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La Cina ha mentito sul numero di vittime del coronavirus?

Un addetto della metropolitana di Wuhan ricorda di indossare le mascherine ed evitare assembramenti nel primo giorno di riapertura del servizio, 28 marzo 2020. (Getty Images)

Possiamo credere che la Cina abbia detto tutta la verità sul numero di vittime del coronavirus a Wuhan, la città dove a dicembre è partita l’epidemia? Considerando che inizialmente le autorità locali hanno nascosto l’esistenza della malattia, siamo certi che siano state trasparenti dopo l’introduzione delle prime misure di isolamento, lo scorso 23 gennaio?

I dubbi non tolgono nulla al successo ottenuto da Pechino nell’arginare l’epidemia. Ma non si tratta solo di una questione di accuratezza storica: il numero delle vittime ha condizionato il livello di consapevolezza del rischio degli altri paesi prima che l’epidemia superasse i confini cinesi. Ancora oggi il dato sui morti condiziona le analisi dei pericoli potenziali. In un momento in cui la Cina torna alla vita normale, i sospetti sono più forti che mai.

I dubbi sui dati forniti dalla Cina – 3.300 morti in tutto il paese, di cui poco più di 2.500 nella sola città di Wuhan – sono emersi dopo che l’Italia e poi la Spagna hanno visto impennarsi il numero dei decessi, superando nettamente quello della Cina. Oggi il Regno Unito contempla il rischio di 20mila vittime, una cifra che potrebbe essere molto più elevata negli Stati Uniti.

Poca vigilanza dell’Oms
Wuhan conta una popolazione di undici milioni di abitanti ed è la capitale di una provincia che, con sessanta milioni di abitanti, rivaleggia con i più grandi stati europei. La provincia è stata colpita drammaticamente dall’epidemia. Ricordiamo le scene degli ospedali al collasso, degli operatori sanitari disorientati e dei 12mila professionisti inviati sul posto dal resto della Cina.

Di conseguenza è strano constatare una simile differenza tra il bilancio registrato a Wuhan e quello dei focolai successivi. Come se non bastasse, un nuovo elemento ha appena alimentato i sospetti.

In un contesto come quello attuale sarebbe auspicabile più trasparenza da parte di Pechino

Alla fine della scorsa settimana, con l’uscita progressiva dall’isolamento, gli abitanti di Wuhan sono stati autorizzati a reclamare le urne funerarie dei loro cari. Migliaia di urne sono state recapitate nei crematori della città, in numero ben superiore a quello ufficiale dei deceduti. Per recuperare i resti di un congiunto bisognava fare fino a cinque ore di coda.

Questo mistero delle urne non costituisce una prova, ma non può essere ignorato. Tra l’altro anche il modo in cui le autorità cinesi hanno registrato le vittime è piuttosto discutibile. A Wuhan il metodo è stato cambiato sei volte, e qualcuno pensa che i defunti affetti da altre patologie non siano stati inseriti nell’elenco dei morti per coronavirus. Questa tesi era stata sostenuta dalla dottoressa Ai Fen, parte del gruppo che aveva dato l’allarme ed era stato ridotto al silenzio. Dopo aver concesso un’intervista esplosiva a una rivista cinese, Ai Fen è “scomparsa”.

Davanti alle cifre pubblicate quotidianamente si possono fare paragoni che sono molto approssimativi, perché i dati sono falsati o perché i metodi di rilevamento sono diversi. Oggi questo aspetto è meno importante, ma qualsiasi alterazione potrebbe aver avuto un effetto enorme nel momento in cui bisognava stabilire come interpretare l’epidemia in arrivo dalla Cina.

Il problema è che l’Organizzazione mondiale della sanità, da cui ci si aspettava un’attenta vigilanza, ha dimostrato una deprecabile compiacenza nei confronti di Pechino, rivelandosi non all’altezza del proprio ruolo. In un contesto come quello attuale, in cui Pechino si basa sui suoi successi per vantare i meriti del suo sistema politico, sarebbe indispensabile una maggiore trasparenza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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