In Italia esistono più di diecimila “piccole scuole”, così chiamate perché ospitano un numero ridotto di alunni rispetto alle scuole tradizionali o anche solo perché si trovano in territori geograficamente isolati. Le studia e le supporta dal 2017 l’istituto di ricerca Indire (Istituto nazionale documentazione, innovazione, ricerca educativa), sostenuto dal ministero dell’istruzione, per promuovere buone pratiche di didattica e di inclusione per mantenere alta la qualità dell’offerta formativa ed evitare che le famiglie possano scegliere di trasferirsi nei centri urbani più grandi in grado di essere più competitivi sul piano della didattica.

Pescina, provincia dell’Aquila, maggio 2023. (Donata Columbro)

Tra queste piccole scuole c’è anche l’istituto comprensivo Fontamara, che ha la sede principale a Pescina, un paese di quasi quattromila abitanti in provincia dell’Aquila nella Marsica, la zona centrale dell’Abruzzo. L’istituto – tra scuole dell’infanzia, scuole primarie e scuole secondarie di primo grado – si sviluppa in modo diffuso sul territorio, in sei sedi diverse tra Aielli, Collarmele, Cerchio, San Benedetto dei Marsi e Pescina Valente. Ci sono più di 900 alunni in totale, ma il Fontamara è una “piccola scuola” perché corrisponde alla caratteristiche individuate da Indire per definire scuole di piccole dimensioni quelle che si trovano nei territori delle isole, delle montagne e delle aree interne, come la Marsica, o che comunque vivono situazioni di marginalità.

Pescina dista da Roma circa due ore e mezzo di pullman, con fermata ad Avezzano. Nella piazza principale a fine marzo c’è silenzio, come se il paese stesse trattenendo il respiro in attesa di una risposta. Pescina infatti aveva depositato la sua candidatura per diventare capitale italiana della cultura nel 2025. Alla fine è stata scelta Agrigento, ma la candidatura di Pescina dice moltissimo di questa terra e dei suoi cittadini. Nei siti di promozione turistica quest’area viene raccontata come “l’Abruzzo più vero”, a metà tra Roma e l’Adriatico. Forse l’aggettivo “vero” nasce dalla sua corrispondenza ai paesaggi descritti da Ignazio Silone, nato proprio a Pescina nel 1900 e che in queste zone ha ambientato il suo primo romanzo, Fontamara, che racconta la storia di un borgo di montagna del Fucino e dà il nome all’istituto comprensivo.

Come spiega Maria Gigli, la dirigente scolastica del Fontamara, e confermano i docenti incontrati nelle varie sedi della scuola, questa comunità crede moltissimo nel proprio territorio.

La Marsica è una zona dell’entroterra abruzzese che si sviluppa intorno alla piana del Fucino, dove un tempo c’era un lago – il terzo in Italia per estensione dopo il Garda e il Maggiore – fatto prosciugare definitivamente nel 1875 dal principe Alessandro Torlonia dopo vari tentativi risalenti già al settimo secolo ac. Per le sue caratteristiche, come il trovarsi a 700 metri sul livello del mare e avere un terreno molto fertile (un tempo era il fondo del lago), la piana del Fucino è ideale per alcune coltivazioni che sono diventate un’eccellenza della regione, come le patate e le carote, che dal 2007 hanno ricevuto il riconoscimento di prodotti a indicazione geografica protetta.

La richiesta di manodopera in quest’area è elevata, la percentuale di stranieri residenti è più alta della media nazionale (a San Benedetto dei Marsi oltre l’11 per cento e a Luco dei Marsi oltre il 16 per cento secondo l’Istat) e infatti le piccole scuole marsicane dell’istituto Fontamara hanno una presenza di alunni stranieri che arriva al 18 per cento, mentre il dato nazionale secondo il ministero dell’istruzione è in media del 10 per cento.

