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Sui giornali, in questi ultimi mesi, si è parlato spesso di valutazione. Un liceo di Roma, il Morgagni, ha intrapreso una sperimentazione per sostituire i voti con i giudizi descrittivi; un’inchiesta dell’associazione Roars ha mostrato come i dati raccolti dall’Invalsi possano essere usati per profilare gli studenti.

Ma se nel dibattito pubblico la valutazione è un tema che comincia a ricevere attenzione, a scuola è quasi un tabù. Per questo da qualche anno, quando entro nelle nuove classi, nelle ore di educazione civica, lo tiro fuori, consapevole di sfatare un mito. Tra i molti argomenti di cui non si parla mai a scuola c’è la scuola stessa. Provo a sfilarmi di mano il coltello tenuto dalla parte del manico, e lo porgo ai miei studenti, in segno di pace: come vi dovrei valutare? Che criteri dovrei usare per il voto?

La discussione diventa presto accesa e articolata. Tento di impostarla così: li invito a ragionare sulla valutazione ideale, e a farlo individuando insieme quali sono gli aspetti che secondo loro un docente dovrebbe valutare; ognuno è chiamato a dire la sua liberamente. Ecco cosa viene fuori: l’impegno, la conoscenza dell’argomento, la chiarezza, la capacità argomentativa, la brillantezza, la continuità nello studio. C’è chi è d’accordo che debbano essere valutati certi elementi – la brillantezza, per esempio, o l’impegno – e altri che invece rispondono che non andrebbero considerati.

Stilato questo elenco sommario, gli pongo una seconda questione: considerati gli elementi che scegliamo di valutare, quale peso diamo a ciascuno? Se dovessimo esprimerlo in voti? (Propongo l’automatismo a cui la scuola italiana ci ha abituato). Proviamo, per esempio, a dividere la misura del voto – il massimo: 10 – pensandolo come una somma di più valutazioni relative ai vari aspetti che abbiamo deciso di considerare. Discutiamo quindi dei pesi: l’impegno – fatta la somma 10 – deve valere 1, o 2, o 4? E la conoscenza, quanto contribuisce nella somma? E la chiarezza?

Anche qui le posizioni sono spesso discordi. C’è chi dice che l’impegno deve avere un peso consistente – “occorre premiare l’impegno!” – e chi invece sostiene l’opposto, che “l’impegno dev’essere scontato”; o che, in caso sia valutato, il suo peso dev’essere ridotto al minimo. Io ascolto e cerco di fare la sintesi, spesso la media, delle varie proposte.

A un certo punto arriviamo a un risultato: una griglia di valutazione autoprodotta dagli studenti. Ci sono i parametri secondo i quali loro ritengono sia giusto essere giudicati e ci sono le medie ponderate dei pesi in cui ciascuno di questi giudizi – il voto – dovrebbe essere scomposto per corrispondere a una valutazione equa ed efficace. Sembra già un buon passo avanti essere arrivati fin qui, e spesso ci si mette molto, moltissimo, tempo, svelando in cosa consista effettivamente un esercizio di democrazia collettiva.

Torino. (Francesco Jodice)

Ma a questo punto insisto e propongo un ulteriore dilemma. La griglia messa a punto, pensiamo sia giusto applicarla a tutti, o dovremmo invece personalizzarla a seconda della persona che valutiamo? Forse questo interrogativo sembra meno problematico, ma è quello che genera maggiori dissidi. Tra chi sostiene l’equità di una griglia standardizzata e chi invece ne contrappone una individualizzata, o almeno tarata rispetto al singolo, emerge un contrasto interessante: sono in genere i più bravi a volere la prima; sono gli studenti che fanno più fatica a ritenere migliore la seconda.

Quale morale trarre da queste ore passate a discutere di voti e valutazioni? In modo evidente, da semplici discussioni in classe si percepisce come le idee di valutazione siano tutt’altro che neutre e definite. Coglierne gli aspetti problematici fa parte di una delle più urgenti riflessioni pedagogiche. O – spingendoci ancora più in là nella nostra interrogazione – forse sarebbe da respingere per intero questo modello di valutare gli studenti? Proviamo a rispondere a queste domande, compresa quest’ultima.

