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La morte della democrazia a Hong Kong

Un uomo pulisce la statua che raffigura la dea della democrazia a Hong Kong, 4 giugno 2018. (Vincent Yu, Ap/Ansa)

“Ti ricordi di me!”. Non ho potuto fare a meno di ridere quando Joshua Wong mi ha detto quelle parole, vedendo che mi avvicinavo per stringergli la mano alla fine di una piccola manifestazione di protesta che aveva organizzato insieme ad altre persone. Era un’esclamazione strana per un attivista di 21 anni, salito agli onori della cronaca in tutto il mondo e che durante le proteste del 2014 si era guadagnato addirittura la copertina di Time.

Ci eravamo visti altre due volte prima di questo ultimo breve incontro. Uno storico del luogo, che sapeva del mio interesse accademico per i movimenti di protesta, mi aveva presentato Joshua nel 2013: all’epoca aveva solo 15 anni, eppure era già famoso nella città per il ruolo centrale che aveva avuto nelle mobilitazioni contro l’introduzione, nelle scuole superiori di Hong Kong, dei modelli di istruzione patriottici tipici della Cina continentale.

Quando più tardi, nel 2016, abbiamo trascorso un’ora a parlare in una caffetteria, erano ormai in molti a considerare fallito il movimento di protesta di Hong Kong, chiamato “rivoluzione degli ombrelli” a causa degli ombrelli aperti usati dai manifestanti per proteggersi il viso da gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Non solo non erano riusciti a raggiungere il risultato prefissato, vale a dire una maggior democraticità delle procedure applicate a Hong Kong, ma nella città si capiva che le autorità locali, subordinate a Pechino, erano pronte alla repressione.

Oltre a scrivere di questi incontri, ho pubblicato alcuni saggi sulle azioni intraprese da Joshua e sui tentativi delle autorità di Hong Kong di chiudergli la bocca. Ho visto tre documentari su di lui, e in uno di questi – Joshua: teenager vs. superpower – compaio come commentatore.

Come potrei non ricordare Joshua?

“Ti ricordi di me!”.

Stavo soffrendo per la lenta morte di Hong Kong o almeno di una particolare Hong Kong

All’inizio mi sono chiesto se fosse una battuta quando mi ha detto quelle parole sorridendo, ma ho subito scartato l’idea. Prima di accorgersi di me, aveva un’aria sfinita e abbattuta. E durante i nostri incontri precedenti non c’era mai stato spazio per le battute. Serio, intelligente, devoto alla causa e determinato: questi sono gli aggettivi che avevo trovato per descriverlo, di certo non stupido.

Eppure, nel sentirlo mi ero fatto una risata. Ho riso altre volte durante il resto della mia settimana a Hong Kong mentre raccontavo ai miei amici del nostro incontro, trasformandolo così in una sorta di aneddoto esilarante. Poi all’improvviso, alcuni giorni dopo aver lasciato la città ed essere tornato in California, ho smesso di trovare quel suo commento divertente. Anzi, ho cominciato a provare un forte senso di oppressione al cuore.

Non ci vuole molto a farmi ridere, ma non sono una persona che piange facilmente. Per questo sono rimasto sconvolto quando un giorno, mentre andavo in palestra in bicicletta, ho ripensato al nostro ultimo incontro e ho sentito i miei occhi riempirsi di lacrime.

Sul momento non riuscivo a capire perché sentissi il bisogno di piangere, ma adesso so bene che non di trattava di versare lacrime per un ragazzo che conoscevo appena. Stavo anche piangendo la scomparsa di un posto speciale, soffrendo per la lenta morte di Hong Kong o almeno di una particolare Hong Kong.

Una Hong Kong che avrebbe dovuto godere di una varietà di diritti come la libertà di espressione e di assemblea per cinquant’anni dopo l’annessione alla Repubblica popolare cinese in base al patto noto come “una Cina, due sistemi”. Una Hong Kong che è stata snaturata da processi apparentemente inarrestabili che hanno quasi azzerato la differenza tra il suo stile di vita e quello delle città nella Cina continentale.

