Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 8 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

Dalla torre del Cerrano le piattaforme si vedono a occhio nudo. Costruita nel sedicesimo secolo dagli angioini che regnavano su Napoli per scongiurare possibili incursioni saracene, questa fortezza costiera è oggi un affaccio sugli impianti che estraggono gas al largo delle coste adriatiche.

“Sono una presenza decisamente ingombrante”, sbotta guardandole in lontananza Robert Verrocchio, il sindaco del paese di Pineto nel cui territorio sorge la torre. Siamo in Abruzzo, in provincia di Teramo, in una delle zone tradizionalmente interessate dalla produzione di metano. Una produzione che è molto calata negli ultimi anni, ma che oggi l’invasione russa in Ucraina e la crisi energetica hanno fatto tornare in primo piano.

“Io capisco le problematiche geopolitiche”, dice il sindaco, eletto nel 2019 per un secondo mandato nelle liste del Partito democratico. “Ma questo territorio ha scelto un’altra strada, quella del turismo sostenibile, dell’agricoltura di qualità, della tutela dell’ambiente”.

Intorno alla torre del Cerrano si sviluppa un’area marina protetta, che copre sette chilometri di spiaggia e 37 chilometri quadrati di mare. Al di là delle boe che segnano la fine dell’area di tutela, ci sono le piattaforme. Dall’alto della torre si possono vedere plasticamente vicini due modelli di gestione del territorio opposti e difficilmente conciliabili. “Io mi sono ormai abituato, le vedo da quando ero piccolo”, dice Fabiano Aretusi, presidente dell’area marina. “Ma ne farei volentieri a meno”.

Camilla e le altre

Tutte controllate da Eni e collegate all’impianto di trattamento nell’area industriale di Pineto, le piattaforme hanno nomi che vogliono trasmettere empatia: Camilla, Eleonora, Emilio, Emma ovest, Fratello cluster, Fratello nord, Fratello est, Giovanna, Simonetta, Squalo e Viviana.

La maggior parte è stata costruita negli anni ottanta, molto vicino alla costa: basti pensare che sette su undici sono all’interno dell’area delle 12 miglia oggi vietata per legge. Il loro rapporto con Pineto è sempre stato conflittuale. Già nel 1999, l’amministrazione aveva chiesto all’Eni di pagare l’imposta sugli immobili, sostenendo che le costruzioni ricadessero nel mare territoriale di pertinenza del comune. La compagnia petrolifera aveva nicchiato e la questione era finita in tribunale. Dopo un contenzioso ventennale, l’Eni alla fine ha accettato di versare a Pineto otto milioni di euro.

Oggi Verrocchio è preoccupato da un’espansione delle perforazioni, non solo nel suo territorio, ma in tutto il tratto di mare della costa abruzzese, marchigiana e romagnola. Sono le aree dove tradizionalmente si estrae e quelle in prima linea per una ripresa delle trivellazioni. Il ministero della transizione ecologica censisce oggi in Adriatico 115 piattaforme di estrazione, la maggioranza delle quali all’interno dell’area delle 12 miglia. A queste si aggiungono alcuni siti nello Ionio, a largo di Crotone, e nel canale di Sicilia, in corrispondenza di Gela.

Poco più della metà del gas italiano proviene da questi giacimenti off-shore. Il resto è estratto da impianti di terra, soprattutto in Basilicata. Molti di questi pozzi sono stati costruiti tra gli anni settanta e novanta. Nel 2000 l’Italia estraeva 16,8 miliardi di metri cubi di gas. Poi è cominciata una parabola discendente: molti giacimenti sono entrati in sofferenza, i costi di estrazione sono aumentati e sono intervenute considerazioni di carattere ambientale e di salvaguardia del territorio.

In quegli anni, le basse quotazioni del gas sui mercati internazionali hanno fatto propendere per l’importazione. Così oggi siamo ai minimi storici: nel 2021 in Italia sono stati estratti 3,34 miliardi di metri cubi di gas. Una quantità irrisoria, soprattutto se la si paragona al consumo, che l’anno scorso si è attestato su 76,11 miliardi di metri cubi.

Un nuovo paradigma

Con gli alti costi della materia prima e la guerra in Ucraina, oggi il dibattito sul gas nazionale si è riacceso. Nell’informativa alla camera il 23 febbraio scorso, il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ha parlato di “un nuovo paradigma nello sviluppo delle risorse di gas nazionali, che punta a incrementare la produzione nazionale sui giacimenti esistenti così da ridurre la dipendenza dall’estero”.

