Un cartello in via Beniamino Franklin, nel rione Testaccio a Roma, pubblicizza una mostra per il centenario della nascita del quartiere. In questa parte del rione, la più silenziosa, le case affacciano sul fiume. Il perimetro degli edifici ne segue la curva e s’interrompe ogni tanto per svelare spazi verdi e luminosi cortili. Una traversa più in là compare all’improvviso il volto di Lando Fiorini, cantante popolare romano, dipinto su una parete alta quattro piani e senza finestre. Tra le canzoni per cui è ricordato c’è Forza Roma, forza lupi, un inno dei tifosi romanisti.

Il murale, dipinto da Lucamaleonte, è stato commissionato dalla Fondazione Roma Cares della squadra di calcio AS Roma, che ne ha realizzati diversi nei lotti di case dell’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica (Ater) della regione Lazio. Al Tiburtino III c’è il volto di Anna Magnani, al Tufello c’è Gigi Proietti, a Garbatella è apparso il faccione del marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi. I soggetti finanziati dalla AS Roma rappresentano, neanche a dirlo, una certa idea di romanità. Sono gli ultimi arrivati tra centinaia di murales realizzati in città in quartieri che erano o sono ancora popolari. Nei lotti Ater di Tor Marancia c’è perfino un museo condominiale di street art.

La street art nasce come evoluzione del writing, la pratica di taggare ogni superficie possibile con la propria firma. Dalle tag, che si diffusero a New York alla fine degli anni sessanta, nacquero i graffiti, accusati di creare degrado e accomunati a fenomeni di criminalità. Con le loro scritte sui muri i giovani delle periferie volevano affermare la propria identità e reclamare il diritto allo spazio urbano da cui erano esclusi. A differenza del writing la street art, che in origine era proibita, è fatta di immagini: l’intenzione è artistica, quindi può essere autorizzata. E in effetti lo è sempre più spesso perché, addirittura, aiuterebbe a promuovere “il decoro nelle periferie della città”, come ha detto l’assessore alle politiche abitative della regione Lazio all’inaugurazione del murale nella centralissima Garbatella, dove le case finite sul mercato con i piani di dismissioni dell’Ater valgono moltissimo.

Ai lati del volto di Fiorini l’intonaco è eroso dal tempo e da lavori parziali. Al centro della parete c’è un rilievo decorativo, la targa dell’Istituto case popolari. Testaccio, il primo quartiere operaio di Roma, fu pianificato alla fine dell’ottocento per alloggiare i lavoratori del mattatoio e delle fabbriche del vicino quartiere Ostiense, oggi anche questo pieno di murales. Il comune comprò i terreni ma la costruzione di Testaccio, affidata a imprese private, andò avanti a rilento perché tirare su le case per il ceto operaio non era redditizio. L’elezione a sindaco di Ernesto Nathan nel 1907 sbloccò la situazione. Fu introdotta una tassa sulle aree fabbricabili e il comune concesse mutui all’Istituto case popolari per incrementare i programmi di edilizia pubblica.

L’architetto Giulio Magni progettò gli edifici di una decina di lotti con una “buona e sana logica costruttiva”: una casa è una casa e non vuole sembrare altro, sembrano dire le facciate nella loro elegante semplicità. L’omogenea stesura dell’intonaco, secondo l’architetto, conferiva decoro e gusto alle case dei lavoratori.

Magni non avrebbe approvato un’opera di street art sul suo edificio: criticava gli interventi compositivi che non contribuiscono in nulla alla funzionalità delle soluzioni architettoniche. Qualche anno dopo, sull’altra sponda del fiume, cominciò il “risanamento” del centro storico voluto da Mussolini. Si demolirono le case, si allontanarono gli abitanti, si fece il vuoto.

“Ma quando si dice risanare non si intende che si deve risanare questo o quell’ettaro di terreno, ma che si devono risanare le condizioni di vita, di lavoro e di abitazione di chi in quell’ettaro abita, che si deve ridimensionare il rapporto tra quegli abitanti e la città cui appartengono”, scriveva negli anni sessanta l’urbanista Italo Insolera. Avvenne il contrario: i poveri, i disoccupati e gli immigrati furono trasferiti nelle periferie.

Creatività in periferia

Oggi non si parla più di risanamento, ma di rigenerazione delle città. Le periferie, aree urbane economicamente più fragili e con più alti tassi di disagio sociale, devono essere “riqualificate”. E la street art, capace di riscattare identità locali stigmatizzate, sarebbe uno degli strumenti per farlo. Il problema è che il termine street art significa tutto e niente. E, a ben guardare, anche la “rigenerazione urbana” può essere interpretata con esiti diametralmente opposti. Un conto è intervenire sulle cause socioeconomiche e sulle disuguaglianze che rendono alcuni quartieri più vivibili e altri meno; un altro è dipingere muri. La questione delle periferie riguarda, in verità, la crisi della città pubblica.

