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L’inizio della fine dell’utopia jugoslava

Vicino a Lubiana, 30 giugno 1991. Un convoglio federale bloccato dalle forze slovene. (Leo Erken, Laif/Contrasto)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia.

Quando la vita comune in un matrimonio diventa insopportabile, i coniugi decidono di divorziare. Dopo faticose e lunghe discussioni, formalità terribili e umilianti, si arriva a formalizzare la separazione ed entrambe le parti si trovano davanti un vuoto spaventoso. Il vuoto di un appartamento sgombro, il vuoto di un’amputazione, il suono vuoto del silenzio di quello che manca. E tutto questo nonostante nel rapporto ci fossero continui conflitti, perfino odio. Perché dove c’è odio, c’è amore, come si legge in qualsiasi romanzo. Questi erano i miei pensieri nel 1991.

Trent’anni dopo, penso che il romanzo di José Saramago La zattera di pietra sia una migliore metafora della disintegrazione della Jugoslavia rispetto ad Arcipelago Jugoslavia, il titolo scelto dal sito Traduki per questa serie di saggi sulla fine dello stato balcanico. Saramago racconta la storia della penisola iberica, dove una linea tracciata sul terreno con un ramo innesca grandi movimenti tettonici. La penisola si separa dal continente e diventa un’isola, una zattera di pietra alla deriva verso il mare aperto: i politici incompetenti e i ricchi si liberano (nascondono il ?) del denaro, gli alberghi abbandonati vengono occupati dai senzatetto. È il caos.

Qualcosa di simile è successo alla Jugoslavia: quando è diventata un arcipelago, i ponti sono crollati, i traghetti sono affondati, e perfino i fili del telefono e i cavi sottomarini che un tempo collegavano le isole sono stati tagliati. E tutto è rimasto così per lungo tempo.

Ora le navi viaggiano nuovamente e i cavi trasportano le comunicazioni.

Oggi posso parlare della Jugoslavia con metafore letterarie. All’epoca, nel 1991, le mie riflessioni erano più personali. Come poteva essere altrimenti, se fino a quel momento avevo passato tutta la mia vita nello stato che portava quel nome? Ho pensato molto al momento della rottura tra Slovenia e Jugoslavia, l’ho anche confrontato con esperienze estremamente personali, i racconti di amici e parenti che avevano vissuto traumi simili.

Le trattative sono già in corso, gli avidi coniugi stanno già mettendo i loro beni al sicuro. La ragione ci dice che è così che doveva finire, perché la Jugoslavia era da sempre uno stato fragile. Eppure ci avevamo trascorso le nostre intere vite.

Guardo alla Jugoslavia a volte con nostalgia, altre con rabbia. Con nostalgia per la sua incredibile diversità culturale; con rabbia per gli stupidi politici che l’hanno governata

Amo la Dalmazia, i ricordi sentimentali che associo alle sue notti bagnate dal vino, i profumi seducenti del Mediterraneo, la pietra fresca delle sue piazze e chiese, l’antichità, il Rinascimento, il silenzio nei giardini dei monasteri cattolici delle isole. Ricordo i fiumi della Bosnia, il dialogo culturale e religioso di Sarajevo, il trambusto del commercio orientale, il battere dei martelli sul rame nelle botteghe lungo le strade del centro. La Macedonia biblica, il suono della lingua sferragliante dei miei amici macedoni, piena di imprevedibili intuizioni, emotive e intelligenti. Il maestoso Danubio, Novi Sad, dove abbiamo celebrato fugaci bagliori di gloria teatrale alla musica dei mandolini e affogato nel vino gli altrettanto effimeri momenti di (immeritato) fallimento.