Il 25 febbraio, all’indomani dell’attacco russo in Ucraina, il presidente del consiglio Mario Draghi ha affermato, sempre in parlamento, che “il gas prodotto nel proprio paese è più gestibile e può essere meno caro”. Il decreto energia, pubblicato in gazzetta ufficiale il primo marzo, si muove in questo senso e invita i titolari di concessioni “a fornire un elenco di possibili sviluppi, incrementi o ripristini delle produzioni di gas naturale per lo stesso periodo nelle concessioni di cui sono titolari, delle tempistiche massime di entrata in erogazione, del profilo atteso di produzione e dei relativi investimenti necessari”. In altre parole, esorta gli operatori a considerare l’ampliamento della produzione nelle concessioni che hanno, promettendo iter autorizzativi velocizzati.

Da una parte inviamo armi agli ucraini, dall’altra diamo soldi ai russi per il gas

Al ministero giacciono decine di richieste, che probabilmente avranno un via libera. Una di queste è poco più a nord di Pineto. Al largo della foce del Tronto, proprio al confine tra Abruzzo e Marche, l’Eni prevede da tempo di scavare in cerca di gas oltre i mille metri di profondità, nel pozzo Donata 4 dir, poco fuori le 12 miglia marine. Il nuovo impianto sarebbe collegato a una piattaforma già attiva, la Eleonora, e alla centrale di Pineto.

La valutazione di impatto ambientale ha avuto esito positivo da parte del ministero. E il comune di Martinsicuro, nel cui territorio ricade l’impianto, è salito sulle barricate.

“Abbiamo presentato un ricorso speciale al presidente della repubblica perché nell’iter autorizzativo si è sentito il parere della regione Marche, ma non dell’Abruzzo”, spiega l’assessore all’ambiente Marco Cappellacci. Che aggiunge: “Combatteremo con tutti i mezzi contro questo scempio, perché le trivelle sono incompatibili con lo sviluppo turistico e la tutela del territorio”.

Al di là delle intenzioni battagliere del comune abruzzese, il Donata 4 dir sembra il progetto in pole position per quella che potrebbe essere una nuova corsa al gas e una ripresa delle attività interrotte da tempo. Negli ultimi anni nessun pozzo è stato scavato.

La legge 12 del febbraio 2019 aveva decretato una sospensione dei permessi di esplorazione ed estrazione in tutta Italia, in attesa della pubblicazione di un cosiddetto Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, meglio noto con il suo acronimo Pitesai. Rimandato a più riprese, il piano è stato infine approvato l’11 febbraio scorso. Ed è riuscito nella non facile impresa di scontentare tutti: coloro i quali sono contrari alla ripresa delle attività estrattive lo considerano eccessivamente permissivo, i fautori dello sfruttamento a tutto campo lo reputano troppo restrittivo.

“Il Pitesai non è un atto di pianificazione. Stabilisce alcuni criteri non rigidi, di fatto autorizzando nuove concessioni oltre le 12 miglia e consentendo l’ampliamento delle esistenti”, sostiene Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale all’università di Teramo e cofondatore del coordinamento nazionale No Triv. Il giurista teme un rilancio in grande stile delle perforazioni, anche in deroga alle disposizioni attualmente vigenti.

Tra i promotori del referendum del 2016 contro le trivelle, fallito all’epoca per il mancato raggiungimento del quorum, Di Salvatore mette in evidenza quella che gli sembra un’enorme contraddizione: “Prima inseriamo la tutela dell’ambiente nella Costituzione, poi applichiamo criteri puramente economici per giustificare la ripresa dell’estrazione di un combustibile fossile”.

Il giurista sta preparando, insieme a diversi comuni dei territori delle cosiddette aree idonee, un ricorso al Tar da depositare nel termine dei sessanta giorni previsti dalla legge. “Con questo atto, gli enti locali vogliono affermare una visione politica altra rispetto a quella estrattivista portata avanti dal Pitesai” aggiunge, facendo notare come una ripresa delle attività non possa in alcun modo essere considerata una misura transitoria.

“Il governo ci sta dicendo che vuole continuare sulla strada dei combustibili fossili, perché ogni nuova concessione avrà un orizzonte temporale di almeno 20-30 anni. Si tratta di un passo indietro rispetto agli obiettivi europei di decarbonizzazione, che prevedono la neutralità climatica al 2050 e un taglio delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030”.

Piano schizofrenico

Ma non tutti pensano che il piano sia così permissivo. “Il Pitesai è schizofrenico”, analizza Massimo Nicolazzi, manager con una vasta esperienza nel settore idrocarburi, oggi professore di economia e management all’università di Torino. “Se da una parte dice di voler aumentare la produzione di gas, dall’altra pone una serie di paletti che in pratica tagliano le gambe a questo progetto”.

Il piano definisce 48 vincoli di esclusione, che impediscono lo sfruttamento in diverse zone del paese, come le aree di pregio agricolo e tutto il golfo di Venezia, tra il delta del Po e il Tagliamento, dove si teme che l’estrazione possa incrementare i fenomeni di subsidenza, ossia l’abbassamento del suolo.

