La centrale nucleare di Borgo Sabotino (Latina), vista dall’esterno. (Terraproject)

Quando entrò in funzione era la più grande d’Europa. Oggi giace spenta nei pressi del litorale pontino, a mostrare con la sua ingombrante presenza tutte le criticità di un possibile rilancio dell’atomo civile. Aperta dall’Eni nel 1963, la centrale nucleare di Borgo Sabotino, vicino a Latina, è una delle quattro presenti sul territorio nazionale, la prima mai costruita e quella che per ultima sarà smantellata. A una data che nessuno è ancora in grado di indicare, con costi che nel frattempo hanno raggiunto livelli stratosferici.

La centrale è inattiva da quando, nel 1987, i referendum sul nucleare dichiararono chiusa la parabola dell’atomo civile italiano. Da allora è in attesa di essere smantellata. Il compito è stato affidato alla Sogin, la società pubblica costituita ad hoc nel 1999 per occuparsi del decommissioning, ossia lo smontaggio delle centrali e la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. Ma le operazioni avanzano a rilento, per difficoltà tecnologiche e per l’ostacolo di natura tutta politica dell’identificare un sito dove costruire il deposito nazionale di stoccaggio del materiale radioattivo.

Il 15 giugno scorso il governo ha deciso di commissariare la Sogin, “in considerazione della necessità e dell’urgenza di accelerare lo smantellamento degli impianti nucleari italiani”, come si legge nel cosiddetto decreto sostegni. Il commissario, che avrà poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria, sarà nominato entro il 22 luglio. Dovrà imprimere un’accelerazione a un processo che pare arenato, frenato dalle infinite lungaggini italiane e metafora potente dei tempi che cambiano: se all’epoca ci sono voluti cinque anni per costruire la centrale e metterla in funzione, oggi ne impiegheremo almeno quaranta per chiuderla. I ritardi accumulati stanno facendo salire enormemente il costo delle operazioni: secondo le ultime stime della Sogin, l’intero decommissioning costerà alla collettività la cifra record di 7,9 miliardi di euro.

Un relitto sulla spiaggia

A pochi passi dalla spiaggia, l’impianto è un pezzo di archeologia industriale che racconta la saga in parte dimenticata dell’atomo italiano: negli anni sessanta l’Italia puntò decisamente sul nucleare per la produzione di energia elettrica. In un video dell’epoca è possibile vedere l’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei presenziare alla posa della prima pietra sul terreno incolto di Borgo Sabotino e annunciare trionfante la costruzione “della prima centrale di questo tipo in Europa occidentale”. Il manager non riuscirà mai a vedere lo stabilimento in funzione: morirà in un misterioso incidente aereo pochi mesi prima dell’inaugurazione. Ma intanto nuovi progetti erano stati avviati. Dopo quella di Latina, furono costruite altre tre centrali sul suolo nazionale: quella di Sessa Aurunca, sul fiume Garigliano, in provincia di Caserta, rimasta operativa dal 1964 al 1978; quella di Trino Vercellese, in Piemonte, entrata in funzione nel 1965 e infine quella di Caorso, sulla riva destra del Po in provincia di Piacenza, l’ultima aperta nel 1981 con un reattore di seconda generazione molto più potente di quelli delle altre tre (860 megawatt).

Nei primi anni sessanta l’Italia era il terzo paese al mondo per potenza nucleare installata, subito dopo Stati Uniti e Regno Unito. Poi la produzione rallentò. Il primo piano energetico nazionale, varato nel 1975, prevedeva uno sviluppo della componente nucleare, con la costruzione di otto nuove unità su quattro siti, anche sulla scia della crisi petrolifera del 1973 e della necessità di dotarsi di una maggiore autonomia energetica. Ma alcuni eventi rallentarono il processo, fino alla sua completa interruzione.

Nel 1979 ci fu un incidente alla centrale di Three Mile Island, negli Stati Uniti, con perdita nell’ambiente di materia radioattiva. Di conseguenza la centrale sul Garigliano, chiusa per manutenzione nel 1978, non venne più riaperta; mentre l’inaugurazione di quella di Caorso fu posticipata (aprì due anni dopo il previsto). Nell’aprile del 1986 l’esplosione del reattore nella centrale di Černobyl, nell’allora Unione Sovietica, diede ulteriore spinta al movimento antinucleare. Un anno e mezzo dopo, nei referendum del novembre del 1987, una schiacciante maggioranza di italiani si espresse contro il nucleare.

I quesiti non prevedevano direttamente la chiusura delle centrali, ma ponevano una serie di paletti, limitando la possibilità del governo centrale di imporre le proprie decisioni ai territori dove dovevano sorgere gli impianti e abrogando la possibilità di garantire contributi agli enti locali come forma di compensazione. I sì ottennero circa l’80 per cento dei voti. Visto l’orientamento dell’opinione pubblica, il governo decise di chiudere definitivamente la parentesi del nucleare. La centrale di Montalto di Castro, nell’alto Lazio, la cui costruzione era stata avviata nel 1982 e prevedeva due reattori da 982 megawatt ciascuno, non venne mai ultimata e sul sito nacque un impianto a policombustibile.