Ricordo Belgrado e la sua infinita vitalità, i profumi mattutini dalle sue tante piccole panetterie, i colleghi serbi con il loro umorismo nero e la loro autoironia, che oggi sembra svanita. E la Serbia del sud, Vranje, dove ho trascorso un anno intero – contro la mia volontà – facendo il soldato, e sperimentando, oltre alla vita in caserma, quella paradossale miscela di edonismo orientale e misticismo ortodosso: il dolce soffrire, la Morava, le canzoni slave accompagnate dai tamburi e dalla trombe d’oriente.

E infine – ma non è meno importante – ricordo la vicina Zagabria, che mai vorrebbe essere accomunata a Belgrado e tantomeno – dio non voglia! – alla Serbia meridionale. Zagabria, con gli occhi fissi su Vienna ed entrambi i piedi nei Balcani. Zagabria, che è già quasi Slovenia, eppure diversa; la sua storia, le scacchiere croate, il suo pugnace messianismo cattolico, centro di un mondo che difende la civiltà occidentale: Antemurale Christianitatis. Sì, anche Zagabria si sarebbe presto ritrovata in un altro stato, la Repubblica di Croazia. Con una punta di stupefatta vanità non posso fare a meno di pensare ai miei libri che in quegli anni erano sugli scaffali e nelle vetrine delle librerie di tutte queste città, in diverse lingue, alfabeti ed edizioni, e venivano rappresentati sui palcoscenici di teatri grandi e piccoli, dove gli attori donavano alle mie creazioni drammatiche l’intensità del corpo e dello spirito.

È davvero possibile che tutto questo sia andato perso? È questo quello che allora pensavo, scrivevo e dicevo.

Per le mie posizioni lo scrittore Predrag Matvejević mi definiva uno “jugonostalgico”, anche se poi specificava prudentemente “in senso culturale”. Aveva ragione. Lo ero e lo sono ancora, nel senso più stretto e in quello più ampio del termine. Anche se esclusivamente per amore della cultura.

Guardo alla Jugoslavia a volte con nostalgia, altre con rabbia. Con nostalgia per la sua incredibile diversità culturale e per i miei amici; con rabbia per la dittatura e per gli stupidi politici che l’hanno governata. Se la Jugoslavia fosse stata una democrazia, probabilmente non si sarebbe disintegrata. Ma era una dittatura, con un unico e infallibile leader al vertice e un potente apparato militare, poliziesco e burocratico.

Conoscevo persone che erano state internate nel gulag dell’isola di Goli Otok, altre che avevano perso i genitori per la violenza rivoluzionaria, e perfino gente che era finita in prigione per motivi politici, magari per una frase sbagliata, una battuta su Tito o qualche altro leader comunista.

Tutto questo lo capii solo negli anni della mia adolescenza, gli anni in cui un giovane sviluppa il cosiddetto buon senso, cioè la conoscenza e una certa visione del mondo. Lo scetticismo e la resistenza vanno di pari passo. Prima di allora, mi ero abbandonato alla felice illusione che fosse bello “essere giovani in patria”, come si cantava alle feste dei pionieri.

I politici jugoslavi non capivano che il mondo e l’Europa stavano cambiando

La Jugoslavia era una dittatura, anche se molto più libera di altri stati comunisti. Negli anni sessanta le frontiere vennero aperte e la gente scoprì che si viveva meglio che in Ungheria o in Cecoslovacchia. La cultura circolava abbastanza liberamente, la creatività era possibile. Altrove nell’Europa dell’est sarebbe stato difficile immaginare che – come succedeva a Lubiana o a Belgrado – le librerie esponessero opere di Solženitsyn, Kundera, Bunin, Camus o Orwell. Si pubblicavano riviste letterarie, molti testi stranieri venivano tradotti, i teatri erano aperti alla sperimentazione estetica e alla critica sociale. La cosiddetta “onda nera” (crni talas) del cinema jugoslavo è stata la più matura espressione di questo fermento artistico e ha offerto una decisa resistenza al monolitismo politico.