“In alcune sedi, come a San Benedetto dei Marsi, si arriva anche al 50 per cento all’interno delle classi”, conferma Gigli, che in questo momento condivide l’ufficio con il giudice di pace di Pescina, dopo vari spostamenti di sede dovuti all’accorpamento di plessi diversi e alla ristrutturazione degli edifici scolastici dopo il terremoto del 2016.

L’unione fa la forza

Quando cerco di contattare la scuola per visitarla in effetti è difficile trovare Gigli in ufficio e, dopo una giornata passata con il professor Antonio Fosca, che insegna arte alle scuole secondarie di primo grado del Fontamara, capisco perché: il tempo che i docenti trascorrono in aula è simile a quello passato in auto per raggiungere le varie sedi scolastiche.

Prima infatti c’erano tre istituti separati, riuniti nel 2018 e che oggi funzionano come un corpo e una testa unica. Le iniziative sono sempre discusse e condivise da tutti e le opportunità per gli studenti sono distribuite equamente, per quanto possibile data la geografia del luogo visto che tra le diverse scuole ci sono fino a 25 chilometri di distanza. Gigli è convinta che molto sia dovuto anche alla saggezza e all’unità dei sindaci della Marsica, che in questo contesto cooperano per garantire alla scuola le risorse e le risposte necessarie alle esigenze di una scuola diffusa sul territorio. Per Gigli il corpo insegnanti ma anche il personale amministrativo del Fontamara è in realtà una piccola comunità che ha saputo lavorare bene insieme, perché ha un forte senso di appartenenza: “Bisogna anche saper parlare con i genitori: quelli di Aielli sono diversi da quelli di San Benedetto, ma io sono del luogo e ho insegnato per 25 anni in queste scuole”.

Ad Aielli, borgo a mille metri sul livello del mare, famoso per l’arte a cielo aperto grazie alla presenza di più di trenta murales di altrettanti street artist, la scuola secondaria condivide con la scuola d’infanzia gli spazi di una nuova struttura, aperta nel 2018,. Fuori, ai piedi delle montagne, ci sono un campo da calcio e da basket. Le aule sono piccole, ma nelle classi del Fontamara ci sono al massimo 17 alunni quando sono piene, e in alcune, come la scuola d’infanzia di Collarmele, anche solo dieci. È ad Aielli che incontro Lucia Panecaldo, docente di italiano, che nell’anno scolastico 2020-21, quello di ritorno a scuola dopo la pandemia, ha collaborato con il professor Fosca nella partecipazione al progetto Classi in rete portato avanti dal movimento Piccole scuole.

Alcune classi prime e seconde medie dell’istituto Fontamara hanno lavorato a distanza con le classi quarte e quinte della primaria dell’istituto comprensivo di Civitella - Torricella in provincia di Teramo, creando testi e illustrazioni a partire dal racconto Notte di luce di Sergio Bambarén, immaginando di attraversare il tempo e l’universo raccontando la storia dell’umanità. Il risultato è stato un libro disegnato con tecniche di tempere e collage, che ora fa parte del patrimonio della scuola. Il progetto è ispirato a un’iniziativa governativa del Québec chiamata “École éloignée en Réseau (Éér)”, nata proprio per salvaguardare le piccole realtà scolastiche remote e assicurare un’istruzione di qualità anche nei luoghi più isolati e difficili da raggiungere.

Anche se in Italia non esiste una legge ufficiale che definisca o identifichi queste realtà, il Movimento delle piccole scuole, fondato nel 2017 e sostenuto dal ministero dell’istruzione tramite Indire, ha attivato una raccolta dati tramite adesione diretta degli istituti: a oggi ne hanno registrati 8.848, più altri 1.460 che sono piccole scuole con le pluriclassi, cioè dove gli studenti possono avere età diverse e sono seguiti dallo stesso insegnante nel corso dell’anno. In quest’ultimo caso si tratta di istituti scolastici che si trovano in luoghi talmente isolati o scarsamente abitati da non riuscire a creare classi di età diversa.