Il doppio no degli italiani

Diversi anni dopo, nel giugno 2011, un nuovo referendum ha bloccato sul nascere il tentativo di far ripartire la costruzione di centrali nucleari nel nostro paese. Anche questa volta il voto fu preceduto da un grave incidente: l’11 marzo 2011 uno tsunami colpì la centrale di Fukushima, sulla costa est del Giappone, portando allo sversamento di acqua radioattiva nell’oceano Pacifico e all’evacuazione di più di 150mila persone. Chiamati alle urne solo tre mesi dopo, il 94 per cento dei votanti italiani si schierò contro il nucleare, abrogando le nuove norme varate nel 2008 dal governo di Silvio Berlusconi per rilanciare il settore.

Il dibattito sul nucleare civile e sulle presunte opportunità perdute dall’Italia nell’abbandonare questa tecnologia ritorna ogni volta che si parla di strategia energetica nazionale e della necessità di essere più autonomi e di sganciarsi dai combustibili fossili. Se in Francia il 70 per cento circa dell’energia elettrica è prodotta da 19 centrali nucleari per un totale di 58 reattori, in Italia il combustibile prevalente è il gas, che importiamo ancora massicciamente dalla Russia. Ma l’infinito processo di smantellamento e l’incapacità di gestire le scorie delle quattro centrali dismesse dal 1987 sembrano stare lì a dimostrare che, con le tecnologie attualmente disponibili, il ritorno al nucleare non è un’opzione granché praticabile nel nostro paese.

Nel piazzale semivuoto della centrale spenta, di fronte al reattore di 53 metri che somiglia a un gigante addormentato, l’operation manager Agostino Rivieccio illustra gli avanzamenti del decomissioning fatto dalla Sogin nei quattro impianti. “Abbiamo realizzato finora il 45 per cento delle operazioni, con un’accelerazione del 17 per cento negli ultimi due anni, che è un numero notevole se si pensa che nel ventennio precedente si era realizzato il 28 per cento delle attività”, racconta l’ingegnere. “Il cronoprogramma prevede che qui a Latina si raggiungerà il brown field entro il 2027”. In termini tecnici, significa che entro i prossimi cinque anni saranno demolite tutte le strutture nella centrale, e tutti i rifiuti radioattivi saranno stoccati in depositi temporanei in attesa di essere trasferiti al deposito nazionale. Solo quando avverrà questo passaggio si giungerà alla fase di green field, che consentirà di restituire il sito alla collettività per il suo riutilizzo perché privo di vincoli radiologici.

A sentire gli esperti della Sogin, le operazioni di decommissioning stanno richiedendo tutto questo tempo perché le centrali non erano state pensate per essere smantellate. Si sono dovute studiare metodologie e tecniche specifiche, tanto che l’ente ha acquisito nel tempo delle competenze a loro modo uniche a livello mondiale. L’ingegnera Romina Quintiliani mostra a questo proposito l’impianto Leco (Latina estrazione e condizionamento) appositamente progettato e realizzato per estrarre e condizionare in matrice cementizia, ossia trattare e imballare nel cemento, circa 15 metri cubi di fanghi radioattivi che erano stoccati in un serbatoio interrato. “Abbiamo approntato una soluzione ingegneristica che garantisse la massima sicurezza nello svolgimento dei lavori e la riduzione al minimo della quantità di rifiuti radioattivi prodotti”.

Le operazioni, iniziate il 24 novembre scorso e concluse in sei mesi, sono state svolte dai tecnici della Sogin da remoto attraverso una sala controllo dedicata. L’ingegnera responsabile del programma mostra il deposito dove sono stati temporaneamente trasferiti i 70 blocchi di cemento, prodotto dell’operazione. “L’edificio di estrazione dell’impianto Leco e il serbatoio interrato saranno bonificati e demoliti. L’impianto di condizionamento sarà invece utilizzato per condizionare i rifiuti radioattivi che saranno prodotti nella fase due di disattivazione della centrale, che sarà avviata con la disponibilità del deposito nazionale, per poi essere anch’esso demolito”, conclude Quintiliani.

Ma proprio l’identificazione del deposito nazionale rischia di allungare i tempi a dismisura. La questione è spinosa e sarà gestita direttamente dal commissario nominato dal governo. Parliamo di un impianto che occuperà 150 ettari, di cui 110 per il deposito vero e proprio. Questo sarà costituito da 90 costruzioni in calcestruzzo armato, dette celle, dove verranno collocati grandi contenitori in calcestruzzo speciale, i moduli, che racchiuderanno a loro volta i contenitori metallici con i rifiuti radioattivi già condizionati. Nel deposito dovranno andare 95mila metri cubi di rifiuti radioattivi tra scarti della filiera dell’atomo dismessa e scorie dalla medicina nucleare e dall’industria. Una volta riempite, le celle saranno ricoperte da una collina artificiale di materiali inerti e impermeabili, che rappresenterà un’ulteriore protezione.

