14 settembre 2021 13:08

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia.

L’era del mio cataclisma personale è cominciata il 21 aprile 1992. Quel giorno estremisti serbi armati, sostenuti dall’ex armata popolare jugoslava, attaccarono Bihać, la mia città, in Bosnia Erzegovina. Erano i nostri “vicini”, concittadini, che si erano ritirati dalla città in un’azione concertata per attaccarci dalle montagne circostanti. L’attacco a Bihać era cominciato anche prima, perché il 21 aprile molte città al confine orientale con la Serbia (che allora si chiamava ancora Jugoslavia) erano già state distrutte. Nel momento in cui Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina lasciarono la Jugoslavia, lo stato cessò nominalmente di esistere nelle nostre menti. Si era rivoltato contro di noi, noi che l’avevamo amato e che avevamo contribuito al suo successo in ogni modo possibile.

Ogni cittadino della Bosnia Erzegovina porta questi due orologi, queste due cronologie, nel profondo della coscienza, nella mente, nel corpo e nel cuore.

Il primo orologio ha cominciato a ticchettare nel momento in cui tutto è cominciato ufficialmente; il secondo è un orologio più importante, più personale, che misura il tempo dal momento in cui siamo stati cacciati dalle nostre case. Misura il tempo da quando siamo diventati rifugiati, o conta le ore dalla nostra ferita personale, come la morte in guerra di qualcuno a noi caro. Alcuni orologi fanno il conto alla rovescia fino all’ora della nostra morte. Nella mia città gli orologi di cinquecento soldati ticchettano finché noi, i sopravvissuti, saremo in vita. Finché ricorderemo i nostri amici, parenti e compagni di lotta che abbiamo perso.

È impossibile mettere nero su bianco quello che si misura con questo orologio personale. Ci provo da vent’anni, da quando ho cominciato ad apparire in pubblico come scrittore. Ma so di aver appena superato il punto di partenza. La tragedia di una sola persona è già indescrivibile, e qui stiamo parlando delle tragedie di centinaia di migliaia di persone.

Questo orologio personale è un orologio apocalittico. Ogni persona ne ha uno. La guerra è l’apocalisse, nessuno ce lo disse quando scoppiò. Così come nessuno, dopo la guerra, ci disse che vivevamo nell’era post-apocalittica. Tutto ciò che avevamo per definire il tipo di società in cui vivevamo era un termine tecnico – “società post-bellica” – assegnatoci da persone ben intenzionate, residenti all’estero.

L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno

La fredda terminologia del linguaggio accademico non cattura tutte le implicazioni dell’orologio apocalittico. Non ne riconosce neanche l’esistenza perché il termine “società post-bellica” vede delle “parti in guerra”. E non in tutte le guerre ci sono delle parti che combattono tra loro ad armi pari: a volte ci sono solo aggressori e aggrediti. Per questo il termine è sbagliato, così come è sbagliato e vergognoso parlare di “guerra civile”, come i benintenzionati stranieri hanno descritto la nostra guerra, la nostra apocalisse.

L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno. Il momento in cui tutto ciò che è spaventoso, anormale e terribile diventa normale, socialmente accettabile, perfino desiderabile.

Quest’apocalisse avviene prima dell’effettiva distruzione fisica. Avviene silenziosamente, invisibilmente. Il lettore attento di giornali può intravederne i segni. Troppo spesso comincia con la disumanizzazione di certi gruppi sociali, individui o interi popoli.

La storia di Željko Sikora
Per esempio, prima dello scoppio della guerra del 1992, il giornale Kozarski Vijesnik di Prijedor (città teatro di pulizia etnica) aveva pubblicato una serie di articoli che disumanizzavano i residenti di nazionalità bosniaca, croata e altre. Kozarski Vijesnik e Radio Prijedor pubblicarono servizi su un ginecologo tirocinante, il dottor Željko Sikora, che secondo i loro giornalisti aveva “eseguito aborti su donne serbe incinte di maschi e castrato neonati serbi”. Nonostante fosse di etnia ceca, il medico era considerato un croato, poiché i nazionalisti serbi di allora equiparavano tutti i croati agli ustascia (come si chiamavano i fascisti croati durante la seconda guerra mondiale).

Il quotidiano di Belgrado Politika Ekspres lo soprannominò “il medico mostro”. Il dottor Sikora, insieme a due dottori di nazionalità bosniaca, è citato nel rapporto ufficiale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia alla Commissione di esperti dell’Onu sotto il titolo “Prove indiziarie di autori di trattamenti disumani di civili a Prijedor 1989-1992”. Il loro crimine principale sarebbe stata la “soppressione sistematica del tasso di natalità tra la popolazione serba nel distretto di Prijedor per mezzo della castrazione dei neonati di nazionalità serba. … Hanno usato una serie di farmaci ed esperimenti per sterilizzare i bambini nell’ospedale di Prijedor, e deliberatamente sbagliato la diagnosi degli adulti di nazionalità serba e somministrato i farmaci sbagliati”.

Il risultato di queste accuse fatte circolare sui mezzi d’informazione fu che Sikora morì assassinato nel campo di concentramento di Keraterm, un destino a cui andarono incontro altre migliaia di suoi concittadini dall’appartenenza etnica “sbagliata” in altri campi. Il suo corpo fu trovato vicino a un cassonetto. Prima di essere ucciso era stato picchiato ogni giorno.