Stella polare

Da un po’ di anni sulla valutazione è in corso una battaglia ideologica, accesa anche quando è meno visibile. Chiunque abbia a che fare con contesti formativi, scuola o università, sa bene quanto sia aumentato il peso, spesso la rilevanza, della valutazione nel processo educativo. È un’onda anomala di pressione ideologica arrivata sulla scuola dopo aver attraversato prima altri comparti sociali, dall’industria privata alla pubblica amministrazione.

Ho il ricordo ancora vivo di me adolescente che passavo i week­end aiutando mio padre, impiegato in un’azienda privata, travolto all’improvviso dall’interminabile compito di preparare schede di valutazione per gli altri dipendenti. Mio padre non ne era cosciente, figuriamoci io, ma era approdato anche in Italia il verbo della qualità totale, il cosiddetto modello Toyota.

Cosa sia lo chiarisce il suo teorico principale Taiichi Ohno nel libro Lo spirito Toyota (lo pubblicò Einaudi nel 1993, ma non lo ristampò, forse perché un testo radicalmente neoliberista?). Ohno spiega come nell’ispirato sistema Toyota – stella polare per la nuova industria planetaria – fossero misurati una serie di parametri – la produttività, i tassi di assenteismo, e altre competenze – conformati agli obiettivi aziendali, in modo da far corrispondere anche le voci della busta paga al raggiungimento di certi risultati. Erano gli anni novanta.

Nel nuovo secolo l’ansia misuratrice regna incontrastata ovunque, anche in classe. Non solo il voto è il pilastro portante della relazione educativa; ma la costruzione di griglie valutative, la formulazione di test, la misurazione continua degli apprendimenti colonizza il tempo di confronto tra dirigenti e docenti, tra gli stessi docenti, tra docenti e famiglie. Il cuore pulsante della scuola non è la lavagna elettronica, ma il registro elettronico – dispositivo del modello ansiogeno in cui le famiglie visualizzano i voti in tempo reale.

Sassuolo. (Francesco Jodice)

Quando è cominciata questa tendenza nel sistema scolastico? Nel 2011 il pedagogista Pietro Lucisano pubblicava un piccolo saggio quasi satirico che battezzava la mania della valutazione pervasiva come Sindrome del figlio dell’uomo (Sfu): “A differenza di quanto può apparire a un lettore inesperto, Figlio dell’uomo è un modo per indicare un individuo di natura divina. Questa espressione è stata attribuita a Gesù di Nazareth nelle poche occasioni in cui ha voluto affermare con forza di essere il Messia […]. La Sfu […] accentua la dimensione della tensione ad agire assumendo il ruolo di giudice per far funzionare finalmente le cose. Assunto che le cose, come vanno, vanno male, il valutatore cerca di individuare i colpevoli, colpiti i quali, presume notevoli miglioramenti. Questa soluzione viene percepita dal valutatore come semplice, fortemente innovativa e foriera di una nuova efficienza e di notevoli risparmi di spesa. Le vittime di questa affezione tendono, inoltre, a pensare che il fatto di avere individuato una così semplice e innovativa soluzione, li investa di una grande responsabilità sociale e da quel momento tutto ciò che fanno è inteso come un sacrificio di cui la collettività deve essere grata. Questa tensione apocalittica li porta a considerare che la fretta del fine giustifichi i mezzi”.

Il 2011 era ancora attraversato da una grande mobilitazione contro la riforma Gelmini nella scuola e nell’università, contro la privatizzazione della istruzione pubblica, la precarizzazione della ricerca e dell’insegnamento, il definanziamento massivo e – di fatto – la trasformazione successiva del sistema formativo in un apparato sempre più selettivo e informato delle logiche neoliberiste; logiche che – per come si era evoluta la scuola italiana – s’integravano quasi alla perfezione con le vecchie ideologie classiste e paternaliste di stampo gentiliano. Valutare, controllare, selezionare e punire.