Tuttavia le frontiere aperte e le libertà culturali non erano sinonimo di libertà politica. Vivevamo in uno strano paradosso per il quale lo stato, con il suo sistema a partito unico e tutte le sue istituzioni, rimaneva comunque una dittatura.

I politici jugoslavi non capivano che il mondo e l’Europa stavano cambiando. E non si accorsero che l’economia stava collassando proprio a causa di quel sistema e di quella mentalità autoritari. Negli anni ottanta abbiamo provato a trasformare la Jugoslavia in uno stato democratico e confederato. Ma a causa dell’ottusità dei generali e di chi era al vertice del partito non è successo nulla.

La Jugoslavia si è disintegrata non solo a causa dei nazionalismi, delle differenze culturali ed economiche. Queste disparità hanno certamente avuto un effetto centrifugo, ma la colpa principale è stata della dittatura. Chi era al potere non ha capito che era arrivato il momento di cambiare. Ancora oggi credo che il grande stato jugoslavo non si sarebbe sgretolato se avessimo avuto un ordinamento democratico. E, se anche fosse successo, non sarebbe avvenuto in maniera così violenta.

La guerra è scoppiata prima in Slovenia, dove i carri armati dell’Esercito popolare jugoslavo sono usciti dalle caserme per difendere l’unità dello stato, poi in Croazia. In seguito poi si è scatenato l’inferno in Bosnia Erzegovina. Sono stato a Sarajevo durante la guerra e ho visto di persona cosa succedeva. È stata un’esperienza dolorosa. Ne ho scritto nel mio articolo di viaggio Kratak izvještaj iz dugo opsjednutog grada (Breve resoconto da una città a lungo sotto assedio). In quegli anni molti conoscenti e amici si erano allontanati, alcuni erano stati travolti dal vortice della guerra in cui avevano scelto di schierarsi da una parte o dall’altra

Alla fine degli anni novanta noi scrittori degli stati indipendenti nati dalla disgregazione di quella che allora era già “l’ex Jugoslavia” ci siamo incontrati alla fiera del libro di Francoforte e abbiamo passato tre giorni a discutere. Volevamo opporci a quella insensata distruzione di tutti i legami culturali, degli scambi e delle comunicazioni, in quel momento ancora completamente interrotte, tra le diverse isole dell’arcipelago. Abbiamo scritto una dichiarazione sulla necessità di rinnovare la cooperazione culturale sul territorio dell’ex Jugoslavia. Abbiamo inviato la dichiarazione con le nostre firme a tutti i principali mezzi d’informazione, da Lubiana a Skopje. Non c’è stata quasi nessuna risposta. In pochi hanno pubblicato la lettera. Qualcuno ci ha attaccati, ma la reazione più comune è stata: “Chi si credono di essere questi artisti?”. Nessuno era interessato, tutti si concentravano sulla vita nelle loro isole. Una vita che scorreva sullo sfondo di una feroce lotta per accaparrarsi denaro e potere, ovviamente combattuta su ogni isola separatamente e accompagnata da massacri politici interni: più o meno quello che i tedeschi chiamano Selbstzerfleischung (“autoinfliggersi una ferita”).

La sorpresa del futuro
Nonostante l’avversione che provavo verso l’apparato di partito jugoslavo, appena cominciò la disgregazione dello stato capii che non sarebbe stato facile vivere esclusivamente tra i miei amati sloveni, in cammino verso l’Europa, biascicando frasi “all’europea”, circondato da rozzi imprenditori e cantanti affettati, incastrato tra saccenza e lingue affilate, tra risentimento e schadenfreude. Uno scrittore conosce il suo ambiente e le sue debolezze. Ma questa era solo una parte del problema: quello che ci aspettava era una sorpresa ancora più grande. Almeno per noi che pensavamo che la democrazia fosse la cura magica per tutti i tipi di problemi sociali.

