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L’allarme dell’Italia ignorato mentre il virus si diffondeva in Europa

Un operatore della Croce rossa prima di entrare in alcuni palazzi dove vivono persone affette da covid-19. Bergamo, 3 aprile 2020. (Marco Di Lauro, Getty Images)

È stato un momento di spaventosa chiarezza. Il 26 febbraio, con il numero di italiani contagiati dal Sars-cov-2 che triplicava ogni 48 ore, il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte ha chiesto aiuto agli altri paesi dell’Unione europea.

Gli ospedali italiani erano al collasso. I medici e gli infermieri avevano finito la mascherine, i guanti e i camici di cui avevano bisogno per proteggersi. A causa dell’estrema carenza di respiratori, erano costretti a decidere chi doveva vivere e chi sarebbe morto.

In quel momento da Roma è partito un messaggio urgente diretto al palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, a Bruxelles. I dettagli sulle necessità dell’Italia sono stati inseriti nel Sistema comune di comunicazione e informazione per le emergenze dell’Unione europea (Cecis). Quello che è successo dopo è stato sconvolgente. Al grido d’allarme dell’Italia è seguito il silenzio.

“Nessun governo ha risposto alla richiesta dell’Italia e all’invito della Commissione”, racconta Janez Lenarčič, commissario europeo per la gestione delle crisi. “Questo significava non soltanto che l’Italia era impreparata, ma che nessuno era preparato. Il silenzio non era causato dalla mancanza di solidarietà, ma dalla mancanza di mezzi”.

Da quando il covid-19 si è introdotto in Europa nel corpo di un misterioso paziente zero, 180mila persone hanno perso la vita nello spazio economico europeo e nel Regno Unito. I contagiati sono stati 1,6 milioni. Il numero reale dei decessi è quasi certamente superiore rispetto ai dati ufficiali, e ora il recente aumento dei casi in Serbia e nei Balcani sta suscitando grande preoccupazione.

Le istituzioni europee non hanno saputo convincere i governi a collaborare tra loro

Come se non bastasse, il vecchio continente ha intrapreso una strada senza ritorno verso la peggiore recessione economica dai tempi della grande depressione degli anni trenta, soprattutto a causa dei blocchi imposti per proteggere i molti sistemi sanitari europei che non avevano le risorse per affrontare l’emergenza.

I leader si sono ritrovati a dover rispondere agli interrogativi sulla validità di un progetto europeo in cui gli stati si dimostrano incapaci di aiutarsi a vicenda nei momenti più difficili. Il prossimo fine settimana i 27 capi di stato e di governo dell’Unione si ritroveranno a Bruxelles per tracciare la rotta per il futuro. Sarà il primo incontro faccia a faccia degli ultimi cinque mesi.

Oggi, attraverso l’analisi dei documenti interni e le interviste con decine di funzionari ed esperti che lavorano a Bruxelles e nelle capitali europee, il Guardian e il Bureau of Investigative Journalism sono in grado di raccontare dettagliatamente la storia di come l’Europa è diventata l’epicentro di una pandemia globale (come l’ha definita l’Oms) e quali lezioni possiamo imparare per il futuro.

È la storia dei funzionari zelanti che da Bruxelles hanno lanciato l’allarme annunciando un disastro imminente nel corso di conferenze stampa deserte. È la storia dei ministri della sanità sempre più disperati, incapaci di convincere i capi di governo e i ministri delle finanze della portata di ciò che stava per arrivare e della necessità di agire immediatamente. È la storia dei governi che non hanno saputo riconoscere in tempo la rapidità con cui il virus si stava diffondendo, per poi lanciarsi in confuse manovre protezioniste in preda a un malcelato panico. È la storia delle istituzioni europee, in cui le figure più importanti hanno mostrato una palese carenza di esperienza o potere e non hanno saputo convincere i governi a collaborare tra loro davanti a un disastro che non rispetta né i confini né il ritmo lento della burocrazia di Bruxelles. È la storia dell’Europa impreparata e istituzionalmente incapace di organizzare una risposta adeguata a una crisi che l’ha immediatamente paralizzata.

