A metà dell’ottocento Antonio D’Arco, un abitante di Ponza, fu costretto a fuggire dopo aver quasi ammazzato un confinato in seguito a una lite. Si rifugiò alla Galite, una piccolissima isola che dà il nome a un arcipelago che si trova tra le coste della Sardegna e quelle della Tunisia. Si racconta che la occupò con polli, capre, sementi e sette fucili da caccia. In pochi anni La Galite si popolò di qualche famiglia e D’Arco diventò una specie di sovrano assoluto, deciso a difendere la sua conquista, e creò perfino piccoli problemi diplomatici tra il neonato Regno d’Italia e la Tunisia. Costruì delle piccole case e anche un cimitero. L’isola, ormai spopolata, oggi è una zona militare.

È proprio questa singolare storia del Mediterraneo che sembra aver ispirato il cantautore e compositore Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani, e Paolo Angeli, musicista sperimentale molto apprezzato all’estero (al punto da sfiorare la candidatura ai Grammy) che suona la chitarra sarda preparata, uno strumento a 18 corde che si è costruito da solo. Angeli e Incani, entrambi di origini sarde e nati rispettivamente a Palau e a Buggerru, hanno intitolato il loro nuovo disco Jalitah, che è il nome arabo della Galite. Jalitah ha una genesi particolare: nel 2018 i due musicisti hanno deciso per la prima volta di fare un tour insieme nei teatri e nei festival. Hanno portato sul palco brani dei loro rispettivi repertori, ma li hanno inseriti in un flusso d’intermezzi strumentali realizzati improvvisando sul momento. Ora, a cinque anni di distanza, le registrazioni di quella tournée sono state finalmente pubblicate.

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Jalitah somiglia a un’immersione nelle profondità del Mediterraneo: gli stili di Incani e Paolo Angeli si mescolano e si contagiano per costruire un viaggio in un mare sonoro con risultati sorprendenti. Le parti strumentali come Zeidae e Banco delle sentinelle, dove i campionamenti, la chitarra elettrica e le tastiere di Iosonouncane dialogano con la chitarra preparata di Angeli, sono quelle più interessanti. Ma anche i brani già editi, come Summer on a spiaggia affollata e Andira, in questo contesto brillano di una luce diversa e toccano vette di poesia assoluta. Jalitah è degli album migliori usciti in Italia dall’inizio del 2023.

Ma perché il disco è uscito solo oggi, cinque anni dopo quei concerti? “In realtà non c’è un motivo preciso. Al tempo io stavo lavorando al mio album Ira, Paolo stava lavorando al suo, Jar’a, quindi sul momento non siamo riusciti a incastrare gli impegni”, racconta Iosonouncane in collegamento su Zoom dal suo studio di Bologna. Porta cappellino verde e occhiali da vista tondi, con la barba lunga. “La prima volta che siamo riusciti a vederci, mesi dopo, abbiamo fatto una cernita dei brani e una prima scaletta del disco, ma non ci convinceva. Poi c’è stato il covid e tutto si è fermato. Il tempo che è passato, in realtà, ha giovato alla genesi di Jalitah. Ci ha fatto cambiare punto di osservazione. Così abbiamo scelto di non restituire un’immagine fedele di quei concerti, ma di prenderne il meglio, scartando diversi pezzi, per dare vita a un’opera compiuta, breve, che può stare su un solo vinile. Jalitah è una fotografia del nostro incontro fino a quel momento. Infatti non lo porteremo di nuovo in tour, anche perché adesso siamo tutti e due impegnati su altri progetti. Io, per esempio, sto facendo molte colonne sonore. Se dovessimo collaborare ancora in futuro, e probabilmente lo faremo, andremo oltre”.

