Il Mi Ami è da sempre lo specchio della musica alternativa, più o meno indipendente, in Italia. Il festival si svolge dal 2005 al circolo Magnolia di Milano, zona idroscalo: all’inizio era un evento poco conosciuto, poi dagli anni dieci, con la rinascita del cantautorato italiano, è salito di livello, prima che l’esplosione di nomi come Calcutta, Cosmo e Thegiornalisti (la direzione artistica di Carlo Pastore è sempre stata brava a scommettere sulle novità) lo portasse nella dimensione di oggi.

Si può dire che sia cambiato insieme al contorno: all’epoca in cui le canzoni in italiano erano impopolari, era underground, corsaro; ora che dominano le classifiche, è cresciuto, in cartellone ha artisti tutt’altro che emergenti e accoglie migliaia di spettatori. Ma senza perdere la sua natura artigianale e rappresentativa: è organizzato dalla rivista online di musica Rockit e dall’agenzia Better Days, indipendenti entrambe. Ma nonostante un bel lavoro con gli sponsor ancora non compete con le altre grandi rassegne che a volte parlano anche a livello internazionale, come per esempio il Club to Club.

La forza del Mi Ami – confermata dall’edizione di quest’anno che si è tenuta dal 26 al 28 maggio – è in due aspetti: in un cartellone ricco e serrato come nessun altro nel nostro paese, e nell’atmosfera. All’interno degli spazi dell’idroscalo, fatti di prati e collinette, abbastanza pratici se si esclude la serata di sabato in cui il tutto esaurito ha reso un po’ difficile la vivibilità, si rimbalza per sei palchi dal pomeriggio a notte. Almeno due hanno in scena sempre musicisti di alto livello, che spaziano dal passato al presente e al futuro della nostra musica, con concerti da un’ora circa l’uno. Non c’è un genere di riferimento, non più perlomeno, ma un’attitudine comune per un modo d’intendere “laterale” (oggi, probabilmente, essere alternativi significa questo) e la voglia di sentirsi in contatto con il presente e le radici da cui tutto ciò è partito.

Per esempio ci sono stati, tra gli altri, un gruppo rock come i Verdena, cantautori come Levante e Vasco Brondi, la drill di Rondodasosa e il rap più vecchia scuola della Lovegang126, l’elettronica di Cosmo e il pop di Coma_Cose, Fulminacci e Dargen D’Amico. Non tutto è sembrato all’altezza (il set dei Verdena è stato penalizzato dall’impianto e da una generica “lentezza” insolita per il gruppo, per esempio), ma è qui che entra in gioco il contesto. Si dice che sia il festival degli “appassionati di musica”: non degli esperti, degli intenditori, ma di chi alla musica stessa conferisce comunque un ruolo centrale nella propria vita, in una fascia d’età che va dai venti ai quarant’anni.

Il risultato è che sembra di stare in una bolla, in un’isola felice; un weekend lì vale come un’esperienza a sé, al di là dei live stessi. Gli artisti lo sanno, tant’è che molti partecipano volentieri nonostante l’allestimento sia più spartano (specie dal punto di vista dei visual) di quello che di solito li accompagna in tour. E la foto finale è, dicevamo, una foto di gruppo: alla festa, riuscita anche stavolta, contribuiscono gli spettatori come gli artisti.

Operazione nostalgia

Il discorso che si porta dietro quest’edizione, però, è un altro e più ampio. La pandemia ha esaurito la spinta di quel pop cresciuto al Mi Ami e sbocciato dal 2016, aprendo una crisi istituzionale nella successione evidente anche dal cartellone del 2023. C’è una nuova generazione passata soprattutto per Sanremo – da Tananai a Blanco, da Madame a Lazza – che al contrario della precedente non è venuta fuori puntando sui live, ma sullo streaming e sulla viralità in rete.