Sguardi vuoti
Non è semplicemente una Hong Kong agonizzante, ma è come se fosse stata concepita da qualcuno che è già morto. Questo può spiegare perché il viso di Joshua si fosse acceso vedendomi camminare verso di lui. La causa che anima ogni attivista come lui, che sia famoso o meno, fa sì che ogni segno di interesse esterno sia un incoraggiamento. Gli sforzi per impedire, almeno in parte, che la città diventasse una qualunque città cinese non sono passati inosservati.

“Ti ricordi di me!”.

Quella frase non mi perseguita più come quando mi sono messo a piangere ripensando a Joshua, ma di tanto in tanto mi torna alla mente quella sera. Ci ripenso esprimendo a qualcuno la mia preoccupazione per l’inasprimento del controllo su Hong Kong e, piuttosto spesso, mi trovo di fronte a sguardi vuoti.

Le persone non hanno colpa dell’ignoranza su quel che succede. I notiziari sono stati implacabili, fuorvianti, stressanti. Ho imparato a non sorprendermi più di fronte alla scarsa risonanza che le notizie provenienti dalla Cina ottengono negli Stati Uniti. Né tantomeno mi sorprendo quando la notizia tarda a provocare una reazione, come è accaduto nel caso dei dossier sulla sempre più fitta rete di campi di indottrinamento nella provincia cinese dello Xinjiang. E parlando di Hong Kong, la perdita del suo status speciale, con tutto ciò che ne consegue, passa facilmente per una notizia ormai vecchia, un fatto ormai compiuto.

Ma anche se non mi sorprendo, continuo a rattristarmi.

Mi ha rattristato la notizia dell’imminente processo a tre organizzatori di Occupy central with peace and love, il movimento di lotta del 2014 che ha poi dato vita alla rivoluzione degli ombrelli. I tre, due professori universitari e un reverendo di 74 anni, avevano organizzato manifestazioni di disobbedienza civile non violenta, iniziative che si presumevano più che lecite in un contesto di “un paese, due sistemi”. Eppure, tante persone che conosco non ne sanno niente, mentre il processo rischia di concludersi con una condanna a sette anni di prigione.

Mi ha rattristato il rapimento di un gruppo di autori e librai, colpevoli di aver pubblicato opere sulle vite private dei capi del Partito comunista cinese, un’altra vicenda che negli Stati Uniti non ha avuto grande risonanza.

Sono rimasto amareggiato quando, per la prima volta, non è stato prolungato il permesso di lavoro a un giornalista straniero che in seguito non è potuto ritornare nemmeno in veste di turista. Il suo unico “crimine” è di aver partecipato a una conferenza sgradita alle autorità cittadine, desiderose di compiacere Pechino.

“Ti ricordi di me!”.

Joshua Wong non è stato dimenticato. Ci sono persone, come me, che pur non essendo a Hong Kong lo ricordano e c’è ancora chi, nel suo territorio, ha bisogno di lui – o, per lo meno, di ciò che lui incarna. Probabilmente quel giorno sembrava triste perché solo pochissime persone avevano risposto al suo invito di unirsi in massa alla protesta. Nemmeno la partecipazione all’evento di due famose ospiti straniere – due Pussy Riot presenti nella regione per partecipare ad alcune manifestazioni per i diritti lgbt – è riuscita ad attirare più di un pugno di partecipanti.

Probabilmente non saprò mai a cosa stesse pensando Joshua quando mi ha detto quelle parole che mi sono rimaste così impresse. Sono piuttosto sicuro del fatto che non volesse né farmi ridere né farmi piangere. Eppure, con quelle quattro semplici parole, è riuscito a fare entrambe le cose.

(Traduzione di Mariachiara Benini)

Questo articolo è uscito su The Atlantic. Leggi la versione originale.
© 2018. Tutti i diritti riservati. Distribuito da Tribune Content Agency.

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