L’allarme di Capodanno
A fine dicembre, mentre milioni di persone si preparavano a festeggiare il nuovo anno, a Stoccolma, negli uffici del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc), arrivò la notizia di un focolaio di casi di polmonite in Cina, la cui origine era sconosciuta.

Creato nel 2005, due anni dopo l’epidemia di Sars, l’Ecdc ha il compito di fornire una consulenza scientifica, ma non può fare niente di più. La responsabilità per la sanità pubblica ricade interamente sui governi nazionali, non sull’Unione o le sue agenzie. Nonostante questi limiti, l’Ecdc deve considerare l’intero orizzonte europeo e se necessario lanciare un allarme, a prescindere da quanto le capitali ne tengano conto.

L’agenzia ha pubblicato la prima valutazione del rischio il 9 gennaio, ricorda il direttore dell’Ecdc, la dottoressa Andrea Ammon. “In quel momento sapevamo che la maggior parte dei casi era legata a un mercato di animali vivi nella città cinese di Wuhan”, ha dichiarato Ammon al Guardian. “Circa due settimane dopo abbiamo ricevuto la notizia della trasmissione da persona a persona, un elemento che naturalmente cambiava le misure da adottare”.

Che fare con i voli diretti in arrivo da Wuhan a Londra, Parigi e Roma?

All’inizio la preoccupazione principale era quella di tenere la malattia lontana dai confini dell’Unione. Il 17 gennaio un’altra istituzione comunitaria, creata dopo una crisi sanitaria, ha organizzato la prima videoconferenza sul covid-19. Anche in quel caso l’istituzione non aveva i poteri dei governi nazionali.

Il comitato per la sicurezza sanitaria della Commissione europea comprende i rappresentanti dei ministeri della sanità di tutti gli stati membri e coordina la risposta sanitaria trans-frontaliera in Europa dallo scoppio dell’epidemia di H1N1 del 2009. Ma il 17 gennaio soltanto dodici dei ventisette stati (più il Regno Unito) hanno partecipato alla videoconferenza. A presiedere l’incontro era Wolfgang Philipp, a capo di una piccola squadra all’interno del dipartimento sanitario della Commissione, in Lussemburgo. Philipp riferì ai partecipanti che alcune decine di persone erano state contagiate a Wuhan da un nuovo coronavirus.

A gennaio era previsto l’arrivo in Europa di 300mila persone provenienti dalla Cina, di cui molte avrebbero festeggiato il capodanno cinese il 25 gennaio. Che fare con i voli diretti in arrivo da Wuhan a Londra, Parigi e Roma?

Un funzionario dell’Ecdc fece presente al comitato che l’idea di controllare la presenza di sintomi e la temperatura di tutti i passeggeri in arrivo era considerata largamente inefficace per arginare un virus. L’istituzione consigliava invece di concentrare i test sui passeggeri arrivati a bordo dei dodici voli settimanali diretti da Wuhan all’Europa. Regno Unito e Francia hanno condiviso le informazioni sulle misure adottate dagli aeroporti. Il governo italiano, tra gli assenti alla videoconferenza, non ha fatto lo stesso. A quanto pare il rappresentante italiano non aveva letto l’email di invito alla riunione.

Nervosismo
Il comitato avrebbe voluto pubblicare una serie di raccomandazioni sulle misure precauzionali alle frontiere, ma i paesi partecipanti non hanno trovato un accordo. È stato un preludio delle difficoltà che la Commissione avrebbe incontrato nelle settimane successive, quando i governi hanno preso ripetutamente provvedimenti unilaterali nonostante fossero tenuti a informare il comitato per la sicurezza sanitaria. La forma e la breve durata degli incontri – di solito appena un’ora con circa cento partecipanti – è stato un altro fattore che ha ridotto la comunicazione e la cooperazione, riferiscono diverse fonti.

Tra i partecipanti serpeggiavano un certo nervosismo e la sensazione che alcuni paesi non stavano dando al comitato “il peso che meritava”. La capacità di coordinare efficacemente lo sforzo è stata messa in discussione. “Non c’era tempo di reagire agli eventi tra una settimana e l’altra: la situazione cambiava molto rapidamente”, riferisce una fonte.

