reddito di cittadinanza con lo slogan: “Ci vuole un reddito”.

A Roma Piero Ambrogini, 56 anni, lavorava come cameriere e barman fino al 2020, quando la pandemia lo ha lasciato disoccupato. “Avevo contratti precari, sono rimasto a casa da un giorno all’altro”, racconta. “La pandemia è stata un disastro per me”, spiega. Senza un reddito, ha dovuto lasciare la casa in affitto in cui viveva, per andare da un amico, con cui condivide le spese. “Ho avuto almeno questa fortuna”, sottolinea. Percepisce 417 euro di reddito di cittadinanza dal novembre del 2022 ed è molto spaventato dall’idea di perderlo: “Mi faccio bastare quello che ho, ma quando è il 15 o il 20 del mese ho finito i soldi”.

Vivere con quattrocento euro in una città come Roma è impossibile: “Basta pensare a quanto costano le case e gli affitti”. Alla pensione non ci pensa: “Mi daranno una pensione minima quando sarà, ma non ho abbastanza contributi al momento, ho lavorato spesso in nero o con contratti precari”. Continua a cercare lavoro, ma finora non è riuscito a trovarlo. “Se mi toglieranno il reddito, non so cosa farò. Vivo alla giornata”.

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