Il problema delle scorie

Nonostante le rassicurazioni e il paragone con la Francia, dove un deposito nazionale è nel dipartimento dell’Aube, nella regione della Champagne-Ardenne, accettato dalla popolazione locale dopo un processo di consultazione pubblica, qui in Italia nessuno vuole prendersi i rifiuti radioattivi. Quando, il 5 gennaio 2021, l’allora ministro dell’ambiente Sergio Costa ha reso pubblica la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi), un documento che Sogin aveva trasmesso al governo cinque anni prima, si è scatenato un putiferio. Nel testo erano indicate 67 aree, tra Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Nessuno dei comuni delle zone interessate ha espresso parere favorevole ad accogliere il deposito. Tutti hanno sollevato obiezioni, legate a vincoli paesaggistici, alla vocazione turistica o agricola dei territori, alla sismicità dei luoghi.

Accolte le osservazioni degli enti locali, il 15 marzo scorso la Sogin ha presentato al ministero della transizione ecologica la Carta nazionale delle aree idonee, che è una versione aggiornata del primo documento. Il testo è per il momento secretato, in attesa di un iter autorizzativo che porterà alla sua pubblicazione. Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ha annunciato che una decisione sarà presa entro il dicembre del 2023. E che il deposito sarà aperto entro il 2029.

Il governo spera in un’autocandidatura di una delle zone indicate nel nuovo testo, sottolineando che il deposito avrà ricadute positive sul territorio prescelto: all’interno dell’area deposito si costruirà un parco tecnologico e un centro di ricerca applicata e di formazione nel campo del decommissioning, producendo quindi un certo indotto. Ma per il momento nessuno si è fatto avanti e le premesse non sembrano di buon auspicio. Se nulla cambierà, dovrà essere il governo a decidere d’imperio la località dove costruire l’impianto.

Alla centrale di Latina, come negli altri tre siti in gestione a Sogin, le operazioni per il momento vanno avanti secondo il cronoprogramma che si è definito. Il reattore sarà l’ultimo pezzo a essere smontato, anche perché ancora non si sa come farlo. A livello internazionale non esiste una soluzione condivisa per procedere allo smantellamento di questo particolare tipo di reattori, alimentati a gas e grafite. La Sogin sta studiando una tecnologia adeguata e l’ingegner Rivieccio assicura che le ricerche sono a buon punto. Ma in ogni caso lo smontaggio non avverrà fintanto che non ci sarà il deposito nazionale. Guardando lo scheletro della centrale con il suo reattore che troneggia nel piazzale principale, tutto lascia pensare che il gigante addormentato rimarrà ancora lì per diversi anni a venire.

Da sapere
Si riapre il dibattito

In Italia il dibattito sul nucleare non finisce mai. Che si tratti di produzione di energia atomica o di dove costruire un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi poco importa. I referendum del 1987 e del 2011 hanno mostrato da che parte stanno gli italiani, ma non hanno mai sedato le discussioni sul ritorno dell’energia atomica. Negli ultimi mesi le scelte incombenti sulla collocazione del deposito nazionale di scorie radioattive, la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina, l’inclusione dell’energia atomica nella tassonomia europea degli investimenti green (approvata il 6 luglio anche dal parlamento europeo) hanno riportato l’atomo al centro del dibattito politico.

In parlamento gli scettici e i contrari sono soprattutto nel centrosinistra. Per il segretario del Partito democratico Enrico Letta, per esempio, l’inclusione del nucleare nella tassonomia dell’Unione è “radicalmente sbagliata”. Si tratta di un parere condiviso anche da Giuseppe Conte e dal Movimento 5 stelle, da sempre contrari al nucleare.

Il ritorno all’atomo è invece apprezzato nel centrodestra. Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Antonio Tajani (Forza Italia) hanno più volte sottolineato la necessità di “un mix energetico” che comprenda anche l’energia atomica. Matteo Salvini ha persino proposto di costruire un reattore nella “sua” Milano: “Draghi dimostri lungimiranza e coraggio, non possiamo essere l’unico grande paese al mondo che rifiuta la forma di energia più sicura, pulita ed ecocompatibile”, ha detto il leader della Lega in occasione del convegno dei giovani imprenditori, il 25 giugno a Rapallo.

Il partito dell’atomo ha tanti estimatori anche al centro. Da tempo Matteo Renzi invoca una discussione “non populista” sul nucleare. A metà giugno il suo ex ministro e oggi leader di Azione Carlo Calenda si è spinto oltre, depositando in senato una mozione che chiede al governo di costruire alcuni reattori nucleari di ultima generazione.

L’idea non dispiace nemmeno al ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani. A dicembre, parlando ad alcuni studenti delle superiori, ha affermato che “il nucleare è il futuro”. Il riferimento è alle ricerche in corso sulla fusione nucleare, con un primo reattore sperimentale che dovrebbe diventare operativo in Francia nel 2034. Impianti di questo tipo, ha detto Cingolani, “saranno la soluzione di tutti i problemi”.

Gabriele D’Angelo


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