Funzione formativa

Nel 2013 la rivista aut aut mandava alle stampe un numero dedicato alla valutazione che raccoglieva già allora un ricco strumentario critico: il curatore Alessandro Dal Lago chiamava a raccolta diversi autori che lungo il decennio si sarebbero occupati del tema in maniera approfondita – da Valeria Pinto a Francesco Sylos Labini della rivista Roars. Tra tutti i contributi va ripreso quello di Francesca Coin, che riconosceva nel passaggio dal fordismo al postfordismo, dal sistema liberale a quello neoliberale, l’orizzonte della mania valutativa.

Comincia allora, scrive Coin, “il processo di riforma volto a estendere alla sfera pubblica le finalità di efficacia, efficienza, trasparenza tipiche della corporate accountability, sino a ora caratteristiche della sfera privata, e il ripensamento complessivo di tutti quei servizi pubblici, dalla giustizia alla sanità all’istruzione, che caratterizzavano la società del secondo dopoguerra. Il passaggio dal ruolo regolativo dello stato a una governance decentrata, o da sistemi istituzionali di governo, prevalentemente fondati sulle istituzioni della rappresentanza e orientati alla centralità delle funzioni di input, a sistemi di governo orientati alla rivalutazione di modalità d’azione più orientate all’efficienza e all’efficacia degli output, affida ai princìpi di accountability e rendicontabilità il tentativo di sostenere l’incremento della produttività a partire da un’allocazione selettiva delle risorse. Tale scelta, figlia di un impianto neoclassico basato sull’individualismo metodologico e la matematizzazione dell’economia, si concretizza nel campo dell’istruzione nell’uso diffuso della valutazione quale dispositivo di allocazione delle risorse su base selettiva alle sole aree di ricerca, soggetti, oggetti e strutture efficienti”.

Coin parlava di università, di fondi per la ricerca, di politiche del lavoro e della formazione; di lì a poco, in modo ancora più cinico, la stessa logica avrebbe informato anche la scuola.

Se siamo invasi da test, test a crocette, test di ingresso, test d’uscita, se il voto si è trasformato quindi in uno strumento di disciplinamento per gli studenti e in fondo per gli stessi docenti, come possiamo immaginare una valutazione che abbia invece una funzione formativa e quindi anche di emancipazione? Su questo interrogativo – sulla riflessione critica della valutazione – si confrontano due posizioni differenti, spesso alleate, alle volte divergenti, e inserite in qualche modo in due tradizioni ideologiche e pedagogiche ispirate da una parte a Karl Marx, dall’altra a John Dewey.

Seguendo una prospettiva marxista e postmarxista, come fa Coin per esempio o Valeria Pinto (Valutare e punire, 2012) o come fa Angélique Del Rey, si vede come l’unica possibilità di contrastare questa Tirannia della valutazione – come si intitola il libro stesso di Del Rey (pubblicato nel 2013 in Francia, nel 2018 in Italia) – sia sottrarsi, mettere in discussione fino a decostruire l’intero impianto ideologico che giustifica il sistema di valutazione: “È il capitalismo a svolgere un ruolo determinante per il futuro della valutazione. In primo luogo, la rivoluzione industriale crea un nuovo bisogno di ‘competenze’ (capacità frutto di formazione) che vanno valutate nell’ambito di un sistema scolastico allora in costruzione”, scrive Del Rey.

Modena. (Francesco Jodice)

Ecco la critica ormai nota e molto diffusa alla didattica per competenze e al concetto stesso di competenza. Ed ecco, meno diffusa ma altrettanto drastica, la critica a quella che potremmo definire “metrolatria”, un processo di valutazione pervasiva in cui nulla nel processo educativo riesce a sfuggire all’ossessione per la misurazione. “I concetti di accountability, competenza, taylorizzazione della didattica o assessment nascono qui, nel tentativo di inserire l’istruzione all’interno di uno schema neoclassico di costi e benefici suggerendone un ruolo centrale nella crescita economica e nella competitività internazionale. Gary Hall ha parlato della Uberfication of the university (2016), a indicare l’allontanamento da prassi collaborative verso un più radicale individualismo che fa leva ampiamente sull’autopromozione e il personal branding”: sempre Coin, L’età dell’inadeguatezza (2016).