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Poter mantenere aperta una scuola in un territorio dove scarseggiano altri servizi è uno degli obiettivi del progetto Piccole scuole, a cui il ministero dell’istruzione contribuisce con i fondi della politica di coesione: il progetto del valore di 1,24 milioni di euro, secondo i dati del portale OpenCoesione, è realizzato nell’ambito del programma operativo nazionale (Pon) “Per la scuola”, finanziato nel ciclo 2014-2020 dai fondi strutturali europei e coordinato in questi anni dalla ricercatrice Giuseppina Mangione di Indire. L’attività di ricerca e coinvolgimento delle scuole di tutta Italia da parte di Indire ha contribuito a sostenere la permanenza di migliaia di istituti in territori geograficamente svantaggiati, e quindi a mantenere un presidio educativo e culturale in aree a rischio spopolamento, in coerenza con l’idea alla base dei fondi di coesione europei, che mirano a ridurre le differenze fra i territori e garantire le stesse opportunità a tutti i cittadini europei.

L’obiettivo, oltre a produrre contenuti e materiali destinati alle scuole del movimento, ma anche a quelle “tradizionali”, è una formazione specifica ai docenti che operano in contesti geograficamente svantaggiati, con particolare attenzione alle aree interne, come è anche la Marsica.

Storicamente le scuole delle zone poco urbanizzate o con pochi alunni sono sempre state considerate negativamente, come se il numero di iscritti comportasse una scarsa qualità dell’insegnamento o della struttura. In realtà la ricerca svolta in questi anni conferma che la presenza di scuole in un territorio, anche con un numero esiguo di studenti, è un’opportunità per tutta la comunità e in più permette di sperimentare modalità didattiche che i ricercatori definiscono “non standard” in situazioni che non sono adatte al modello dominante di organizzazione delle lezioni ma anche degli spazi fisici dell’insegnamento.

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Tra i progetti portati avanti dal movimento Piccole scuole ci sono infatti esperimenti di scuola di prossimità, in cui le classi sono portate a fare lezione nei musei o nelle biblioteche, mettendo in collaborazione luoghi del territorio e per rispondere al fabbisogno di spazi scolastici aggiuntivi, ma anche progetti come Classi in rete che hanno puntato sul digitale per fare uscire le piccole scuole dall’isolamento e metterle in contatto con altre esperienze per un confronto diretto e costante tra insegnanti e alunni.

In Italia hanno partecipato 13 scuole, tutte in Abruzzo, con 40 insegnanti formati e coinvolti. “Il valore aggiunto è stato il lavoro continuativo: queste classi hanno lavorato come se fossero una classe unica”, spiega Mangione. “Le scuole si sono gemellate rispetto a un contenuto o un tema chiave e hanno costruito modalità didattiche su cui hanno lavorato tutto l’anno, anche in pluriclasse”. Il lavoro è stato svolto su una piattaforma digitale, il knowledge forum, messo a disposizione dall’università di Toronto, in cui interagivano studenti e docenti.

Che il digitale sia un acceleratore di competenze per la scuola è un’idea che nasce al di là del movimento Piccole scuole, ma arriva dal piano per il digitale presentato nel 2016 durante la riforma della Buona scuola del 2015, che ha creato in ogni scuola italiana la figura dell’animatore digitale, incaricato di formarsi e formare a sua volta i propri colleghi. Per misurare le azioni fatte con gli investimenti previsti dal piano è nato poi l’Osservatorio scuola digitale, che raccoglie dati registrati in autonomia da ogni istituto, anche se questi dati non vengono restituiti in modo pubblico. Per capire lo stato della digitalizzazione delle scuole italiane la fondazione Openpolis ha dovuto usare una tecnica di web scraping per raccogliere i dati presenti su Scuole in chiaro (poi pubblicati in questo rapporto).

