I festival musicali, piccoli medi o grandi che siano, attraversano tre fasi. La prima, eroica, in cui si scavano un proprio spazio, intercettano il loro pubblico e impongono gradualmente un’estetica; la seconda in cui si consolidano, magari osando qualcosa di più ma sempre con attenzione al pubblico che hanno saputo coltivarsi e la terza, quella della decadenza, in cui smettono di essere dei festival e diventano degli eventi. Il pubblico si allarga a dismisura, i cartelloni diventano sempre più confusi e generalisti e gli sponsor reclamano sempre più spazi.

È raro che un festival riesca a sopravvivere alla terza fase e a tornare indietro. Ci ha almeno provato il gigantesco Primavera sound di Barcellona dopo l’edizione del 2016 (quella in cui i Radiohead hanno praticamente cannibalizzato il resto del cartellone); non ci ha mai provato il Coachella di Indio, in California, che dal 2006 in poi (l’anno in cui Madonna suonò in contemporanea ai Tool – ero lì ed è stata un’esperienza surreale) è diventato un’idra a cento teste, un po’ parco giochi per sponsor e un po’ sfondo per influencer sempre meno fantasiosi. Il Coachella del 2006 è stato una parabola profetica sui pericoli della crescita a tutti i costi, proprio nell’anno in cui Facebook perfezionava il suo modello pubblicitario e si preparava a diventare un colosso divorando la rete come la conoscevamo.

Diversità e divertimento

La settima edizione di VIVA! (Valle d’Itria International Music Festival), che si è tenuta a Locorotondo e dintorni dal 2 al 6 agosto, ci ha permesso di assistere a un piccolo-medio festival in felice equilibrio tra prima e seconda fase. Un festival a misura di persona in cui organizzatori e direzione artistica sembrano aver messo a fuoco non solo il loro pubblico ma anche tutte le variabili che fanno di una buona manifestazione un’occasione di divertimento e di relax da una parte, ma anche di diversità culturale e di ricerca dall’altra.

Il cartellone di questa edizione del VIVA! riesce a essere vario, a volte anche popolare, senza essere mai generalista. L’alternanza, troppo spesso lasciata al caso tra live tradizionali e dj set, qui viene chiaramente studiata e soppesata: spesso i confini che dividono i due tipi di esperienza si confondono allegramente, come nel caso del memorabile set del dj e produttore di Detroit Moodymann del 4 agosto.

Bonobo al festival Viva!. (Francesco Speranza)

Anche la parità di genere nei cartelloni, un tasto dolente della maggior parte dei festival italiani, qui sembra essere stata affrontata finalmente come possibilità artistica più che come rompicapo da risolvere. La pianista e produttrice Maria Chiara Argirò, la frontwoman della band synth pop svedese Little Dragon, la producer canadese Jayda G, la sperimentatrice rnb Liv.e con la loro varietà di suoni e di esperienze, non sono certo quote rosa ma sono la spina dorsale del cartellone. Non siamo ancora al cinquanta e cinquanta di alcuni festival europei ma per l’Italia è già un notevole risultato.

La parità di genere nei festival, finalmente lo abbiamo capito tutte e tutti, non è solo una questione di vuota political correctness: ha un effetto benefico anche sul pubblico che sarà più variegato, più mescolato, più amichevole. Può sembrare strano, ma vedere in un festival italiano gruppi di ragazze sotto al palco che ballano in mezzo agli altri senza paura di essere infastidite o spintonate è ancora una cosa abbastanza nuova.

Nel qui e ora senza smartphone

La caratteristica dei due concerti principali di questo VIVA!, quello del canadese Caribou (Daniel Snaith) e quello del britannico Bonobo (Simon Green), è l’organico mix tra elettronica e strumentazione live. Le due esibizioni, a un giorno di distanza una dall’altra, sembravano speculari: più spinto e da club Caribou (con momenti quasi rave) e più variegato e melodico Bobobo. Entrambi, per strade diverse, mostrano quanto possa essere trascinante ma anche elegante la musica dance accompagnata da strumenti analogici. Bonobo in particolare, forte di una solida sezione di fiati, di un eccezionale batterista e di una cantante (Nicole Miglis), si è dimostrato non solo ottimo band leader ma anche abile improvvisatore.

Nei set di Caribou e di Bonobo i confini tra dance e canzone, tra elettronica e jazz, tra ballo e ascolto si sono felicemente dissolti. La prova che quello a cui assistevamo fosse qualcosa di “vero” e di organico che accadeva nel qui e ora, era la relativa scarsità di cellulari alzati: era troppo bello seguire gli sguardi che Green, dalla sua postazione di dj-producer, si scambiava con i musicisti, quei “cue” da big band che lanciava alle percussioni, al basso, alla chitarra e ai fiati. Troppo bello per lasciarlo allo schermo di uno smartphone.

Il ritorno dei Cymande

Se Caribou e Bonobo hanno ibridato acustico ed elettronico, digitale e analogico i britannici Cymande, storico gruppo funk psichedelico degli anni settanta miracolosamente riformatosi nel 2014, hanno portato in scena il 4 agosto le radici della libertà che abbiamo oggi di mescolare generi e tecniche. I Cymande (“colomba” in lingua creola), tutti discendenti da diversi paesi dell’area caraibica anglofona, sono stati dei pionieri che hanno incorporato, in tre album usciti tra il 1971 e il 1974, elementi di rock, reggae, calypso e jazz. La loro carriera è stata breve ma il loro eclettismo ha continuato a scorrere, come un fiume carsico, lungo tutti gli anni ottanta e novanta: i Cymande sono diventati oggetto di culto per gli impallinati britannici di Rare groove e fonte inesauribile di campionamenti per padri dell’hip hop come Kool Herc e Grandmaster Flash e per i loro figli più eclettici, afrocentrici e intellettuali come i De La Soul o il francese MC Solaar.

I Cymande, ormai settantenni (due dei componenti originali sono morti nel 2020), salgono sul palco del VIVA! con l’autorevolezza dei padri fondatori e la freschezza di una band appena riscoperta. La gioia che hanno nel suonare insieme è contagiosa. Dietro di loro scorrono immagini storiche della loro carriera: le prime foto di gruppo, il concerto all’Apollo theater di Harlem (sono stati i primi inglesi a suonare nel tempio della musica afroamericana) e poi i loro 45 giri: feticci sacri per collezionisti e cultori del Rare groove.

Lunghi workout funk dalla coda psichedelica, ballate soul, incursioni nel gospel e nel reggae si susseguono in un set che sembra una celebrazione della musica senza confini. Quando Ray King, il cantante principale dei Cymande, ci invita a ripetere con lui “Music is the message and the message is music” sembra una messa, un rituale, una manifestazione di quell’afflato quasi religioso che percorre la migliore musica dance che si è sviluppata negli ultimi cinquant’anni. Tutto sotto una luna enorme e un cielo limpido che solo una volta, nella notte tempestosa tra venerdì e sabato, ci ha riportato a un’estate che ricorderemo per gli sbalzi climatici e per gli eventi meteorologici estremi.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it