Tra l’altro a capo della Commissione c’era Ursula von der Leyen, che aveva assunto l’incarico da poche settimane.

Distratti dalla Brexit
In teoria Von der Leyen era la leader ideale per gestire una pandemia, perché ha lavorato come medico prima di intraprendere la carriera politica che l’avrebbe portata al ministero della difesa tedesco e successivamente, dal dicembre del 2019, all’organo esecutivo dell’Unione.

Le persone che hanno lavorato con Von der Leyen durante la crisi la descrivono come una donna estremamente intelligente. Tuttavia, alcuni ritengono che nelle prime settimane avrebbe potuto fare di più e sottolineano che i suoi primi passi sono stati incerti, come se fosse poco in confidenza con gli strumenti di cui disponeva.

“La Commissione avrebbe dovuto prendere posizione prima”, sottolinea un funzionario europeo. “Von der Leyen è intelligente, ma è nuova a Bruxelles e si affida a un paio di persone di Berlino che non hanno una grande esperienza su come funzioni la Commissione. Non si deve chiedere agli stati dell’Unione se hanno bisogno di un coordinamento, bisogna coordinare e basta. La sanità è di competenza dei governi nazionali, ma è possibile forzare la situazione”.

Le bare di alcune vittime di covid-19 a Bergamo, prima di essere trasportate a Firenze per la cremazione, 7 aprile 2020.

Se la risposta iniziale di Von der Leyen è stata discutibile, è innegabile che alcuni all’interno della Commissione avessero capito la gravità di cosa stava accadendo in Cina. “Abbiamo fissato il primo incontro del comitato di coordinamento della crisi il 28 gennaio”, ricorda Lenarčič. “La Commissione ha preso la minaccia con grande serietà. Non abbiamo mai abbandonato il nostro approccio estremamente serio, anche quando si moltiplicavano le voci secondo cui ‘sarebbe finito tutto da sé’. Non abbiamo cambiato orientamento nemmeno quando altri hanno cominciato a trastullarsi con il concetto di immunità di gregge”.

La Commissione ha tempestivamente vietato ai suoi dipendenti di intraprendere viaggi non necessari in Cina. Il 29 gennaio è stata organizzata una conferenza stampa per trasmettere un messaggio chiaro: preparatevi. Ma i mezzi d’informazione non hanno prestato grande attenzione agli allarmi che risuonavano a Berlaymont, perché quello era il momento in cui il Regno Unito stava per abbandonare l’Unione europea dopo 47 anni.

“Siamo andati alla conferenza stampa e abbiamo trovato la sala deserta”, ricorda Lenarčič. “Abbiamo invitato tutti a prepararsi, a prendere sul serio la minaccia. C’era molta eco, perché la sala era vuota. Ma abbiamo comunque sperato che i mezzi d’informazione avrebbero trasmesso il nostro messaggio. Non è stato così, perché tutta l’attenzione mediatica a Bruxelles era concentrata sull’ultima seduta plenaria del parlamento con la partecipazione dei britannici”.

“Ho visto molte immagini di persone che si tenevano per mano e cantavano durante la seduta”, racconta Lenarčič. “Capisco che fosse un momento storico, triste ed emotivo. Ma tutto questo non cancella il fatto che nella stessa giornata noi avevamo qualcosa da dire, qualcosa di importante. Lo abbiamo detto, ma in pochi erano interessati”. Non sono stati soltanto i giornali e le tv a ignorare il canto delle sirene delle agenzie europee.

Minaccia ignorata
Nella stessa settimana l’Ecdc ha consigliato ai governi di rafforzare le strutture ospedaliere, a cominciare dai reparti di terapia intensiva. Ma le capitali non hanno percepito l’urgenza dell’avvertimento. “Penso che abbiano sottovalutato la necessità di agire rapidamente”, sottolinea Ammon, ex capo del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Robert Koch di Berlino e direttrice dell’Ecdc dal 2017. “Se devi aumentare i posti letto, il tempo a disposizione fa molta differenza. Due giorni sono molto diversi da due settimane”.