Nella presentazione degli investimenti per il progetto Scuola 4.0 previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ci sono alcune statistiche derivanti dall’Osservatorio scuola digitale, in cui si afferma che nel 2020 il 93,4 per cento delle classi italiane sono connesse a internet, nell’81,3 per cento delle scuole ci sono ambienti di apprendimento innovativi, l’80,3 per cento dei docenti utilizza giornalmente o settimanalmente le tecnologie digitali nella didattica e in cinque anni il rapporto studenti/dispositivi si è dimezzato.

Tra gli obiettivi dei fondi assegnati per il Pnrr ci sono due azioni: la prima, “trasformare almeno centomila aule delle scuole primarie, secondarie di primo grado e secondarie di secondo grado in ambienti innovativi di apprendimento” (next generation classrooms, con un miliardo e 296 milioni di euro assegnati); e la seconda, realizzare dei laboratori “per le professioni digitali del futuro” (next generation labs, con 424 milioni e 800 mila euro assegnati). Secondo un’indagine del ministero dell’istruzione relativa all’anno scolastico 2014- 2015 l’Abruzzo era terzultimo in Italia per numero di dispositivi nelle aule scolastiche, con una media di 10,7 alunni per dispositivo. Come denuncia anche Openpolis, la ripartizione è stata fatta senza una vera e propria analisi per ridurre i divari tra territori, e semplicemente assegnando le risorse in base alla popolazione, anche se la modalità non era definita in modo esplicito dal decreto attuativo.

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All’Abruzzo sono destinati oltre 40 milioni di euro di questi fondi, e il Fontamara ha già presentato un progetto per ottenere i 174 mila euro per l’azione 1 prevista dal piano e assegnati dal ministero sulla base del numero delle classi di ciascuna scuola. Come spiega Daniele Rosati, docente di tecnologia (ex educazione tecnica) e animatore digitale della scuola, con le next generation classrooms si supera il concetto di laboratorio di informatica e si integrano le tecnologie all’interno delle aule tradizionali.

Lo incontro nel laboratorio del plesso di Pescina, che si sta trasformando in una vera e propria officina di fabbricazione digitale grazie alla presenza delle stampanti 3d, di una fresatrice e di materiale per l’avviamento alla robotica per le classi della scuola primaria. Rosati mi mostra i nuovi computer portatili arrivati proprio quella mattina e il sistema integrato di Microsoft che hanno in uso dal 2016 e che li ha fatti diventare una scuola show case, cioè caso studio, per l’azienda, tanto che in alcuni progetti di didattica gli studenti hanno sviluppato ambienti del videogioco Minecraft prendendo spunto dalle ambientazioni della Divina commedia e applicando le nozioni di prospettiva apprese in educazione tecnica. L’idea di poter usare invece software open source non è mai stata presa in considerazione, spiega Rosati, perché il pacchetto che propongono le grandi aziende in qualche modo risponde a tutte le esigenze di chi deve coordinare l’uso dei computer da parte di persone anche poco competenti in materia, o che sono in fase di apprendimento.

Sempre l’inchiesta di Openpolis denuncia il fatto che molti istituti abbiano problemi con la presentazione dei progetti del Pnrr al ministero dell’istruzione a causa della carenza di personale o per la scarsa preparazione dei docenti, rischiando di non poter accedere ai fondi.

“Quello che è oggi la scuola Fontamara è frutto di un momento storico unico per le persone che sono qui, per le competenze che abbiamo in questo preciso momento a disposizione”, conferma Gigli. Ma molti insegnanti hanno chiesto il trasferimento, compreso l’animatore digitale Rosati, e la stessa dirigente andrà in pensione a settembre. Il nuovo corpo docenti saprà salvaguardare l’esperienza virtuosa di questi ultimi anni?

