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Il fantasma di Ratko Mladić nell’Europa di oggi

Ratko Mladić con alcuni militari francesi delle Nazioni Unite all’aeroporto di Sarajevo, 12 aprile 1993. (Michael Stravato, Ap/Ansa)

Aprile 1992. Colline intorno a Sarajevo, Bosnia Erzegovina. Registrazione radio-telefono:

“Qui generale Mladić”.
“Sissignore”.
“Non avere paura. Come ti chiami?”.
“Vukasinović”.
“Vukasinović, ascoltami. Bombarda la presidenza e il parlamento. Spara a intervalli lenti fino a che non ti dirò di smettere”.
“Bene”.
“Colpisci i quartieri musulmani, lì non vivono molti serbi”.
“Va bene”.
“Non devono dormire. Bombardali fino a farli impazzire”.

Sono i primi giorni della guerra in Bosnia e Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci, ordina al colonnello Vukasinović di sparare a tappeto su una capitale europea, Sarajevo. È l’inizio dell’assedio più lungo nella storia contemporanea: finirà solo nel febbraio del 1996, dopo 44 mesi. Almeno undicimila persone moriranno, più della metà civili. I feriti saranno più di cinquantamila.

Il 22 novembre 2017 il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha condannato il generale Ratko Mladić, all’ergastolo. Dopo un processo durato cinque anni, lo ha riconosciuto colpevole di dieci capi di imputazione su undici, tra cui di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Per capire l’importanza di questa sentenza bisogna ricostruire il progetto nazionalista ideato dal presidente serbo Slobodan Milošević e trasformato in una guerra di sterminio nel cuore dell’Europa dal serbo-bosniaco Mladić.

“Ovunque c’è una tomba serba, la terra è serba”, affermavano i teorici del nazionalismo cresciuti all’ombra del primo. Mentre il secondo, animato dallo stesso fanatismo, diceva: “Ovunque è stato versato del sangue serbo, la terra è serba”. Il generale è stato l’esecutore materiale del disegno di Milošević della Grande Serbia, cioè di quel progetto (tragicamente fallito) di riunificare tutti i serbi in un unico stato. Il che prevedeva di annettere anche i territori della Croazia e della Bosnia Erzegovina dove vivevano anche dei serbi.

Un conflitto contro i civili
Per farlo, secondo Milošević e Mladić, bisognava “ripulire” queste zone – in particolare quelle al confine con la Serbia – per avere la continuità territoriale, attraverso una campagna di sterminio, deportazione e terrore contro i non serbi. La morte dei civili o l’espulsione delle popolazioni durante la guerra in Bosnia Erzegovina non erano un danno collaterale: erano il principale obiettivo del conflitto. “Dalla notte dei tempi, le frontiere sono sempre state tracciate con il sangue”, amava sostenere Mladić, per motivare le sue truppe nella guerra contro “gli ustascia” e “i turchi” (come chiamava rispettivamente i croati e i musulmani di Bosnia). Il suo obiettivo era “unire tutte le terre serbe da Knin a Belgrado, passando per Banja Luka e Sarajevo”, come ha dichiarato nel 1995.

La richiesta dell’ergastolo per Mladić


“Sarebbe un insulto a tutte le vittime, vive o morte, e un affronto alla giustizia decidere una condanna diversa rispetto a quella più severa secondo il diritto: l’ergastolo”, ha detto in aula il procuratore del tribunale Alan Tieger. “Nessuno può neanche immaginare la quantità di sofferenze di cui è responsabile Ratko Mladić”.

Il Tribunale dell’Aja ha quindi condannato Mladić per il sanguinoso assedio delle città bosniache di Sarajevo, Srebrenica, Goražde, Tuzla, Zepa, Bihac e per la campagna di pulizia etnica in Bosnia orientale, dove furono cacciate le popolazioni civili non serbe, nel tentativo di occupare più territori possibile. E per avere preso in ostaggio i caschi blu della Nazioni Unite, al fine di impedire che gli aerei della Nato bombardassero le postazioni del suo esercito.

La guerra in Bosnia ha provocato almeno centomila morti e più di due milioni di profughi e sfollati. Il generale serbo-bosniaco si è quindi macchiato dei crimini più gravi del diritto internazionale umanitario. L’imputazione di genocidio è stata sostenuta dai procuratori del tribunale per il massacro di Srebrenica, la strage di civili più spaventosa avvenuta in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

La Bosnia Erzegovina oggi

Il genocidio di Srebrenica
Srebrenica era un’enclave sotto il controllo del governo di Sarajevo e – teoricamente – sotto la protezione delle Nazioni Unite. La cittadina, sottoposta a un lunghissimo assedio, aveva visto crescere esponenzialmente la sua popolazione, perché era lì che si erano rifugiate decine di migliaia di persone sfuggite alla campagna di pulizia etnica in Bosnia orientale tra il 1992 e il 1995.