“Con i vincoli del Pitesai potremmo ottenere 1,5 miliardi di metri cubi in più da concessioni esistenti, più forse altri due miliardi di metri cubi da nuove concessioni”, dice Nicolazzi. Lo stesso ministro Cingolani parla al massimo di un raddoppio della produzione nazionale. Sono cifre trascurabili a fronte dei consumi reali. Viene da chiedersi: è proprio così necessario riprendere le attività estrattive con questo potenziale così risicato?

“La retorica del gas autarchico fa ridere perché è anacronistica, in termini di riserve accertate e di tecnologie necessarie per estrarle”, sottolinea Michele Governatori, responsabile energia del think tank Ecco, specializzato in politiche climatiche. Secondo l’esperto, più che sull’aumento della produzione è necessario puntare sulla riduzione dei consumi attraverso l’efficientamento energetico e sull’incremento delle fonti di energia rinnovabile in linea con i target europei di decarbonizzazione. “Una ripresa della produzione di gas nazionale è in contraddizione con le posizioni assunte dal nostro paese alla Cop26 di Glasgow e mina la credibilità internazionale dell’Italia, paese G7, e la sua diplomazia climatica”.

Nicolazzi è in parte d’accordo ma pone un’altra questione, che non può essere elusa. “Se avessero chiesto la mia opinione sul gas nazionale prima del 24 febbraio avrei detto che non valeva la pena estrarlo. Ma l’invasione dell’Ucraina cambia i termini del ragionamento: in questo momento l’esigenza prioritaria è distaccarci dal gas russo”.

A oggi Mosca rimane il nostro principale fornitore. Secondo i dati del ministero della transizione ecologica, nel 2020 ce ne ha venduti più di 28,7 miliardi di metri cubi, il 43,3 per cento dei quasi 66,4 miliardi di metri cubi di gas importato. Il governo mira a diversificare maggiormente i rifornimenti. Il 28 febbraio il ministro degli esteri Luigi Di Maio è volato ad Algeri per “rafforzare il partenariato nel settore degli approvvigionamenti energetici”.

Parallelamente, l’esecutivo lavora a un raddoppio di capacità del gasdotto trans-adriatico o Tap, che fa affluire a Melendugno, in Salento, il gas estratto in Azerbaigian. Ma si tratta di strategie di medio periodo. Nell’immediato siamo legati a doppio filo al gas di Mosca. “Io monitoro costantemente i flussi in entrata. Dal 24 febbraio, le quantità arrivate a Tarvisio dalla Russia continuano ad aumentare. Questo vuol dire una sola cosa: che stiamo finanziando la guerra di Putin”, continua Nicolazzi.

Puntare sull’energia pulita

Il problema è a monte e riguarda l’eccessiva dipendenza dal gas del sistema energetico nazionale. Se dal 2005 a oggi i consumi sono calati del 14 per cento, il gas rimane ancora preponderante nel mix energetico. “Bisogna puntare sull’energia pulita”, insiste Governatori. “Rinnovabili, riduzione dei consumi, efficientamento, tecnologie di accumulo ed evoluzione delle reti devono essere i punti chiave della strategia energetica nazionale”.

Nicolazzi è ancora più drastico. “Io accolgo con soddisfazione ogni passo verso la semplificazione degli iter autorizzativi per il fotovoltaico e l’eolico, che oggi richiedono ancora tempi cosmici”. In effetti, la crescita delle rinnovabili è proceduta incredibilmente a rilento negli ultimi anni, a causa della lentezza dei processi di autorizzazione e delle resistenze opposte da vari enti locali contro gli impianti.

Il ministero della transizione ecologica ha annunciato a più riprese di voler installare 70 gigawatt di capacità da qui al 2030; il che vorrebbe dire moltiplicare per dieci la potenza annua installata rispetto agli ultimi tempi. Ci riuscirà? Il governo ha varato procedure di semplificazione per le autorizzazioni, i cui effetti si misureranno probabilmente nei prossimi mesi. Ma per il momento nella strategia complessiva contempla anche la riattivazione delle centrali a carbone che erano quasi spente e la ripresa delle perforazioni in mare.

La guerra in Ucraina rischia di trasformarsi in una guerra sull’energia. Più passano i giorni e proseguono i combattimenti, più la contraddizione messa in luce da Nicolazzi appare bruciante: da una parte inviamo armi agli ucraini, dall’altra mandiamo soldi alla Russia che aggredisce l’Ucraina.

“Ormai lo sviluppo delle rinnovabili non è più solo un’esigenza ambientale, ma un imperativo di natura politica”, chiosa il professore. Per poi aggiungere, scherzando, ma neanche troppo: “Penso che il settore vada commissariato e gestito in modo militare dal governo, anche con misure draconiane: gli amministratori locali che si oppongono alle pale o ai pannelli senza ragioni valide dovranno essere mandati tutti a casa”.

Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 8 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

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