Paolo Angeli, che è collegato dalla sua casa di Valencia, in Spagna, si presenta con una maglietta a righe orizzontali bianche e blu, gli occhiali da vista rossi e i capelli brizzolati. Mentre parla, sorride spesso e trasmette l’entusiasmo di un ragazzino, anche se ha alle spalle una carriera piuttosto lunga, che da anni lo porta a suonare in giro per il mondo. Angeli aggiunge un tassello al ragionamento di Incani: “Per me questo è già un disco vintage, che ci ricorda com’eravamo. Io in quel periodo non cantavo quasi mai sul palco, mentre ora lo faccio spesso, e Jacopo cantava in modo diverso rispetto a ora. È servito tanto lavoro, anche nella post-produzione insieme alla nostra fonica, Azzurra Fragale. Ma il nostro è stato un incontro speciale, ci ha portato all’abbandono dell’ego per arrivare a un processo collettivo. Io per natura sono un improvvisatore, mentre Jacopo è un arrangiatore sistematico. Quando ci siamo incrociati, questa distinzione è saltata un po’ per aria ed entrambi ne abbiamo beneficiato. Aver fatto della musica così sperimentale di fronte a mille o millecinquecento persone ogni volta è stata una sfida splendida, una cosa molto anni settanta. Del resto, come dice il jazzista Antonello Salis: ‘Più la provi, più la musica esce peggio’”.

Ma qual è stato il loro primo incontro? “Il primo concerto insieme è stato nell’estate del 2017 a un festival a Nuoro, ma ci conoscevamo dall’estate del 2013 quando io, da fan, ho invitato Paolo a suonare al Museo del minatore di Buggerru”, risponde Iosonouncane, che parla di Jalitah con entusiasmo. Si capisce che si diverte a raccontarlo e analizzarlo nei minimi dettagli. E, perlomeno in questa occasione, si dimostra lontano dal cantautore schivo che molti descrivono. “All’inizio non ho detto a Paolo che facevo il musicista. Da quel giorno però siamo rimasti in contatto. Poi suo fratello mi ha visto suonare a Sassari e gliene ha parlato. Così è stato Paolo a scrivermi e a dirmi: ‘Ti va se faccio qualcosa sul tuo prossimo disco?’. In quel periodo stavo lavorando a Die, così gli ho mandato il finale di Buio e lui mi ha rimandato una parte improvvisata di dieci minuti che aveva registrato. È stato un onore avere la possibilità di collaborare con lui, perché lo considero il migliore musicista italiano degli ultimi decenni”.

Per capire Jalitah bisogna pensare alle origini dei suoi autori, cresciuti entrambi sulle coste della Sardegna. Spiega Angeli: “Questo disco per noi ha sempre avuto un colore blu scuro, legato all’abisso, alla voglia di esplorare le profondità del mare. Io vengo da Palau, ero abituato ad avere un arcipelago davanti. Prendevo il traghetto per andare a scuola e mi trovavo di fronte sempre questo mare chiuso, che sembra un lago. Jacopo invece arriva da Buggerru, era abituato a vedere sempre il mare aperto. Abbiamo intitolato il disco Jalitah pensando proprio a quel mare. In realtà il nome ce l’ha suggerito un pescatore di Buggerru, Elia Broccia, che come tutti i sardi la chiama ‘La Gallitta’. Anche i titoli dei brani strumentali hanno a che fare con quell’immaginario. È un album molto umano, ha il fascino dell’imperfezione. Abbiamo deciso di non correggere le stecche e abbiamo cercato di fare nostra la lezione del jazz di Charles Mingus e del minimalismo di compositori statunitensi come Steve Reich o di Terry Riley e La Monte Young. Del resto il minimalismo e l’improvvisazione sono centrali anche nella tradizione del canto a tenore sardo”.

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Iosonouncane e Paolo Angeli, come detto, hanno uno stile e un approccio diverso. Per questo descrivono il tour del 2018 come un incontro emozionante, un modo per approfondire la loro amicizia, ma anche una sfida. “Quando due artisti decidono d’improvvisare su un palco, devono fare un accordo implicito con il pubblico, come a dire: qui ora ci sediamo tutti sulle spine e vediamo cosa succede. Io avevo alle spalle un’esperienza totalmente diversa. Ero fanatico dei Beatles e dei Radiohead: i miei dischi preferiti erano Sgt. Pepper’s lonely hearts club band e Kid A. Quella era musica nata nello studio di registrazione, fatta con un approccio che mi sono portato dietro per tanti anni. Per me quindi, fino al tour con Paolo, fare un bel concerto significava suonare le mie canzoni senza errori, replicando le registrazioni. Confrontarmi con il suo mondo mi ha aperto il cervello. Tante cose che sono uscite fuori in Ira, come il brano Hajar, non sarebbero state così senza il mio incontro con lui”.