Nei giorni successivi alla conquista delle città, avvenuta l’11 luglio 1995, con la comunità internazionale paralizzata e incapace di agire, Mladić ha personalmente coordinato il piano di deportazione delle donne, dei bambini e degli anziani musulmani fino ai territori controllati dal governo di Sarajevo. E lo sterminio di tutti i ragazzi e gli uomini in età di combattimento. Almeno ottomila persone sono state passate per le armi e sepolte in fosse comuni nei dintorni della città. Il massacro era stato deciso, programmato e organizzato ben prima della caduta dell’enclave. I bulldozer erano pronti, e i soldati e gli ufficiali erano istruiti. Una colonna di migliaia di persone in fuga dalla città è stata bombardata senza pietà dai serbo-bosniaci e dalle milizie provenienti dalla vicina Serbia: ancora oggi i boschi intorno a Srebrenica sono pieni di tombe, e in quelle terre vengono ancora ritrovati resti umani, a più di vent’anni dalla strage.

The Killing fields of Srebrenica. Bbc Newsnight


Per farsi un’idea di cosa accadeva a Srebrenica nel luglio 1995, del ruolo di Mladić, e del modo in cui si sono comportati i caschi blu olandesi che teoricamente avrebbero dovuto difendere la città, si possono guardare molti video, tra cui dei servizi della Bbc e questo video di ricapitolazione dello stesso tribunale. Per capire l’atteggiamento della comunità internazionale e il dibattito sulla responsabilità dei paesi occidentali nella caduta di Srebrenica, si possono invece guardare due documentari. Uno più lungo, realizzato da un canale televisivo olandese in occasione del ventennale del massacro e l’altro trasmesso dalla Bbc nel 2009.

Pochi mesi dopo la caduta di Srebrenica (e in parte anche a causa delle notizie sul massacro), si arrivò a un rovesciamento veloce nell’andamento della guerra, con una forte controffensiva delle forze croato-musulmane sostenute dagli occidentali, e a un cambiamento di atteggiamento della comunità internazionale rispetto ai crimini dei serbi di Bosnia e dei loro protettori di Belgrado.

Alla fine, nel novembre del 1995, gli accordi di Dayton posero fine al conflitto in Bosnia Erzegovina, disegnando un’architettura istituzionale molto complicata, che tuttora resiste, ma che è anche un forte ostacolo allo sviluppo del paese. Ratko Mladić rimase libero e tranquillo di circolare per anni tra la Bosnia e la Serbia, grazie a diffuse complicità, e fu arrestato solamente nel 2011.

Giustizia è fatta?
Quindi oggi, più di vent’anni dopo Srebrenica e gli accordi di Dayton, dopo il verdetto sul generale, quello sul capo politico dei serbo-bosniaci Radovan Karadžić e la morte di Slobodan Milošević (primo ex capo di stato processato per crimini contro l’umanità) mentre era in custodia all’Aja e tutte le altre sentenze del tribunale, possiamo dire che giustizia è fatta? La risposta è più complicata di quanto possa sembrare.

Quello che è sicuro è che il Tribunale dell’Aja ha fatto il suo lavoro per molti anni e ha un bilancio di tutto rispetto: 161 incriminazioni (tra serbi, croati, musulmani bosniaci e albanesi del Kosovo), 123 arresti, 83 condanne (e anche 19 assoluzioni, di cui otto sono in attesa di appello e due devono essere oggetto di un nuovo processo), raccontano Stéphanie Maupas e Rémy Ourdan su Le Monde. Il tribunale ha raccolto 1,3 milioni di pagine di documenti, prove e testimonianze. I testimoni ascoltati sono stati 4.600 (in maggioranza vittime).

Nato nel 1993, e da molti considerato come uno strumento attraverso cui la comunità internazionale e l’Onu cercavano di pulirsi la coscienza per la loro passività di fronte alle sofferenze delle popolazioni della ex Jugoslavia, il tribunale è diventato la prima vera istituzione di giustizia internazionale mezzo secolo dopo le corti di Norimberga e Tokyo, e prima della creazione della Corte penale internazionale, nel 2002.

Ratko Mladić con Thom Karremans, comandante del contingente olandese delle Nazioni Unite, nella base di Potočari dopo la conquista di Srebrenica, 12 luglio 1995.

