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Le ombre della ripresa cinese

Una fabbrica di pale eoliche a Nantong, Cina, 2 marzo 2021. (Xu Congjun, Vcg/Getty Images)

Nei primi tre mesi del 2024 l’economia cinese è cresciuta del 5,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, grazie soprattutto alle ottime prestazioni del settore manifatturiero. Il risultato segnala una robusta ripresa dopo i dati deludenti del 2023, caratterizzato dalla crisi del settore immobiliare, un comparto che un tempo contribuiva a più di un quarto dell’economia nazionale.

Proprio per superare le difficoltà create dal vistoso crollo delle vendite e dai fallimenti a catena nell’edilizia, è almeno dal 2021 che il governo cinese ha cominciato a rafforzare alcuni settori industriali innovativi, in particolare la produzione di veicoli elettrici, strumenti d’intelligenza artificiale e tecnologie sostenibili dal punto di vista ambientale, come i pannelli solari e le turbine eoliche. Molti di questi prodotti sono destinati all’esportazione, vista la relativa debolezza dei consumi interni.

La strategia sembra funzionare. Gli esperti, per esempio quelli delle banche statunitensi Goldman Sachs e Morgan Stanley o quelli dell’Asian Development Bank, sono convinti che quest’anno l’economia cinese riuscirà a centrare l’obiettivo di crescita del 5 per cento fissato dalle autorità. I dati positivi, tuttavia, aggraveranno le tensioni tra Pechino e i governi di molti paesi, che temono per la tenuta dei loro settori industriali, sommersi da un’ondata di prodotti cinesi competitivi dal punto di vista tecnologico e soprattutto sul piano dei prezzi. Gli Stati Uniti e l’Unione europea pensano a forti barriere doganali. Il 17 aprile il presidente americano Joe Biden ha espresso la volontà di aumentare i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio dalla Cina.

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La camera dei rappresentanti americana ha approvato una legge che potrebbe vietare l’uso del social network nel paese. Pechino protesta, e la tensione aumenta.

In un intervento alla High-level conference on the european pillar of social rights, a Bruxelles, Mario Draghi, parlando del futuro dell’Unione europea, ha dichiarato “Altre regioni hanno smesso di rispettare le regole e sono attivamente impegnate a elaborare politiche volte a migliorare la loro posizione competitiva. Nel migliore dei casi, queste politiche hanno l’obiettivo di riorientare gli investimenti verso le proprie economie a scapito della nostra; nel peggiore, sono progettate per rendere permanente la nostra dipendenza da loro. La Cina, per esempio, punta a catturare e internalizzare tutte le parti delle catene di approvvigionamento legate alle tecnologie verdi e avanzate, e sta facendo in modo di assicurarsi l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un eccesso di capacità in numerosi settori e minaccia di indebolire le nostre industrie”.

I timori si estendono anche alle economie emergenti, per esempio al Brasile, all’India e al Messico. A gennaio di quest’anno le esportazioni di prodotti cinesi in Messico sono cresciute del 60 per cento e tra i motivi c’è soprattutto il tentativo di Pechino di evitare i dazi statunitensi: sulle merci che entrano negli Stati Uniti dal Messico, infatti, si pagano i dazi agevolati dello United States-Mexico-Canada agreement, firmato nel 2020. Negli ultimi mesi, inoltre, il Brasile ha avviato una serie di inchieste su sospette attività di dumping della Cina: Pechino sovvenziona vari settori per tenere bassi i prezzi dei prodotti che esporta nel paese sudamericano, dai laminati alle soluzioni chimiche fino agli pneumatici.

Come spiega Michael Pettis, economista statunitense che insegna al Carnegie endowment for international peace, molto probabilmente la Cina raggiungerà i suoi obiettivi di crescita “grazie a cose che da tempo Pechino dice di non voler più fare”. Quando nel 2021 il crollo del settore immobiliare cominciava a diventare evidente, osserva Pettis, molti analisti sostenevano che puntare sui settori innovativi era la soluzione al problema della dipendenza dagli investimenti improduttivi. “Ma produrre in eccesso nel settore manifatturiero non è molto diverso dal costruire appartamenti che resteranno vuoti”.

Pechino, continua l’economista, avrà pure fatto bene a lasciare l’immobiliare per le auto elettriche e le pale eoliche ma, “a meno che non sia guidato da una domanda reale e dalla possibilità di realizzare profitti al netto dei sussidi, il cambio non potrà mai essere una fonte sostenibile di crescita”.

Ne è un esempio il caso della Xiaomi: di recente il produttore di smart­phone cinese ha annunciato il lancio del suo primo modello di auto con motore elettrico, la Su7, che sarà venduta a 215mila yuan (trentamila dollari), meno dei 245mila yuan chiesti per la Model3 della Tesla. La Xiaomi è in grado di produrre una Su7 ogni 76 secondi, ma ha riconosciuto che il prezzo non permette di compensare i costi di produzione. Del centinaio di produttori cinesi di auto elettriche oggi solo la Byd e la Li Auto realizzano profitti.

L’eccesso di capacità industriale dell’economia cinese è stato uno dei temi discussi dalla segretaria del tesoro statunitense Janet Yellen nel suo recente viaggio in Cina. Nel corso degli incontri con i vertici di Pechino, scrive il New York Times, “Yellen ha dichiarato che la Cina dovrebbe puntare di più sui consumi interni e ha avvertito Pechino che inondare di esportazioni i mercati globali rischia di mandare in tilt le catene di fornitura”. I colloqui non hanno prodotto risultati concreti, anche se le parti continueranno a incontrarsi e a discutere.

Alla fine di marzo, d’altronde, la Cina aveva presentato un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro i sussidi statunitensi alle auto elettriche, che Pechino considera discriminatori, perché sono riservati ai veicoli prodotti con componenti provenienti da regioni specifiche, da cui è esclusa la Cina. Come ha spiegato George Magnus, economista dell’Oxford university’s China centre, “Yellen e le controparti cinesi non potevano e non potranno risolvere niente, perché l’eccesso di capacità industriale è endemico al modello di sviluppo di Pechino.

La segretaria statunitense ha fatto bene a porre la questione, ma si tratta di un enorme problema che richiederà molto tempo per essere, non dico risolto, ma quanto meno gestito”. Per evitare protezionismi e nazionalismi, che non hanno mai fatto bene a nessuna azienda, a nessun lavoratore e a nessun paese. E anche per il bene della stessa Cina, che con la sua politica industriale da anni spreca enormi quantità di risorse.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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