In Asia meridionale il fiore Cestrum nocturnum (che in lingua hindi si chiama raat ki rani ) sboccia nelle notti più calde dell’estate. I petali bianchi punteggiano l’oscurità e la riempiono di un profumo simile al gelsomino, così buono che i profumieri ne imbottigliano l’aroma da secoli, mentre la mitologia dell’Asia meridionale avverte che attira i serpenti. Questa dualità – dolcezza inebriante mista a mistero seducente – è al centro del nuovo album di Arooj Aftab, che trae ispirazione proprio da questo fiore, tanto che uno dei brani si chiama proprio Raat ki rani. Vulture Prince, il disco del 2021 della cantante e compositrice pachistana residente negli Stati Uniti, affondava le sue radici nel dolore per la perdita del fratello e di un caro amico. Le canzoni, che combinavano jazz, musica classica indostana, folk e ghazal (una forma di musica e poesia urdu), erano lamenti sull’angoscia e la separazione. In Night reign Aftab rivendica l’oscurità attraverso nove composizioni vibranti e sperimentali, trovando nella notte un momento di malizia e d’incanto. La voce è equilibrata e paziente come sempre, ma gli arrangiamenti sono giocosi ed esplorativi, chiaramente influenzati dalla sua familiarità con l’improvvisazione.
Vrinda Jagota, Spin
Negli ultimi anni sono successe un paio di cose notevoli nella vita di Natasha Khan: ha cambiato casa discografica ed è diventata madre di una bambina, Delphi. In mezzo a queste trasformazioni ha creato anche un’altra creatura, un album che si addentra nei misteri del concepimento e nelle complessità della gioia post parto. The dream of Delphi è quindi un diario musicale di queste esperienze e il primo brano apre subito il sipario su una Bat for Lashes oscura, sognante e femminile. Qui ritroviamo l’essenza della musicista londinese all’ennesima potenza. Poi arriva Christmas day, un mite presagio di quello che arriverà dopo. “Sei un dono” sussurra, “vieni da me, ma non sei mia”. È dolce ma anche un po’ imbarazzante. Questa canzone insieme a The midwives have left e Her first morning virano verso lo stucchevole. Fanno pensare al lavoro di Tori Amos sulla maternità, The beekeeper, che soffriva dello stesso problema. Tuttavia entrambe le artiste sanno come lasciarsi dietro i cliché grazie a testi profondi e una produzione sapiente. Home ci ricorda che abbiamo a che fare con un’artista ancora capace di fare del pop innovativo. Non raccomanderei questo album a chi non conosce già Bat for Lashes, ma per i fan è uno sguardo interessante.
Josh Korngut, Exclaim!
Fondato nel 1947 dai fratelli Boskovsky – Willi al violino e Alfred al clarinetto – il Wiener Oktett cominciò a registrare per la Decca l’anno successivo, accumulando una discografia straordinariamente coerente, con alcune registrazioni che sono ancora un punto di riferimento. Questo cofanetto copre l’intera produzione dell’ensemble dal luglio 1948 al novembre 1972. È difficile trovare archi e fiati così dolci, con musicisti che si fondono, si bilanciano e interagiscono tra loro senza sforzo. Non sorprende che il repertorio ruoti intorno alla tradizione austro-tedesca: gli ottetti di Schubert, Mendelssohn e Spohr, i settimini di Beethoven, Kreutzer e Berwald e i quintetti con clarinetto di Mozart e Brahms, oltre a divertimenti di Mozart di varie forme e dimensioni. Ogni tanto l’ensemble esce dalla sua zona di comfort, con rarità come gli ottetti di Marcel Poot, Egon Wellesz e Henk Badings. E l’abbinamento tra la sinfonietta giovanile di Benjamin Britten e l’ottetto dell’anziano Paul Hindemith rimane uno dei punti più alti della discografia dell’ensemble viennese. Ventisette cd sono troppi? Decidete voi. Comunque grazie a Cyrus Meher-Homji, produttore della Eloquence, per averci presentato l’eredità del Wiener Oktett in modo perfetto.
Jed Distler, ClassicsToday
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