Non so con certezza cosa avessimo in mente. Certamente un sistema parlamentare, insieme a libertà di stampa e di parola e prosperità economica. Prima che fossimo veramente consapevoli di ciò che stava accadendo, siamo entrati in un’epoca che quelli di noi che chiedevano la democrazia non capivano affatto. A un certo punto ho scritto: “Sognavamo la democrazia e ci siamo svegliati con il capitalismo”. E che capitalismo! Non il normale capitalismo, ma il “capitalismo di transizione”. Anni selvaggi, che hanno lasciato molte persone impoverite, sole, smarrite. Non solo in Slovenia e nelle altre repubbliche dell’ex Jugoslavia, ma in tutta l’Europa orientale.

I beni materiali o “sociali” dovevano avere un proprietario, la “privatizzazione” seguiva il suo corso: per questo processo i russi inventarono la parola “prichvatizacija” (una sorta di privatizzazione spontanea, che favorì i membri del vecchio establishment politico). In Slovenia, nell’ex Jugoslavia e negli altri paesi dell’Europa dell’est, noi gente di penna e di libri non pensavamo troppo al fatto che il capitalismo si basa su regole proprie, e che i proprietari del capitale possono influenzare la politica, i giornali, l’intera vita sociale e perfino la cultura. E neanche al fatto che la democrazia è fragile perché c’è sempre qualcuno che vuole appropriarsi di quanto più potere economico e sociale. Naturalmente, a scanso di equivoci, continuo a pensare – per citare Churchill – che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate fino ad ora”. Ma la vita nel nuovo mondo non era esattamente facile da capire.

Improvvisamente si viveva in un universo sconosciuto: si vedevano i primi i nuovi ricchi, che avevano fatto fortuna attraverso privatizzazioni semi-criminali, le differenze sociali si allargavano, il dibattito politico diventava brutalmente demagogico. La vita democratica aveva portato non solo la libertà di espressione, ma anche la libertà di esprimere rancore, rabbia e invidia. In parte tutto questo era dovuto al cosiddetto “carattere nazionale” delle piccole nazioni, dove la gente preferisce preoccuparsi solo di se stessa piuttosto che del mondo che la circonda. A questo si aggiungeva la selvaggia corsa al materialismo messa in moto dalla transizione: apparvero magnati di ogni genere – alcuni rozzi, altri più raffinati – ed emerse un nuovo strato di poveri, che riuscivano a malapena a sopravvivere. La politica di ogni colore, con l’aiuto dei mezzi d’informazione, sfruttava le sofferenze della guerra appena finita e le ferite ancora aperte per consolidare il potere dei nuovi governanti di ogni singola isola.

L’arrivo di internet, e con esso le discussioni e le parole di saggezza riversate nei forum online, ha messo a nudo questo caos demagogico e tutta la sua intolleranza. Per i più saccenti, spesso brutali, ignoranti, e pronti a ferire, non solo a parole, è stato un trionfo.

Negli anni novanta e all’inizio del nuovo secolo ho speso molte energie per scrivere testi giornalistici che criticavano questi sviluppi e il nuovo clima d’intolleranza nella società. Poi ho capito che i mulini a vento erano veri e potentissimi, e avrebbero potuto sbattermi a terra in qualsiasi momento. Ho così rinunciato a ogni forma di impegno sociale per dedicarmi esclusivamente alla letteratura.

Cos’è rimasto per me? E per tutti noi?

Del passato, sicuramente i ricordi di una vita comune; per il futuro, abbiamo l’utopia europea. Noi che abbiamo vissuto in Jugoslavia, abbiamo paura che l’Europa possa seguire lo stesso destino della nostra vecchia patria. Dopo tutte le dolorose esperienze del novecento, le guerre, i conflitti ideologici e tra stati, questa grande alleanza politica è stata la cosa migliore che ci potesse capitare. Ora, però, sembra che il progetto europeo stia di nuovo attraversando un periodo di crisi.

