Roma, 13 ottobre 2022. Ignazio La Russa con la senatrice Liliana Segre dopo essere stato eletto presidente del senato. (Yara Nardi, Reuters/Contrasto)

È sempre con la sua proverbiale ironia, più o meno dolce più o meno amara, che la storia ci mette lo zampino. Un’ironia amara ha voluto che toccasse a Liliana Segre, testimone vivente di Auschwitz, passare il testimone della seconda carica dello stato, quella che in caso di necessità assume le funzioni di garante della costituzione proprie del presidente della repubblica, a un signore che di primo nome fa Ignazio e di secondo Benito, che di essere definito fascista si è detto più volte onorato e di non essere antifascista si è più volte fatto vanto, che negli anni settanta a Milano era noto come “il camerata la rissa”, che il braccio destro l’ha alzato con arroganza in pubblico più di una volta. Senza il conforto di tutti i voti di Forza Italia e con il soccorso di una ventina di voti dell’opposizione, tanto per non smentire che la commedia all’italiana è sempre la commedia all’italiana, Ignazio La Russa è il nuovo presidente del senato. Si insedia con un discorso pieno di astuzie e lungo venticinque minuti, tre in più dei ventidue impiegati da Liliana Segre prima di ricevere una standing ovation molto calda dalla parte sinistra dell’emiciclo, molto tiepida dalla parte destra.

Due discorsi che sono due programmi. I commentatori liberali, gli stessi che da mesi sono impegnati in un’opera alacre di legittimazione preventiva del non ancora nato governo Meloni, si affannano a sommarli come fossero un solo, il programma della riunificazione e della pacificazione nazionale. Ma si sbagliano: l’una, Segre, e l’altro, La Russa, ciascuno a suo modo ed entrambi pur ligi al galateo che vuole le istituzioni al di sopra delle parti, tracciano di nuovo la linea del conflitto fra due modi di intendere la repubblica, la costituzione, la comunità nazionale.

Da quell’ironia della storia che la mette nel posto giusto al momento sbagliato Segre non si fa imbrigliare. La esplicita, nominando la “circostanza casuale” della coincidenza fra la sua funzione temporanea (e la nascita di una maggioranza a guida postfascista, anche se questo invece resta implicito) e il centenario della marcia su Roma. Prende dalla sua biografia personale il ricordo delle leggi razziste e della deportazione, che suona evidentemente come un severo memento politico al nuovo parlamento.

Poi snocciola una a una le condizioni di una unità repubblicana fondata su “un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti”, e sono tutte condizioni che alla destra vincente fanno venire l’allergia: l’ancoraggio alla costituzione, “testamento di centomila caduti nella lotta per la libertà” che non inizia nel 1943 ma con l’omicidio di Matteotti; la necessità di attuarla, soprattutto nel principio di uguaglianza, invece di farsi prendere dal prurito di modificarla; la celebrazione convinta e non rituale delle ricorrenze “scolpite nel grande libro della storia patria”, il 25 aprile che la destra non ha mai voluto onorare, il 1 maggio, il 2 giugno.

L’ultima freccia è contro il linguaggio dell’odio e della discriminazione, e anche questa, per quanto abbia una destinazione trasversale, colpisce di più nel campo in cui le diversità si chiamano devianze. Morale: in democrazia le urne sono sovrane e il loro responso va accettato, ma la democrazia costituzionale italiana ha una genealogia e un tracciato precisi che vanno rispettati e rinnovati. Segre ha l’autorità e si prende la libertà di dirlo senza troppi complimenti e senza peli sulla lingua.

Il presidente del senato ancora in pectore le ha portato in omaggio dei fiori bianchi, ma la ascolta con disappunto evidente. E mente sapendo di mentire quando, una volta investito della carica, premette che “non c’è una parola di Segre che non abbia meritato il mio plauso”, comprese quelle sul calendario civile delle ricorrenze condivise. Per i postfascisti è l’ora della ricerca della legittimazione, ideologica prima che politica. La Russa è scaltro, sa come si fa: ora che hanno vinto, possono professare unità per ribadire e finalmente imporre la loro versione della storia patria.

Dunque il neopresidente premette il dovuto rispetto per le istituzioni e per la terzietà del ruolo che lo attende, ma rivendica tutto intero il suo percorso militante di parte. Sostituisce ai centomila morti della resistenza i caduti “in divisa” nelle missioni italiane cosiddette di pace. Omaggia Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Della costituzione dice che invece va riformata, promettendo l’ennesima bicamerale o l’impossibile assemblea costituente che il centrodestra vagheggia da trent’anni.

Poi arriva l’affondo sugli anni settanta, perché la lingua batte dove il dente duole e fra i postfascisti è quello il dente che duole: “I momenti duri, durissimi, della contestazione, della violenza, della resistenza al terrorismo”. Mica quelli delle stragi di destra e di stato, no: quelli “dei tanti ragazzi, di ogni colore politico, che hanno perso la vita solo perché credevano in degli ideali”. Sergio Ramelli, “ma anche” Fausto e Iaio. Neri o rossi per lui pari sono e per ora basta ottenere questo, la parificazione degli opposti estremismi sotto la voce “violenza”. È quello che Giorgia Meloni chiama “il riscatto dei fratelli caduti” e tenuti ai margini della storia nazionale da quella discriminante antifascista che oggi la destra vincente può considerare finalmente abbattuta.

E che del resto vacilla non oggi. Maldestramente e del tutto arbitrariamente La Russa cita Sandro Pertini per glorificare la propria capacità di lottare, in gioventù, dalla parte perdente della storia, “senza paura ma anche senza speranza”. Più appropriata, astuta e ahinoi inattaccabile la citazione finale che riserva al discorso di insediamento alla presidenza della camera di Luciano Violante. “Non ho bisogno di ripetere per intero le sue parole, ma solo la parte che spero sia più condivisibile da tutti”, quella in cui Violante perorava il comune riconoscimento di tutte le parti politiche, sia pure con le loro distinzioni e contrapposizioni, “in un sistema comunemente condiviso”. Correva l’anno di grazia 1996. Nella parte che La Russa evita astutamente di citare, Violante parificava i combattenti della resistenza ai ragazzi di Salò. Due anni prima Berlusconi aveva sdoganato i postfascisti accogliendoli nel Polo delle libertà, e il partito erede del Pci pensò bene di non essere da meno.

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