Incani prosegue: “Questo disco può sembrare difficile, ma ha un’anima pop. Molte volte si pensa che la musica vera sia solo quella che riempie gli stadi e i palazzetti, mentre chi suona di fronte a venti persone è solo uno sfigato. Ma in realtà se non ci fossero quelli che fanno la ricerca il pop non esisterebbe, non avrebbe fonti a cui attingere. Tutto quello che c’è dentro Kid A dei Radiohead era già presente nella produzione della Warp negli anni novanta, così come nell’uso dei fiati di quell’album c’è sicuramente Mingus. Del resto, come cantava Dargen D’Amico, ‘l’arte è cambiare l’ordine’. Nella storia dell’uomo pochissime volte gli artisti hanno inventato ex novo. Al tempo stesso, ogni tanto vengono fuori belle canzoni tradizionali, che non hanno bisogno di riferimenti alti per emozionarti. Io sono un fanatico degli Oasis, da adolescente ho deciso di fare il musicista dopo aver ascoltato Don’t look back in anger, un pezzo che mescolava commozione e arroganza del sottoproletariato. Per cui quando Noel Gallagher scrive un pezzone che potrebbe essere uscito cinquant’anni fa mi ribalta. Il pop italiano da classifica di oggi invece lo trovo ignobile, non ci trovo niente d’interessante nemmeno dal punto di vista artigianale”.

Del resto, viene da chiedere a Incani, anche lui per un periodo era considerato un musicista pop. Il suo brano Stormi, contenuto in Die, veniva passato spesso anche dalle radio. E la cosa gli ha creato qualche disagio: “Ai concerti del tour con Paolo veniva gente che voleva solo sentire Stormi. Un giorno una ragazza è venuta nei camerini incazzata nera perché non l’avevamo suonata, dicendo: ‘Io ho pagato per quello’. Io le ho risposto che non me ne fregava niente. Un concerto non è un karaoke. Bisogna smettere di far finta che il rapporto tra chi sta sul palco e chi sta sotto sia orizzontale. So che non fare Stormi può creare dei problemi a una parte del mio pubblico, ma da spettatore non vorrei nient’altro. Io, come detto, adoro i Radiohead, ma li ho visti dal vivo nel tour di Hail to the thief e mi hanno deluso molto, perché semplicemente suonavano bene i pezzi del disco. Altri concerti, come quello di Joanna Newsom a Bologna, mi hanno cambiato, spingendomi a rimettermi in discussione. I concerti sono un’occasione preziosa per creare qualcosa di nuovo, non per rivivere quello che già conosciamo. Certo, se gli Oasis facessero una reunion dove cantano tutti i pezzi che amo sarei appagato per il resto della mia vita”, conclude ridendo.

Paolo Angeli prosegue il suo ragionamento: “A volte preferisco avere un conflitto con il pubblico che ricevere tanti complimenti, una cosa che spesso mi spinge a restare nella mia bolla, non mi fa migliorare”. “Sono d’accordo con te”, gli fa eco Incani. “Io pensavo che con Ira mi avrebbero menato tutti, perché quello non era certo un disco facile da assimilare e tanti si aspettavano che facessi un nuovo Die. Invece il tour è andato benissimo, oltre le mie aspettative, perché mi sono accorto che le persone venivano ad ascoltarmi, senza pretendere niente. Io diffido molto dell’applauso del pubblico, mi mette a disagio, è una cosa in cui in fondo non credo”. Ironia della sorte, Giugno, il brano che conclude Jalitah approdando sulla terraferma dopo tanti inabissamenti, si conclude con un lungo applauso.

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