Nel 2017, sentiti dalla commissione parlamentare d’inchiesta “sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie”, alcuni rappresentanti istituzionali di Bari hanno denunciato un “problema d’identità” delle periferie, legato alle origini dei quartieri popolari, alla mancanza di fondi e alla carenza di spazi di socialità. “Bisogna puntare anche sulla creatività”, ha detto alla commissione Anna Maria Curcuruto, l’assessora alla pianificazione territoriale-urbanistica e politiche abitative della regione Puglia. Nel 2020 la regione ha approvato una legge per promuovere la street art e ha stanziato 3,6 milioni di euro per iniziative culturali. A ottobre dell’anno scorso a Bari è nato un quartiere museo di street art: dieci artisti hanno dipinto altrettante pareti di edifici popolari nella parte vecchia del quartiere San Paolo. L’iniziativa è stata promossa dall’associazione Mecenate 90, curata da Gianluca Marziani e Stefano Antonelli di 999Contemporary – la stessa che ha realizzato il museo condominiale di Tor Marancia – e finanziata dalla regione Puglia.

“È un primo passo, c’è molto lavoro da fare”, ha detto Nicola Schingaro, il presidente del municipio che ospita il quartiere museo, all’inaugurazione. “Molta gente è ancora scettica. Chiede: con tutti i problemi che abbiamo, cosa ne dobbiamo fare dei murales?”.

In Italia non ci sono politiche strutturali per le periferie, ma interventi episodici

I problemi a San Paolo sono cominciati molti anni fa. Il quartiere è stato costruito a sette chilometri dal centro di Bari alla fine degli anni cinquanta con il piano nazionale di edilizia residenziale pubblica Ina-Casa che realizzò le case fuori dalle città, in aree comprate al prezzo dei terreni agricoli, per eludere la speculazione fondiaria che rischiava di far aumentare il costo degli alloggi. L’idea era costruire quartieri autosufficienti, con servizi, occasioni di lavoro e di socialità per i ceti popolari. Si pensava che gli abitanti di San Paolo avrebbero lavorato nella vicina area industriale.

Ma troppe cose non hanno funzionato. Molti servizi non sono arrivati, i costruttori privati non hanno versato i contributi, mancano giardini, piazze, negozi, spazi attrezzati. Manca il lavoro. La rendita, il valore dei suoli e delle case, è aumentata con l’urbanizzazione del territorio, con la costruzione di strade, fogne, e poi di scuole, ospedali, poste, insomma con l’arrivo della città pubblica.

Il valore di un bene, di una casa, deriva soprattutto dal contesto. Ma in Italia di questo valore, generato dalla collettività, si sono appropriati i privati. Ancora oggi la quota dei contributi privati per i programmi di trasformazione urbanistica è molto più bassa di quella applicata in altri paesi europei. “Non c’è da stupirsi se le città italiane hanno visto l’incremento di fenomeni di degrado e di abbandono”, si legge nella relazione finale della commissione periferie.

Nel 1998 il fondo statale per la gestione dell’edilizia residenziale pubblica – che spendeva in media un miliardo di euro all’anno, 33 miliardi di euro in vent’anni – è stato soppresso. Nelle case di San Paolo le infiltrazioni e l’umidità attaccano pareti e soffitti, i balconi si sbriciolano, le cantine sono inagibili. Il comune e la regione fanno il possibile con quello che c’è.

In Italia non ci sono infatti politiche strutturali per le periferie ma interventi episodici, come il bando per le periferie del 2016, che finanzia interventi per il decoro e la sicurezza urbana. Il fatto che il bando sia del ministero dell’interno e non del ministero delle infrastrutture, a cui competono le politiche abitative, la dice lunga su quanto la rigenerazione urbana sia concepita come un problema di ordine pubblico e di decoro, non di inclusione sociale. Il bando non prevede fondi per ristrutturare le case e migliorare le condizione di chi le abita; finanzia piste ciclabili, orti urbani e opere di street art.

In 18 comuni dell’area interna delle Madonie, nel territorio della città metropolitana di Palermo, ha finanziato “un mosaico di colori vivaci e illustrazioni” che “richiama un’iconografia fortemente identitaria e partecipa a un processo di rigenerazione urbana in cui la comunità è protagonista del proprio rinnovamento”, si legge sul sito di I Art Madonie. Il rinnovamento è affidato alla raffigurazione di tradizioni, mestieri e storie locali, insomma a un’idea d’identità legata al passato, forse più attraente per i turisti che per i nuovi abitanti. Intanto il ministero della salute chiudeva i piccoli ospedali. I comuni delle Madonie sono rimasti senza punti nascita, i sindaci hanno protestato: l’ospedale più vicino dista un’ora e mezza in automobile.