Se i marxisti possono notare l’ambivalenza semantica del valore, e quindi stanare il modo in cui la logica capitalistica s’ingegna a trovare misure nell’educazione traducibili in altri sistemi valoriali, del lavoro, dell’economia, dello status sociale, i deweyani notano un’altra ambivalenza, significativa, nel termine misura: da una parte un crudo, automatico conteggio, dall’altra “abito di equilibrio e discrezione” (la riflessione come la definizione è del pedagogista di matrice deweyana Aldo Visalberghi).

Chi muove da una prospettiva deweyana pensa sia possibile partire proprio da un modello critico di valutazione per ribaltare la logica disciplinante e spesso mortificante di questo sistema di misurazione quantitativa. E ritiene che questo sia possibile non ridimensionando l’importanza della valutazione o della misurazione, ma – al contrario – valorizzandone gli aspetti teorici, dialettici, cognitivi, pedagogici.

Per riassumere il dibattito, possiamo partire citando un testo spartiacque della docimologia (così si chiama la teoria della valutazione) non solo italiana: Misurazione e valutazione nel processo educativo proprio di Aldo Visalberghi. Esce nel 1955, e molte parti contengono delle domande che oggi risuonano nel dibattito sull’educazione progressista: “Ma qual è il valore e la funzione di voti ed esami? Sono essi elementi essenziali del processo educativo, o non piuttosto residui di una concezione superata della educazione, improntata ad una inumana preminenza della funzione selettiva? Perché preoccuparci di voti e di esami che, se anche oggi costituiscono ancora una necessità amministrativa, saranno sperabilmente tolti di mezzo dal progresso educativo, quando le scuole saranno volte al libero ed armonico sviluppo delle attitudini individuali e delle disposizioni sociali degli allievi considerati come ‘persone’ dotate di un loro valore singolare e incommensurabile. Taluni esperimenti di educazione attiva non hanno forse già ripudiato l’uso dei voti?”.

Gli interrogativi di Visalberghi non sono provocazioni; nella maggior parte del libro difende, appunto, la necessità della misurazione nel processo valutativo. Quale sia la ratio di questa difesa lo spiega bene Cristiano Corsini in un testo presentato al convegno del 2016 proprio su Misurazione e valutazione di Visalberghi (la pubblicazione degli atti è del 2018): “Nell’incoraggiare un uso accorto e intelligente di uno strumento valutativo (il test), Visalberghi si fa infatti inevitabilmente carico di sostenere, come vedremo, innovazioni radicali nell’insegnamento. Si tratta di considerazioni (che avrebbero trovato ampi riscontri nel corso dei decenni successivi) volte in primo luogo a promuovere, allo scopo di stimolare la partecipazione attiva di studentesse e studenti, l’integrazione tra momenti didattici che erano vissuti come polarità nettamente distinte e separate: l’insegnamento e la valutazione”.

Ci siamo, forse. Possiamo segnare uno spostamento di punto di vista da condividere con le persone coinvolte in una comunità educante, in un processo formativo: la valutazione non è una fase alla fine del processo educativo, ma vive al suo centro. In caso contrario, il senso stesso pedagogico si perderebbe. È il momento valutativo a innescare la didattica successiva, e al tempo stesso è l’occasione di stimolo per una discussione che si presenta come elemento centrale dell’insegnamento.

La chiamiamo valutazione formativa o valutazione per l’apprendimento. A questo punto tocca solo – a chi insegna e a chi si occupa di educazione – ripensare il senso dei voti; aprire uno spazio di discussione in classe o a casa intorno alla valutazione; lavorare con quelle tecniche didattiche che la ricerca in pedagogia propone per ripensare la valutazione. C’è insomma da divertirsi, insieme.

Foto
Ritratti di classe

Le foto fanno parte della serie Ritratti di classe di Francesco Jodice. Un album fotografico che raccoglie le immagini degli studenti di alcune scuole elementari e medie di Torino, Vicenza, Ischia, Sassuolo, Milano e Modena. “Francesco Jodice si è sostituito ai fotografi incaricati di scattare la rituale foto di classe di fine anno, utilizzando un canone precostituito per dare forma a una sorta di superistantanea dell’Italia futura”, scrive il critico Francesco Zanot. “Soffermandosi sulle nuove generazioni, Jodice osserva con il rigore di un entomologo i cambiamenti culturali in corso e compila un’antologia di quello che sarà”.


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