Spesso mi chiedono se penso che le frontiere saranno chiuse di nuovo, che l’Europa sia sull’orlo della disintegrazione. Se quello che è successo alla Jugoslavia potrebbe succedere all’Unione europea… Credo che il paragone sia sbagliato, perché proprio grazie a valori come i diritti umani, la libertà di espressione e le frontiere aperte in Europa è ancora possibile discutere. In Jugoslavia a un certo punto non è stato più permesso. Nonostante la crisi del covid-19, le recessioni economiche, il terrorismo islamista e la cosiddetta crisi migratoria, gli europei non si lasceranno privare della libertà e della democrazia.

Quando penso all’Europa di oggi, penso spesso anche alla mia vita in Jugoslavia e alla vita dell’arcipelago jugoslavo dopo il 1991. Sto scrivendo queste righe in tempo dilockdown; la libertà di movimento è limitata e ogni giorno la tv c’informa sul numero di nuovi casi e di morti da covid-19. Viviamo nell’incertezza, guardiamo al futuro con paura. A volte mi sembra che abbiamo raggiunto la fine di tutte le utopie: è come se fossimo entrati in una distopia. Forse tutto è cominciato con la caduta delle ideologie del novecento, idee in cui la gente credeva fermamente. Rivoluzioni sociali, sogni di grandezza nazionale, il trionfo della “nostra” fede sulla “loro”. E anche l’utopia jugoslava. La gente era pronta a sacrificare la vita per questi ideali: la propria, ma soprattutto quella degli altri. Con il suo pragmatismo e il valore attribuito ai diritti umani, l’Europa sarà anche una causa più modesta, ma per noi è rimasta una piccola utopia parzialmente realizzata in cui possiamo ancora credere. O, per lo meno, io ci credo.

In questa situazione gli scrittori rimangono ai margini: da tempo non sono più un’autorità morale; non ci sono Tolstoj o Camus, certamente non in tempi di internet, dove tutti sanno tutto e chiunque può dire qualsiasi cosa.

Così me ne sto in disparte, osservo la vita, ne scrivo. Alla fine del viaggio trentennale che dalla Jugoslavia ci ha portati in un mondo sconosciuto e diverso, in una fase d’incertezza per l’Europa e per il mondo, tra quarantene, lockdown, restrizioni e mascherine sul volto, io aspetto: non più di qualcosa di nuovo (forse ne avrei paura), ma un ritorno alla vita normale. In questi trent’anni ho viaggiato molto spesso dalla mia isola slovena verso le altre isole dell’arcipelago jugoslavo, soprattutto per presentare i miei libri. Ma ho smesso di occuparmi delle tempeste politiche che si verificano all’interno di quelle isole e tra loro.

Di recente ero seduto in un caffè di Belgrado con un amico più giovane, il poeta ed editore Gojko Božović, che ha pubblicato il mio ultimo romanzo. Non abbiamo parlato quasi per niente di politica. Le distanze tra le isole sono aumentate così tanto che ormai è difficile comprendere quello che succede lontano dalla propria esperienza. Tuttavia abbiamo parlato molto della diversità e della forza artistica delle opere letterarie che entrambi avevamo letto. La casa editrice di Gojko si chiama Arhipelag. Sono convinto che abbia scelto questo nome perché i suoi libri offrono una grande ricchezza di maestria letteraria, un’interessante varietà poetica, diverse esperienze di vita e una grande vastità di paesaggi fantastici.

Questo è l’arcipelago letterario sul quale ora vivo anche io. In un’epoca in cui si riesce a malapena ad andare al supermercato più vicino – e anche qui, solo indossando la mascherina – mi consente di viaggiare ovunque. A volte anche nel passato, perfino nella mia giovinezza, quando vivevamo ancora fianco a fianco prima di essere trascinati via, ciascuno sulla sua isola. Come successe alle persone che si trovavano sulla zattera di pietra di Saramago.

(Traduzione a cura di Voxeurop)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia. In collaborazione con Voxeurop.

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