La sentenza su Mladić è stato il suo ultimo verdetto importante. Il tribunale chiuderà i battenti il 31 dicembre 2017. Il Meccanismo per i tribunali penali internazionali sarà dal 2018 la struttura incaricata di portare a termine i lavori dei tribunali internazionali per il Ruanda e per la ex Jugoslavia. Uno dei processi di appello più importanti che dovrà affrontare sarà quello a Radovan Karadžić, condannato in primo grado a quarant’anni di carcere.

Il grande lascito del Tribunale dell’Aja sta sicuramente nella raccolta di un’incredibile quantità di materiali sulle guerre jugoslave, dalla Croazia al Kosovo, passando per la Bosnia, e nella volontà di perseguire, nonostante gli ostacoli politici, i responsabili dei crimini più efferati. Il suo lavoro è stato utile per allontanare dalla vita pubblica i leader nazionalisti più estremisti, dare alle vittime il senso di un riconoscimento e di una qualche forma di giustizia, e fare luce sui fatti, contribuendo così a scrivere la storia di un conflitto al di là dei possibili revisionismi e delle retoriche nazionaliste.

Ovviamente questo lavoro ventennale non è stato esente da polemiche, come spiegano Maupas e Ourdan su Le Monde. Al di là delle accuse di faziosità, che non potevano mancare, le critiche delle vittime si sono concentrate soprattutto sulla lunghezza dei processi, da molti giudicata eccessiva, su alcune strategie per ottenere la collaborazione dei paesi coinvolti (come quelle denunciate dalla giornalista francese Florence Hartmann), e soprattutto su alcune assoluzioni, come quelle del generale croato Ante Gotovina, dell’ex capo di stato maggiore della Serbia Momčilo Perišić e del capo dei servizi segreti di Milošević Jovica Stanišić (ma la corte d’appello dell’Aja ha ordinato di rifare il processo di quest’ultimo, insieme a quello del suo collaboratore Franko Simatović).

Florence Hartmann ha puntato il dito contro il presidente del tribunale Theodor Meron, accusandolo di aver cambiato la giurisprudenza della corte e di “avere una lettura molto restrittiva del diritto, che tende a proteggere i leader politici e militari”, per non irritare le grandi potenze, sempre più impegnate in guerre per procura.

La Bosnia è sola
Tutti questi processi e queste sentenze, però, se hanno dato un qualche sollievo alle vittime, non hanno per ora portato grandi cambiamenti nella situazione politica ed economica della Bosnia Erzegovina, che è ancora oggi un paese in qualche modo dimenticato dai governi europei (al contrario della vicina Croazia, che è entrata nell’Unione), e che detiene il triste record del tasso di emigrazione più alto d’Europa, il 44,5 per cento: praticamente un bosniaco su due vive all’estero.

Il farraginoso sistema di governo ereditato dagli accordi di pace di Dayton, le ferite del conflitto – che hanno alimentato le divisioni tra le comunità e la difesa delle tradizioni religiose dei singoli gruppi –, la persistente forza dei partiti nazionalisti e un sistema scolastico sempre più basato sulla segregazione e organizzato per comunità, stanno privando definitivamente la Bosnia di quello status di piccola Jugoslavia, di paese di tanti popoli e religioni che aveva prima della guerra, e stanno alimentando nuove tensioni. Il presidente della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, Milorad Dodik, parlando di Mladić, pochi giorni prima del verdetto, ha detto che “nonostante tutto (…) resta una leggenda del popolo serbo”.

A proposito di giustizia nelle aule di tribunale e di riconciliazione nel paese, The Balkanist ha invitato alcuni giovani dei vari paesi dei Balcani a esprimersi sull’eredità del Tribunale dell’Aja. Tra le tante risposte colpisce quella di Fuad Avdagić, 24 anni, studente alla facoltà di legge di Sarajevo:

Sfortunamente, quando penso all’eredità del Tribunale e al mio futuro in quanto persona che vive in un paese profondamente colpito dalla guerra, penso che il principale obiettivo del Tribunale non sia stato raggiunto. Questo obiettivo è una giustizia (…) che possa servire per portare riconciliazione e coesistenza in Bosnia (ed) Erzegovina e nei Balcani. Ancora una volta il mondo ha fallito nei Balcani. E ha lasciato i popoli dei Balcani a difendersi da soli. Questo viaggio sulla lunga e tortuosa strada della riconciliazione e della coesistenza è di nuovo solo sulle nostre spalle.

L’Europa e la comunità internazionale dovrebbero riflettere prima di abbandonare nuovamente la Bosnia a se stessa, ai suoi fantasmi, agli appetiti dei paesi vicini e ai finanziamenti delle monarchie del golfo Persico, per evitare che la piccola repubblica torni a diventare un problema per l’Europa (oltre che per i suoi cittadini).