È una scena, se di scena si può parlare, che ha poco da spartire con la prospettiva alternativa, urgente e per certi versi anche amatoriale, scalcinata, di chi c’era prima. E il Mi Ami non l’ha intercettata, perché non ha voluto e perché, semplicemente, a causa dello stop della pandemia non ha fatto in tempo. La sua ascesa è stata rapida, ha fagocitato il resto del mercato, e quando si è presentata la prima occasione per invitarla, cioè lo scorso anno, era già troppo tardi per gli standard indipendenti dell’evento. Il baricentro è tornato altrove, il pop nato dalla musica alternativa era stato superato e ora mantiene pochi nomi davvero sulla cresta dell’onda. Che c’erano (Fulminacci e Coma_Cose su tutti, ma anche il pop-punk da generazione zeta di Naska), ma non hanno ridotto la sensazione di assistere a un momento di transizione, alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra, segnata da non si sa ancora bene cosa.

Specie tra gli artisti di punta – ed è simbolico – ce n’erano alcuni che sembra che il meglio, anche fisiologicamente, l’abbiano già dato (Levante e in parte i Verdena stessi), o che sul palco hanno sfiorato l’operazione nostalgia. È il caso di Vasco Brondi, che ha portato dal vivo il suo album di debutto a nome Le luci della centrale elettrica, Canzoni da spiaggia deturpata (2008), in un live memorabile e molto partecipato che dimostra quanto un certo tipo di pubblico sia ancora legato al cantautorato che ha dato origine a tutto il discorso che abbiamo fatto finora, oltre alle spessore dal vivo di una generazione comunque formatasi sui palchi.

O è il caso della più trascurabile L’officina della camomilla (per i dieci anni dell’album Se non ti piace fa lo stesso), di Dente che il sabato ha suonato una selezione di classici che sono la storia del indie-pop italiano, o dei Baustelle che a sorpresa si sono esibiti con Tommaso Paradiso, mettendo le lancette indietro con le rispettive La guerra è finita e Completamente. A parte la drill di Rondodasosa, che forse a causa della pioggia non è stato indimenticabile, e la Lovegang126, la moda non passa più su questo palco, non ha più la stessa attitudine. Lo stesso rap, che a detta di gran parte della critica ora che è diventato “il nuovo pop”, soffre un po’ la sindrome del copia-incolla, viaggia su binari paralleli al Mi Ami.

Ciò non significa, ovviamente, che sia un festival passatista, né che la musica alternativa sia ferma o lontana da qui. Una pausa c’è stata, è vero, ma di novità se ne sono viste comunque, a testimonianza di come ci si continui a muovere tra un forte ritorno dell’underground e tanti giovani che rifiutano di adeguarsi all’estetica di oggi, fanno di testa propria e propongono progetti radicali e fuori dal tempo, con il gusto per la stranezza e l’originalità.

Tra quelli visti all’idroscalo: il pop senza regole dei collettivi Bunker44 e Thru Collected, che non sembrano appartenere al classico racconto che si fa dei giovanissimi di oggi, isolati in sé stessi e online; l’hyper-pop artigianale di Arssalendo e l’hip hop da case popolari di Ele A, tra i talenti più luminosi comparsi nel 2023; e poi il cantautorato già maturo e sensibile di Emma Nolde e il post-punk dei Materazi Future Club, i cui testi sono estratti dalle telecronache di calcio e che sono la prova di cosa significhi, adesso, essere una band cult. Però, appunto, sono tutti nomi piccoli e brillanti, ma appena emergenti, e quindi confinati su palchi e orari minori. Qualcuno anche acerbo, ovviamente.

Nei posti di comando il ricambio generazionale non c’è stato, e la nostalgia – peraltro giustificata, o comunque alimentata dal senso di vuoto stesso che ci fa tornare indietro con la testa – ha la meglio. L’unica eccezione è il live di Cosmo, che domenica ha chiuso il festival e che è un concerto diverso dai soliti, in cui il corpo gioca un ruolo preponderante e le canzoni si susseguono dentro un unico flusso di musica elettronica, partorito da un artista che al quarto disco da solista non sembra sazio, ma ispirato. E non è per forza uno che segue le mode, lui, anzi, ma riesce comunque a far ballare tantissime persone diverse. Vederlo così, alla fine, mentre tiene incollati migliaia di spettatori a un qualcosa a metà tra un live e un rave, sa di augurio per il futuro di tutti. Perché al Mi Ami la festa procede sempre bene ed è garantita, anche se un’era è finita. Ma per un ritorno della musica alternativa, che poi andrà di moda o meno, c’è da aspettare ancora un po’. ◆

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