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Le crisi in Ucraina o nel Sahel non si affrontano con le semplificazioni

Bamako, Mali, 3 febbraio 2022. (Nacer Talel, Anadolu Agency/Getty Images)

Ai tempi della guerra fredda – la prima, quella tra americani e sovietici – qualsiasi avvenimento era inquadrato attraverso il prisma di quella rivalità, al punto da dimenticare le peculiarità locali e storiche. Nella grande serie televisiva sulla guerra in Vietnam prodotta nel 2017 dalla Pbs, The Vietnam war, un ex funzionario statunitense riconosce che il principale errore commesso dal suo paese è stato quello di considerare solo la guerra fredda, senza comprendere perché i vietnamiti si battessero.

Oggi il mondo è minacciato dalla progressiva affermazione di un clima internazionale simile a quello di allora, con il rischio di commettere lo stesso errore: considerare i conflitti solo alla luce della rivalità tra potenze e dimenticarne le radici più profonde. Certo, le rivalità tra potenze esistono, oggi più che in qualsiasi altro momento dopo la caduta del muro di Berlino, trent’anni fa. Ma non spiegano ogni fenomeno e soprattutto, deformando lo sguardo, possono condurre a diagnosi sbagliate.

Il ritiro francese dal Mali annunciato il 16 febbraio è un buon esempio. La Francia arretra, la Russia avanza… Questa griglia di lettura ha il merito della semplicità ed evidentemente non è del tutto sbagliata, considerando anche l’arrivo dei mercenari della Wagner e la disinformazione filorussa lanciata sui social network. Ma non è sufficiente.

Strati di conflitti sedimentati
La situazione in Mali non può essere riassunta con la rivalità franco-russa, così come non si limita all’offensiva dei gruppi jihadisti all’opera da oltre un decennio.

Una crisi come questa nasce dalla sedimentazione di conflitti tradizionali tra allevatori e agricoltori, l’eredità coloniale, il fallimento delle forme di governo che si sono alternate dopo l’indipendenza del 1960 e naturalmente le influenze straniere, che hanno approfittato delle contraddizioni locali per rafforzarsi in una partita globale.

L’anno scorso, mentre Kabul cadeva in mano dei taliban, un ricercatore francese, Adam Baczko, ha pubblicato un libro chiarificatore, La guerre par le droit. Les tribunaux taliban en Afghanistan, in cui mostra come il sistema dei tribunali islamici dei taliban abbia preceduto la loro vittoria militare nella maggior parte del paese.

Il Mali offre l’opportunità di riconsiderare una modalità di intervento troppo segnata dal periodo coloniale e post-coloniale

In una parte del Sahel accade lo stesso. L’assenza degli stati, la loro disfunzionalità o la loro corruzione favoriscono le strutture parallele imposte dai nuovi arrivati, con regole brutali ma capaci di ristabilire l’ordine.

Quale conclusone possiamo trarre? Prima di tutto che bisogna diffidare delle griglie di lettura troppo semplici che portano a cattive scelte, come all’epoca della prima guerra fredda. Il fallimento maliano offre una buona occasione – in un momento in cui l’Unione europea rinnova la sua alleanza con il continente africano – per riconsiderare una modalità di intervento troppo segnata dal periodo coloniale e post-coloniale.

Ma soprattutto è necessario comprendere le dinamiche in atto nelle società del Sahel, nell’est dell’Ucraina o all’interno della complessità demografica taiwanese, per evitare le trappole della lettura unicamente improntata allo scontro tra le potenze.

Non è facile, soprattutto quando il principale strumento a disposizione è militare. Tutti conoscono la citazione dello psicologo americano Abraham Maslow: “Se l’unico strumento che hai in mano è un martello, ogni cosa comincerà a sembrarti un chiodo”. È un ragionamento che si applica perfettamente alla geopolitica.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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