Accanto al dolore e alla solitudine di chi arriva a togliersi la vita, ci sono conseguenze di quel gesto poco conosciute: come sopravvivono le persone dopo il suicidio di una persona cara, un parente, un’amica, un fidanzato? Chi le aiuta a ritrovare un senso nella voragine di domande e sensi di colpa che le affliggono? Che tipo di supporto c’è in Italia per le persone in preda a questi tormenti?

Purtroppo, nessuno. Non esistono strutture, a esclusione di esperienze di volontariato o di iniziative private. Secondo l’American psychiatric association la perdita di un familiare per suicidio è differente da qualsiasi altro tipo di lutto.

La prevenzione del suicidio è un tema cruciale in molti paesi compresa l’Italia, dove in base ai dati Istat (2019), nella categoria “indagine sulle cause di morte”, si registrano ogni anno circa quattromila morti per suicidio. L’Organizzazione mondiale della sanità classifica il suicidio, al livello globale, tra le prime venti cause di morte nella popolazione generale, come quarta causa di morte nei giovani tra i 15 e 29 anni e la terza se si considerano le ragazze tra i 15 e i 19 anni.

Dolore e confusione

Solo trentotto paesi, tra cui l’Italia, stanno cercando di sviluppare programmi di prevenzione per il suicidio. Per quanto riguarda invece l’assistenza a chi affronta una perdita così traumatica mancano completamente protocolli scientifici e una forma di aiuto dedicata specificatamente a questo problema.

Che non è piccolo: secondo George Howe Colt, autore di The enigma of suicide (1991), per ogni suicidio compiuto si può parlare di una “popolazione” tra le sei e le dieci persone – genitori, figli, coniugi, amici – che precipitano in uno stato di profondo dolore ed estrema confusione.

In Italia, per loro non sono previste forme di assistenza pubbliche, ma, a cercarle bene, esistono alcune associazioni di volontariato: linee di ascolto e gruppo di auto mutuo aiuto per la quasi totalità concentrate nel centro-nord del paese. Se guardiamo al meridione invece sono rarissimi i casi di gruppi di sostegno e le associazioni.

“Da quando mia figlia si è suicidata senza cause apparenti”, dice Rocchina Stompelli, fondatrice dell’associazione La tazza blu nata a Torino nel 2019, “mi sono dedicata ad aiutare gli altri. In situazioni del genere, quello di cui si ha bisogno è parlare di ciò che è accaduto. Confrontarsi, parlare, uscire insieme. Noi madri ci vediamo almeno una volta al mese, per noi è molto importante”. La figlia di Rocchina, Giulia, si è uccisa poco prima di compiere 17 anni: “Pensiamo che non abbia riconosciuto i pensieri che la attraversavano e non sia riuscita a dar loro voce, a trovare le parole per esprimerli. L’obiettivo dell’associazione è anche quello di lavorare sulla prevenzione attraverso varie attività, come corsi di formazione e convegni, ma è attiva anche con un gruppo WhatsApp di ascolto per i genitori”.

Il sensazionalismo dei mezzi d’informazione è deleterio e sposta l’attenzione sul fenomeno solo per brevi attimi

Matteo B. Bianchi è scrittore e autore del libro autobiografico La vita di chi resta (Mondadori 2023) in cui racconta il suo tormento dopo il suicidio di S., l’ex compagno che scelse di uccidersi nell’appartamento dove avevano vissuto insieme fino a pochi mesi prima, quando era finita la loro storia. I diritti del libro, uscito da poco più di un mese e già alla terza ristampa, sono stati venduti in Germania e Francia. Bianchi è stupito dell’accoglienza e della diffusione che sta avendo la sua storia così intima e dolorosa. “Le presentazioni sono sempre affollatissime, non me lo aspettavo. Incontro persone che mi raccontano la loro storia oppure mi ringraziano per aver raccontato la mia”.

Un grande tabù

La vita di chi resta è una storia che risale a più di vent’anni fa: il tempo impiegato dall’autore per elaborare davvero il lutto. A suo tempo, racconta Bianchi, gli è mancata molto la possibilità di condividere la sua esperienza. “Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta”, scrive. “La cosa che mi è mancata più di ogni altra: la condivisione con altri che abbiano vissuto lo stesso trauma”.

Di fatto, purtroppo, di suicidio non si parla, è ancora un grande tabù presente in ogni strato e ambiente sociale. Forse conoscete persone che hanno vissuto questa tragedia: avete avuto modo di parlargliene? O il pudore, la paura vi hanno fermato?. “Il suicidio fa paura come tematica se disancorata dal concetto di prevenzione rischiando di contagiare simbolicamente la famiglia che resta isolata”, mi spiega Maurizio Pompili, professore ordinario di psichiatria all’università Sapienza di Roma, e uno dei massimi esperti al livello internazionale nell’ambito del suicidio. È importante anche come parlarne. Per scrivere questo articolo ho incontrato persone che mi hanno generosamente raccontato le loro storie, aprendo uno spiraglio nell’intimità del loro dolore.

