Cultura Suoni
WE
Arcade Fire (sony music)

Per quasi vent’anni gli Arcade Fire hanno camminato sulla linea sottile tra la sincerità e il sentimentalismo. Dopo la sbandata cinica del quinto album Everything now – un disco per il quale hanno messo in piedi una falsa società, hanno pubblicato recensioni finte e hanno girato il mondo facendosi chiamare Infinite Content – la band canadese è tornata a fare quello che le riesce meglio: toccare i cuori degli ascoltatori con canzoni epiche sul declino, la disperazione e la ribellione. Il nuovo album del gruppo, WE, condensa le caratteristiche dei suoi dischi migliori (Funeral, Neon Bible, The suburbs) in soli sette brani e quaranta minuti. Arrangiamenti orchestrali si scontrano con groove trascinanti, ogni ritornello sembra scritto per gli stadi e verso la fine compare addirittura Peter Gabriel ad alimentare il loro credito verso i rockettari attempati. Eppure WE non è Funeral 2.0. L’album si apre con Age of anxiety, un brano in due parti che riprende le influenze disco di Reflektor e sfodera sintetizzatori degni di Giorgio Moroder. Il fulcro del disco è End of the Empire I-V: dura quasi dieci minuti e lentamente si dispiega in un lamento sul declino dell’America. È musica in pieno stile Arcade Fire. è il brano di Butler e compagnia più simile a una canzone di Bruce Springsteen. Ma da quel momento in poi con la doppietta di Unconditional I e II il disco diventa un po’ troppo piatto. Il mondo è cambiato da quando gli Arcade Fire hanno esordito nel 2004 e in vari momenti di WE la band dà l’impressione di faticare un po’ a tenere il passo.

Mike Vinti, Loud and Quiet

Profound mysteries
Röyksopp (Stian Andersen)

Dopo aver aspettato a lungo (The inevitable end è del 2014), il duo elettronico norvegese dei Röyksopp è tornato con un notevole concept album, anticipato da una serie di frammenti diffusi a partire dal 1 gennaio. Profound mysteries è la somma di varie parti: ognuna delle dieci tracce del disco è riconducibile a un’opera visiva creata dall’artista australiano Jonathan Zawada e a un cortometraggio, tutto accessibile online. Forse, per apprezzarlo meglio, il progetto andrebbe vissuto come un’entità audiovisiva in cui ogni brano rappresenta i due lati della stessa moneta. Ma ogni pezzo del puzzle ha senso anche da solo. Svein Berge e Torbjørn Brundtland ci accolgono con (Nothing but) ashes, un pezzo dove un piano rilassante ci conduce nel loro mondo digitale e liquido. Nei momenti non strumentali vengono usate al meglio le doti vocali delle varie collaboratrici, come Pixx e Alison Goldfrapp. Ma è con Susanne Sundfør e The mourning sun che ci ritroviamo nel punto focale del progetto: il pezzo è come una distesa ipnotica, una passeggiata meditativa attraverso una galassia sintetica. I Röyksopp si sono fatti perdonare per l’attesa e hanno concepito un universo multimediale coinvolgente e misterioso, con grande cura dei dettagli. Profound mysteries cattura l’immaginazione e c’invita a seguire il prossimo capitolo di questo viaggio: per ricominciare basta solo premere ancora “play”.
K. Macdonald-Brown, Clash

La sera del 4 maggio 1986 a Londra successe qualcosa di straordinario. Un piccolo miracolo dovuto alla fusione assoluta di un’artista lirica all’apice dei suoi mezzi sconfinati (aveva quarant’anni) e un direttore d’orchestra deciso ad aprirle tutti gli orizzonti espressivi possibili, plasmando il suo gesto per portarla sempre più lontano. E poi c’è Richard Strauss, musicista del quale sia la cantante sia il direttore (e la sua orchestra!) conoscono ogni sortilegio. E ci portano in un un viagio del quale ci sembra di non percepire mai la fine. Tutto ha l’impronta dell’infinito: quello delle tessiture e dei riflessi orchestrali; quello di una linea vocale dal fiato inesauribile e dai colori che si rinnovano costantemente; quello del genio di Strauss, del quale ci sono proposti, oltre ai lieder, due estremi: la farsa del Bourgeois gentilhomme e i malefici di Salome. Un concerto vertiginoso.
Sylvain Fort, Diapason

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1459 - 6 maggio 2022

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