Nel frattempo il virus continuava silenziosamente a diffondersi. Il 30 gennaio due turisti cinesi in visita a Roma sono risultati positivi al covid-19. Il governo italiano ha immediatamente bloccato tutti i voli da e per la Cina, chiedendo un incontro ai ministri della sanità europei per proporre misure di controllo più severe in tutta Europa.

Il problema è che per organizzare quell’incontro ci sono volute tre settimane. Il governo croato, incaricato dell’organizzazione in quanto presidente di turno dell’Unione, era alle prese con uno scandalo finanziario che aveva costretto il primo ministro Andrej Plenković a licenziare il ministro delle finanze Milan Kujundžić. Quando i ministri della sanità si sono finalmente riuniti, il 13 febbraio, i focolai si stavano già moltiplicando.

In quell’occasione il ministro della sanità croato, che presiedeva la riunione, dichiarò che la risposta alla minaccia del coronavirus era stata “tempestiva ed efficace”. Tuttavia un rapporto interno dell’Ecdc, che riporta in calce la data successiva a quella dell’incontro, dipinge un quadro molto diverso, elencando una serie di elementi ancora sconosciuti e i conseguenti rischi per l’Europa. Nel documento si legge che “lo stato di preparazione nei diversi stati” era “incerto”.

Scorte esaurite
La cruda verità è che nei mesi e negli anni precedenti all’avvento del covid-19 le scorte di dispositivi di protezione individuali (Dpi) si erano sensibilmente ridotte. Le mascherine protettive conservate nelle strutture sanitarie erano scadute e di conseguenza erano state distrutte, senza mai essere rimpiazzate. I piani di emergenza in vista di una pandemia erano obsoleti. “Molti paesi europei avevano scorte di mascherine scadute, e quasi tutte erano state distrutte”, conferma un consulente scientifico.

Nel 2011 la Francia aveva in stock 1,7 miliardi di mascherine, ma nel momento dell’esplosione della crisi ne aveva appena 117 milioni. Tra gennaio e marzo Parigi aveva incenerito 1,5 milioni di mascherine. Nel 2017 il governo del Belgio ha ordinato la distruzione di 38 milioni di mascherine che non sono mai state rimpiazzate.

Nel giro di poche ore gli europei hanno assistito a uno dei fallimenti più clamorosi di tutta l’emergenza

A quanto pare nessuno aveva un’idea chiara di cosa stesse accadendo. Fino al 23 febbraio i voli contenenti Dpi hanno continuato a decollare dall’Europa diretti in Cina, nella speranza di contenere il virus all’interno dei confini cinesi. Ma l’Europa era già stata raggiunta dal covid-19.

“La mia collega e commissaria alla sanità Stella Kyriakides ha continuato a chiedere informazioni”, racconta Lenarčič, ex ambasciatore sloveno presso l’Unione. “Hanno cominciato subito, ma per quanto ne so non hanno mai ricevuto i dati completi che avrebbero permesso alla Commissione di avere un’idea chiara sulle scorte di equipaggiamenti e sul numero di posti letto nelle terapie intensive. In molti casi è emerso che nemmeno i governi nazionali sapevano con precisione quali fossero i numeri”.

Dall’orgoglio alla rabbia
Nel fine settimana tra il 29 febbraio e il primo marzo più di duemila persone sono risultate infette in tutta Europa. Soltanto in Italia sono morte 35 persone. A quel punto Von der Leyen ha deciso di agire in prima persona. La presidente della Commissione ha informato Lenarčič che la portata della crisi richiedeva la creazione di una squadra di commissari che avrebbe affrontato la crisi occupandosi di ogni suo aspetto, dall’economia al controllo delle frontiere.

La nuova squadra è stata presentata al pubblico il lunedì successivo da Von der Leyen, con evidente orgoglio e tra gli scatti dei fotografi. Ma nel giro di poche ore gli europei hanno assistito a uno dei fallimenti più clamorosi di tutta l’emergenza. I paesi, in modalità di crisi, hanno agito individualmente e hanno imposto una serie di restrizioni alla circolazione di forniture mediche essenziali.