Alcune hanno suggerito di usare il termine “vittima di suicidio” e non “suicida”, per esempio, proprio perché bisognerebbe pensare ai suicidi senza pregiudizi e evitare ogni forma di colpevolizzazione nei loro confronti.

Tutte le persone con cui ho parlato concordano sul fatto che il sensazionalismo dei mezzi d’informazione sia deleterio e sposti l’attenzione sul fenomeno solo per brevi attimi, per poi lasciare che il tema cada nell’oblio fino alla tragedia successiva.

Chi rimane lo vede come un atto di allontanamento volontario, una presa di distanza dai familiari

Sono anche tutti d’accordo che sia fondamentale tanto parlarne quanto avere l’opportunità di ascoltare persone che hanno subìto lo stesso trauma. “Il valore più grande sta nel potere della parola”, mi ha detto A., una donna di Catania che due anni fa ha perso il figlio di trent’anni. “Mi è stato consentito in via eccezionale di collegarmi online con un gruppo di aiuto di una città in un’altra regione e che mia figlia frequenta in presenza, perché in Sicilia non sapevo a chi rivolgermi. Per me è stato fondamentale perché non riuscivo in alcun modo a parlare con nessuno. E ho avuto una sorta di rifiuto e chiusura nei confronti del resto della mia famiglia. Non mi piace la parola ‘sopravvissuti’ ma rende bene la nostra estrema fragilità”.

“Lo stigma è fortissimo. Basti pensare che fino alla fine dell’ottocento si diceva ‘commettere suicidio’ e si era processati da morti”, continua Maurizio Pompili, che mi spiega anche come sia difficile dire quante siano le persone che convivono con la perdita di una persona cara che si è suicidata. “In Italia si suicidano in media quattromila persone all’anno (e circa 800mila persone nel mondo), a volte ci sono lievi flessioni subito seguite da un aumento. Fino agli anni novanta si parlava di sei sopravvissuti per ogni suicidio, poi negli ultimi decenni c’è stata una tendenza a fotografarne un numero eccessivo, arrivando fino a cento. Diciamo che una media tra questi due numeri è forse quanto di più sensato”, commenta Pompili.

Perché il lutto da suicidio è diverso da tutti gli altri? Perché, spiega il professore, chi rimane lo vede come un atto di allontanamento volontario, una presa di distanza dai familiari. “Le persone sono tormentate non solo da sensi di colpa e responsabilità, ma anche da un sentimento di rabbia”. Pompili e i suoi collaboratori curano il sito Prevenire il suicidio che è uno strumento prezioso sia per la prevenzione al suicidio sia per l’assistenza a chi rimane. Oltre a fornire una panoramica particolarmente completa di linee di ascolto, fondazioni, associazioni sparse per la penisola (per quanto molte delle iniziative personali siano a volte di breve durata), dal sito si può scaricare un manuale che insegna come creare un gruppo di auto mutuo aiuto. “È importantissimo anche evitare l’effetto Werther, chiamato così a causa delle tante imitazioni suscitate quando nel 1774 uscì I dolori del giovane Werther che costrinsero Goethe a rivederne il finale”, spiega Pompili che ha da poco pubblicato Il rischio del suicidio. Valutazione e gestione (Cortina 2022).

“Il dolore va attraversato, ma poi devi lasciare da parte le risposte che non avrai mai”, dice F., che quattro anni fa ha perso il figlio trentenne. “Per me all’inizio è stato difficile parlarne e sono grato al gruppo di Auto mutuo aiuto (Ama) di Trento perché mi ha aiutato tantissimo. La prima cosa che hanno insegnato è che dobbiamo avere cura di noi stessi. Sono stato trattato con particolare attenzione anche dalla Asl dove ho frequentato uno psicoterapeuta”. F. si riferisce al servizio di psicologia clinica proposto dall’azienda sanitaria locale a chi ne ha bisogno e che, in casi come il suo, può dare priorità a lutti gravi, anche se non si tratta di un servizio specifico destinato a chi ha perso una persona cara che si è suicidata. F. mi racconta che per anni la sua vita sociale è stata inesistente perché era difficile avere a che fare con le persone. “Lo stigma sociale riguardo al suicidio è qualcosa di atavico, fa parte di ognuno di noi. Non c’entra nemmeno con la religione”.

Si può guarire? Il dolore passa? Il calvario narrato da Matteo B. Bianchi e la sua ricerca instancabile di una cura per la sua sofferenza – simile per certi versi al percorso esistenziale raccontato nell’Ultimo giro di giostra di Tiziano Terzani – fornisce una nota di speranza: “Ognuno ha la sua strada, i suoi tempi. I suoi metodi. Anzi, non li ha. Li improvvisa. […] Al di là del tragitto e delle modalità, l’essenziale resta questo: che a un certo punto devi concederti di andare avanti”. Se si vuole andare avanti, bisogna smettere di condannarsi e forse trovare il modo di perdonare.

Grazie a Lisa Dal Mas, Anna Cavedoni, Denise Erbuto per il prezioso aiuto.

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