Il Fontamara non sembra una scuola dove le parole innovazione e digitale vengono usate per fare colpo sui genitori agli open day, perché certi strumenti sono considerati essenziali, anche a causa del contesto geografico in cui si trovano le diverse sedi: le piattaforme di videoconferenza vengono usate per i consigli di classe e permettono ai docenti di confrontarsi senza doversi incontrare fisicamente in uno dei sei diversi plessi, i genitori prenotano i ricevimenti online, e viene sfruttato in modo integrato nelle lezioni, ma anche nei compiti in classe, come mi spiega Panecaldo. La docente di italiano oggi trova che l’uso del digitale sia un passo in avanti per integrare i numerosi stranieri in classe, tra cui alcuni alunni ucraini, e le persone con disturbi dell’apprendimento, sempre più numerose nelle classi del Fontamara.

Disegni prodotti dagli alunni della scuola Fontamara nell’ambito del progetto Classi in rete. Pescina, provincia dell’Aquila, maggio 2023. (Donata Columbro)

Ma non tutti credono che i fondi in arrivo con il piano Scuola 4.0 siano necessariamente una buona notizia. Marco Gui, professore associato di sociologia dei media all’università di Milano-Bicocca e autore del libro Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio? (Il Mulino 2019), sostiene che l’innovazione portata dai computer e i tablet in classe come elemento della didattica non siano sempre un investimento su cui puntare: “Ci sono dei conflitti radicali tra l’utilizzo di molti di questi strumenti e gli obiettivi di apprendimento tradizionali. Senza considerare il fatto che più si digitalizza l’apprendimento, più gli studenti devono fare i compiti usando internet: è un’attività poco desiderabile, sia per i rischi contenutistici sia per la sovrastimolazione. E non stiamo misurando se questa scelta abbia più vantaggi o più problemi per le nuove generazioni”. Il piano Scuola 4.0 sta riversando nuovi fondi per puntare sul digitale ma “i piani precedenti ​​non hanno portato risultati positivi sull’apprendimento”, scrive Gui, e in pratica si fa una scelta politica, una “corsa in avanti”, senza davvero guardare i dati.

I progetti come Classi in rete partono però da un presupposto diverso. Secondo la ricercatrice Mangione di Indire, che ha studiato molto bene i contesti in cui senza poter attivare una didattica a distanza diventa impossibile per gli alunni avere una continuità scolastica, sostiene che il digitale sia “un elemento di cui avvalersi per superare i divari” ma che sia comunque una “tecnologia che va pedagogicamente pensata”. Racconta di tante situazioni nell’ambito delle piccole scuole con bambini che restano a casa per lunghi periodi “a causa di condizioni ambientali precarie, come nelle isole o in alta montagna, e che possono continuare a fare lezione senza allontanarsi da quello che è il loro ambiente primario”.

Per Vanessa Antoniali, responsabile degli affari pubblici e istituzionali per la delegazione del Québec a Roma, che sostiene l’iniziativa italiana gemellata con quella canadese, “le alternative alla didattica tradizionale nascono da una specifica esigenza. Il Québec ha un territorio grande sei volte quello dell’Italia e una popolazione di quasi otto milioni e mezzo di abitanti. La maggior parte dei centri abitati si concentra lungo il San Lorenzo e nelle città di Montréal e Québec City, ma ci sono cittadine che distano anche sette ore di macchina l’una dall’altra. Mettere le classi in contatto facendole lavorare online ha ridotto il senso di isolamento”.

Per Mangione il progetto Classi in rete ha avuto una ricaduta anche dal punto di vista dei genitori, che hanno vissuto “un modo diverso di fare scuola, un modo che garantiva la relazione tra pari, l’inclusione, l’apertura in luoghi dove spesso “il problema non è solo geografico, ma anche culturale o in classi con numeri molto piccoli”.

Il progetto potrebbe ora essere riproposto in Liguria, sempre con il sostegno del governo del Québec. Immaginando che ogni valutazione di investimento venga fatta guardando ai dati e alle esperienze pregresse, come insegnano il successo del movimento Piccole scuole e l’esempio dell’Istituto comprensivo Fontamara.

Questo articolo fa parte di A Brave New Europe – Next Generation, un progetto di Slow News, Percorsi di Secondo Welfare, Internazionale, Zai.net e La Revue Dessinée Italia finanziato dall’Unione europea.

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