Il 3 marzo il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che avrebbe requisito “tutte le scorte e la produzione di mascherine protettive”. Il giorno successivo il governo tedesco ha vietato l’esportazione di Dpi.

I respiratori sono arrivati soltanto quando la fase più acuta era ormai superata

Durante la pandemia quindici stati hanno imposto restrizioni alla circolazione di equipaggiamenti e farmaci all’interno dell’Unione europea. I camion che trasportavano mascherine, guanti e camici sono stati fermati alle frontiere. Nel frattempo i leader nazionali hanno cominciato ad accusarsi a vicenda di ignorare la solidarietà europea e il mercato unico.

I carichi di Dpi destinati ai paesi europei arrivati nei porti di Germania e Francia sono stati “semplicemente rubati”, riferisce una fonte. I governi di Belgio e Paesi Bassi hanno acquistato in grandi quantità i componenti necessari per produrre farmaci indispensabili, consegnandoli agli ospedali e avviando una produzione in loco.

Considerando la carenza di questi componenti in Europa, la mossa degli olandesi e dei belgi ha compromesso gli sforzi dell’industria farmaceutica per incrementare la produzione di farmaci essenziali per curare i casi più gravi di covid-19.

Bergamo, 8 aprile 2020.

Quando i ministri della sanità europei hanno partecipato a una seconda riunione del consiglio, il 6 marzo, la commissaria Stella Kyriakides, affiancata da Lenarčič e dal commissario per il mercato interno Thierry Breton, ha sottolineato l’importanza dell’unità europea. “Oggi chiedo a tutti voi di impegnarvi a lavorare insieme apertamente, in modo trasparente e con solidarietà per garantire una risposta politica coerente”.

Tuttavia pochi giorni dopo la Germania ha chiuso unilateralmente i suoi confini, paralizzando il continente. Le immagini delle code al confine con la Polonia, lunghe fino a cinquanta chilometri, hanno dominato i notiziari, ed è sembrato che fossero tornate le antiche divisioni della vecchia Europa.
“Il problema non è chiudere i confini. Ma bisogna parlare con gli stati vicini, e molti governi non lo hanno fatto”, sottolinea Lenarčič. “È stato un errore che ha creato grandi difficoltà. Prima di tutto perché ha ostacolato il flusso di beni, un fatto molto pericoloso non soltanto per il funzionamento del mercato unico ma anche per la risposta al covid-19, perché alcuni dei prodotti bloccati erano forniture mediche essenziali, per non parlare del cibo”.

Nella sede della Commissione molte persone erano furenti. “La Commissione ha agito con decisione e immediatamente per convincere gli stati membri che si stavano comportando in modo egoista”, ricorda Lenarčič. Per placare le voci secondo cui in Europa c’erano persone che andavano in giro “con borse piene di soldi per comprare qualsiasi cosa a qualsiasi prezzo”, la Commissione ha introdotto un meccanismo di autorizzazione per le esportazioni in modo da controllare quali prodotti uscissero dal continente. Ma il momento era sconfortante per chi credeva ancora nell’Unione. “Le cose non sono state fatte nel modo giusto”.

Nessuna protezione
È emerso uno scenario del tutto inimmaginabile appena poche settimane prima. Uno dopo l’altro, tutti i paesi europei hanno fermato le proprie economie, cominciando dall’Italia il 9 marzo e concludendo con il Regno Unito il 23 marzo. Soltanto la Svezia è andata per la sua strada.

Per qualcuno era ormai troppo tardi. “Se l’Italia lo avesse fatto dieci o quattordici giorni prima sarebbe stato meglio. Il ministero della sanità voleva fermare tutto, ma è servito molto tempo per convincere il governo”, racconta il professor Walter Ricciardi, consulente del ministero della sanità italiano. “Gli altri stati, quantomeno, potevano beneficiare dell’esperienza dell’Italia, ma non lo hanno fatto. Per i ministri della sanità era molto difficile convincere i capi del governo e i ministri delle finanze che la situazione fosse così grave”.