Rigenerazione di facciata

Il patrimonio immateriale, culturale e identitario, è importante quanto quello materiale. Ma per quale fine venga valorizzato, in alcuni casi, non è chiaro. Così il risultato sfugge di mano. Al Trullo, quartiere nella periferia sudoccidentale di Roma, la street art è arrivata per iniziativa di alcuni abitanti. Due anni dopo è arrivato il primo murale nei lotti di case popolari. “Poi i Pittori anonimi del Trullo, ex imbianchini e muratori, hanno cominciato a colorare interi muri del quartiere. Sembrava di stare a Cuba, era carino”, racconta una residente. Poi c’è stata l’idea di un festival di street art: “Alcuni disegni sarebbero stati fatti tanto per farli, nei posti sbagliati, senza legame con il contesto”. continua la donna. “Finito il festival, il quartiere era pieno di murales e altri continuavano ad apparire, senza permessi o accordi con i residenti, finché l’Ater ha detto basta: ci vogliono progetti condivisi”. Con la street art sono cominciate le visite guidate a pagamento. “Sono venute persone a descrivere i disegni senza saperne nulla, senza conoscerne la storia e il processo creativo. I disegni sono stati autofinanziati, ma le visite sono a pagamento, e siccome spesso si svolgono di domenica, quando anche i bar sono chiusi, al territorio non torna niente”, lamenta la donna.

Sempre più spesso la street art sembra promuovere non l’arte per l’arte, ma l’arte per il turismo. Nel 2016 il museo condominiale di Tor Marancia è stato incluso tra i migliori progetti nazionali di “rigenerazione urbana partecipata” alla Biennale di Venezia. Ma a dicembre del 2020 alle finestre delle case sono comparsi degli striscioni con le scritte “Non ci servono curatori”, “Non siamo il tuo business”, “Giù le mani dal nostro museo” e “Ora tocca a noi”. Gli abitanti vogliono gestire il museo. “Siamo vittime di continui sopralluoghi per organizzare attività di natura commerciale fatte da associazioni, società e singole persone che progettano eventi senza coinvolgerci”, si legge nel loro comunicato.

L’identità territoriale è alla base delle strategie del marketing delle città, vendute come location e destinazioni turistiche. Le città non sono più in espansione, l’imperativo non è costruire ma rigenerare. Cambiano le strategie di estrazione di rendita, diventano immateriali, sfruttano gli stessi linguaggi e codici estetici che denunciano l’esclusione. Si appropriano dell’unicità delle culture locali, anche di quelle antagoniste. La rigenerazione urbana si riduce a intervento di abbellimento edilizio e l’arte a strumento del mercato.

“Oggi lo spazio pubblico è destinato sempre più solo al consumo e al turismo. È il mercato che decide cosa è arte, cosa è legale, cosa va cancellato e cosa conservato: il confine sta nel pagamento di un biglietto”, afferma l’artista reggiano Simone Ferrarini.

Consapevolezza

Quartieri popolari diventano brand, arrivano i turisti, le case finiscono su Airbnb, i prezzi aumentano, gli affitti salgono, i valori immobiliari si gonfiano, i poveri se ne vanno, i proprietari ci guadagnano. E il valore collettivo finisce ancora una volta ai privati. Non basta qualche murale a innescare questo processo, ma per evitare di assecondarlo ci vuole più consapevolezza di quello che si vuole fare, e del perché, sostiene Ferrarini. “È il processo dietro l’opera che produce la consapevolezza, la partecipazione e il senso di appartenenza degli abitanti. Ed è quello che spesso si è perso”.

Nel 2016 Ferrarini ha disegnato un bambino in un carrello della spesa capovolto, come una gabbia, sul muro di un casolare contadino abbandonato vicino a Reggio Emilia. “Era una critica all’apertura dell’ennesimo supermercato Conad nella zona”. La Conad ha costruito il supermercato e il murale è stato cancellato. L’opera, però, ha contribuito a generare un dibattito sui danni della cementificazione. “È questo che sopravvive alla cancellazione”, sostiene Ferrarini. I residenti di Tor Marancia lo hanno contattato per coinvolgerlo nel loro museo. Bisogna ripartire dal processo che sta dietro le opere, dice lui. “La street art è uno strumento. Il problema è chi lo usa e perché. L’arte serve a promuovere conoscenza, cultura, diritti, non solo ad abbellire muri”. Che di essere abbelliti, se curati, non avrebbero neanche bisogno.

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