Il documentario olandese “Perché Srebrenica doveva cadere” sulle responsabilità dell’occidente


Postilla italiana
“La politica estera italiana? Perché, esiste?”, disse una volta il ministro degli esteri e primo ministro bosniaco Haris Silajdžić durante la guerra. L’Italia confinava con quella che prima della dissoluzione era la Jugoslavia. Ma in quel periodo il mondo politico e istituzionale era spesso confuso e distratto: erano gli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, quelli dell’operazione Mani Pulite, dell’ascesa di Silvio Berlusconi e di un leader della sinistra (Achille Occhetto) che chiamò la sua coalizione elettorale progressista una “gioiosa macchina da guerra”, proprio mentre al di là dell’Adriatico c’era un conflitto sanguinoso.

Oltre alla politica, c’era però il mondo del volontariato pronto ad aiutare, soccorrere, rischiare e talvolta morire per portare aiuti umanitari alle popolazioni civili coinvolte nel conflitto. Ci furono marce e manifestazioni autenticamente pacifiste e talvolta ingenue e ci furono pacifisti a comando (com’è accaduto molti anni dopo con la guerra in Siria): silenziosi mentre la guerra di conquista infuriava, ma pronti a sfilare “per la pace” appena la comunità internazionale o la Nato cercavano forme di intervento tardivo per alleviare le sofferenze delle città assediate e delle popolazioni civili. Sull’Italia e la guerra nei Balcani meriterebbe di essere letto, o riletto, La guerra in casa, del bravissimo (e purtroppo prematuramente morto) Luca Rastello.

Sui giornali, che allora avevano un peso diverso nell’opinione pubblica rispetto a oggi, ci furono violenti dibattiti e discussioni sulle origini della guerra, su cosa si potesse o dovesse fare per interromperla. E ci furono anche opinioni che ancora oggi suscitano sgomento, come quelle di chi sosteneva che i musulmani bosniaci a Sarajevo si bombardavano da soli per dare la colpa ai serbi e provocare un intervento della Nato. Fu negli anni successivi alla fine della guerra fredda che nacque una sorda alleanza di interessi che ci portiamo dietro oggi (amplificata da un quindicennio di feroce terrorismo islamico e dal dilagare del complottismo), tra un mondo conservatore iperrealista, una destra reazionaria o neofascista, talvolta di matrice cattolica e antimusulmana, e una sinistra antagonista e antioccidentale, sempre pronte a schierarsi a fianco dei peggiori aguzzini (da Milošević al dittatore Bashar al Assad) purché siano antagonisti delle detestate democrazie occidentali.

Rata Neće Biti (La guerra non ci sarà), il documentario di Daniele Gaglianone sulla Bosnia


Ancora oggi la lettura di quegli anni è talvolta ambigua, e si mischia con una lettura superficiale e ideologica dei conflitti di oggi, come quello siriano. Lo si vede bene da un articolo pubblicato in prima pagina sulla Stampa il 5 aprile scorso in cui, parlando dell’uso delle armi chimiche in Siria e dei responsabili del loro uso, si ritiene opportuno evocare un episodio successo durante le guerre nei Balcani che “ha fatto saltare tutti i punti di riferimento”: il bombardamento del mercato di Sarajevo del 28 agosto 1995. Quell’ennesima strage di civili (che arrivò poco più di un mese dopo il massacro di Srebrenica) provocò la prima reazione militare davvero efficace della Nato contro i serbi di Bosnia. Purtroppo l’esempio viene citato per sostenere che “ancora anni dopo permangono fondati dubbi sulla dinamica dell’accaduto”. Invece un rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite all’Assemblea generale sulla situazione in Bosnia Erzegovina ha chiarito, già nel 1999, che “tutti e cinque i colpi di mortaio” che caddero sul centro di Sarajevo quel giorno furono senza dubbio “sparati dai serbo-bosniaci”.

Oggi, di fronte alla tardiva ma rigorosa sentenza contro Ratko Mladić e contro il suo delirante e sanguinario progetto nazionalista, sarebbe bene fermarsi a riflettere sul rispetto che meritano le vittime dei conflitti vicini e lontani, e sulla responsabilità che coloro che lavorano nei mezzi di informazione hanno di fronte ai fatti. Per evitare di dover aspettare che sia un tribunale, molti anni dopo, a spiegarci come sono andate le cose.

Guarda anche: la lezione che il mondo non ha imparato dalla Bosnia, il video della Thomson Reuters Foundation.

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