Il 12 marzo gli esperti hanno comunicato a Von der Leyen che l’epidemia in Europa non poteva più essere fermata. Il giorno successivo il capo dell’Oms ha dichiarato che l’Europa era diventata “l’epicentro” della pandemia globale.

Per la Commissione europea l’imperativo principale era quello di procurasi gli equipaggiamenti protettivi. Ricciardi ricorda la sua profonda delusione per ciò che è accaduto in seguito. “All’epoca cercavamo disperatamente di procurarci Dpi e respiratori, ed era quasi impossibile trovarli sul mercato. Quindi abbiamo chiesto la distribuzione di ciò che era presente in Europa e uno sforzo collettivo per incrementare le scorte. Il problema è che ci sono voluti due mesi per riuscirci, non per mancanza di volontà da parte della Commissione ma perché il processo è stato estremamente lento e burocratico. I respiratori sono arrivati soltanto quando la fase più acuta era ormai superata”.

La Commissione aveva proposto l’idea di un approvvigionamento collettivo di Dpi già a metà gennaio, con la possibilità di trasformarsi in un “unico grande acquirente”, ma si era scontrata con il disinteresse dei governi nazionali. Soltanto il 5 febbraio è stato deciso di lanciare una valutazione formale delle necessità di Dpi da parte degli stati.

Da quel momento sono passate altre due settimane (con una serie di scadenze mancate) prima che i governi comunicassero le informazioni richieste. A quel punto le scorte globali si erano pesantemente ridotte. Inoltre gli stati europei, ormai consapevoli della gravità della situazione, hanno contattato individualmente i produttori cinesi, alimentando la concorrenza sui mercati.

Giovedì 12 marzo il programma messo a punto dalla Commissione non aveva ancora portato all’individuazione di un fornitore. Nel database dei contratti europei è stato registrato il fallimento dell’iniziativa. Sono state necessarie altre due settimane per trovare un fornitore, e la prima consegna è avvenuta l’8 giugno.

La Commissione è stata costretta a prendere l’iniziativa quando è apparso evidente che il programma collettivo non stava funzionando. E così sono state approvate alcune norme in emergenza per permettere la creazione di una scorta centralizzata attraverso un meccanismo chiamato rescEu.

Quando l’Italia ha chiesto aiuto
Secondo questo schema gli stati devono occuparsi di ottenere le forniture, ma è la Commissione a gestirne la distribuzione e a coprirne i costi. Finora sono state distribuite centinaia di migliaia di mascherine attraverso i centri di gestione della pandemia. Secondo Lenarčič questo modello verrà adottato anche in futuro. Il 17 luglio i leader europei si incontreranno a Bruxelles per discutere il budget dei prossimi sette anni e la possibilità di istituire un fondo per la ripresa.

“Nell’ultima proposta di budget della Commissione i fondi per la sanità passano da quattrocento milioni a nove miliardi di euro”, spiega Lenarčič. “La logica è quella di dare alla Commissione i mezzi per sostenere meglio gli stati, perché quando l’Italia ha chiesto aiuto nessuno era in grado di darglielo. Anche noi non abbiamo potuto aiutare l’Italia”. La Commissione vuole acquistare equipaggiamenti per creare una scorta anziché affidarsi alla generosità dei singoli governi. Inoltre Bruxelles intende ampliare il raggio d’azione e includere equipaggiamenti necessari in caso di crisi chimiche, biologiche o nucleari. “Mi pare che ci sia una lezione chiara da imparare”, sottolinea Lenarčič. “La stragrande maggioranza degli europei vuole che in questo ambito l’Europa sia più presente”.

Ricciardi concorda con Lenarčič e crede che l’Ecdc dovrebbe essere un’istituzione con potere decisionale, e non soltanto di consulenza, mentre la Commissione dovrebbe assumere il comando nei momenti in cui il coordinamento è essenziale. “Gli stati devono imparare che c’è bisogno di prepararsi per questa nuova normalità. La pandemia di covid-19 è soltanto il primo di una serie di eventi. Emergenze simili si ripresenteranno in futuro. I meccanismi del commercio e del turismo stanno cambiando il mondo, e se non ne terremo contro rischiamo di pagarne le conseguenze”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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