Il giornale Kozarski Vjesnik esce ancora. Se cercate Željko Sikora nell’archivio, non troverete informazioni su di lui. Željko era l’ultimo discendente maschio della sua famiglia. Non è mai stato trovato uno straccio di prova per i suoi “crimini” né è mai stato processato. Ancora oggi il suo nome non è stato riabilitato.

La disumanizzazione e la demonizzazione di gruppi, individui e interi popoli avveniva molto prima dello scoppio della guerra. L’obiettivo era preparare la gente comune a considerare gli omicidi, i massacri e infine il genocidio come eventi perfettamente normali.

Condizione permanente
Sono diventato rifugiato la prima volta il 21 aprile 1992, e non credo che smetterò mai del tutto di esserlo, perché questa condizione non è solo uno status indicato in qualche documento della Croce Rossa: è la sensazione, nel profondo, di non appartenere a niente e a nessuno. Amo la terra in cui vivo, ma non come uno stato, solo come la terra: la somma dei suoi paesaggi e delle sue bellezze naturali.

Diventare rifugiato è totalmente indolore, ma ci sono parti invisibili di sé che continueranno a provare terribili dolori fantasma per anni. “Dolore da arto fantasma” è il termine medico per indicare il dolore che si avverte dove c’era un pezzo di corpo che non abbiamo più, come una gamba o un braccio amputati. Noi siamo stati amputati delle nostre vite precedenti alla guerra e questi dolori li porteremo con noi fino alla tomba.

Ci si confronta con la storia della propria vita e la si deve accettare, come tutte le cicatrici sul corpo e sull’anima. In questo modo si può continuare ad andare avanti, perché in guerra l’unica cosa che non può essere distrutta da una granata d’artiglieria è la vita stessa. Il desiderio di vita è più grande e più forte di tutto il resto. Così ho preso un’arma e sono diventato un soldato.

Quando intervengo a eventi letterari in altri paesi mi viene spesso chiesto se combattevo da volontario. Ogni volta la risposta è problematica: come spiegare che sono stato cacciato dalla mia casa, dalla mia strada e dal mio quartiere solo perché i miei occhi erano di colore diverso? Naturalmente sono stato io a decidere di prendere un’arma, che in realtà era solo una pistola, dato che nell’aprile del 1992 non avevamo una grande dotazione. Il mondo esterno, sotto la forma delle Nazioni Unite, aveva imposto un embargo sulle armi al nostro paese, abbandonandoci a un nemico armato fino ai denti.

Siamo stati le cavie nello sviluppo dell’islamofobia su scala globale che vediamo all’opera ancora oggi

La ragione per cui venimmo piantati in asso fu che la propaganda nemica era stata molto efficace nel ritrarci come un elemento estraneo al corpo dell’Europa. Siamo stati etichettati come musulmani assetati di sangue, la minaccia verde, mujahidin, anche se molti di noi erano atei, laici, jugoslavi, bosniaci, di sinistra, cosmopoliti, new wavers, punk e così via. Queste identità sono state uccise e sepolte. E intanto alcuni politici europei parlavano della “dolorosa ma realistica restaurazione dell’Europa cristiana”. Siamo stati le cavie nello sviluppo dell’islamofobia su scala globale che vediamo all’opera ancora oggi.

Non ero un volontario, prendere le armi non fu una questione di libero arbitrio: fui costretto a combattere per la sopravvivenza. Nell’aprile del 1992 eravamo circondati da tutti i lati: non era possibile fuggire dalla guerra e fare il pacifista saccente che sentenziava sulle parti del conflitto da una distanza di sicurezza.

Ho scritto poesie, racconti, un romanzo e molti articoli sulle mie esperienze di soldato, e sarebbe superfluo ripetere tutto. Facevo parte dell’esercito della Bosnia Erzegovina, non di un esercito “musulmano” come ci chiamavano i nostri nemici e gli osservatori internazionali negli anni tra il 1992 e il 1995. A un certo punto sono stato gravemente ferito al piede sinistro e ho passato sei mesi con le stampelle. Poi sono tornato alla mia unità, riprendendo i compiti che avevo svolto prima di essere ferito. Sono diventato capo del mio plotone e verso la fine della guerra guidavo 130 uomini in azioni offensive. Come la maggior parte delle persone in Bosnia Erzegovina, soffrivo di Ptsd, disturbo da stress post-traumatico, i cui effetti si fanno sentire a guerra finita. Ho ricevuto diverse decorazioni per le mie imprese militari, durante e dopo la guerra.

Quando la guerra è finita ho cercato di tornare quello che ero prima, uno studente di veterinaria al terzo anno. Ma ci rinunciai e m’iscrissi alla facoltà di lettere. Cominciai a scrivere ogni giorno su una macchina da scrivere Olympia Monica del 1967. Volevo diventare uno scrittore, e ci sono riuscito.

Il manoscritto del mio romanzo Cimetna pisma (Lettere alla cannella) contiene il seguente passaggio, che illustra il tipo di mondo in cui vivevamo dopo che la guerra era finita, solo sulla carta:

Non era un bar in rovina, o almeno, non lo era ancora diventato. Lo chiamavamo il Cubo Magico, non perché fosse a forma di cubo, tanto meno magico, ma perché suonava bene.

Ci andavamo tutti i giorni, per la terapia quotidiana e notturna. L’intera città era un enorme bar in rovina all’aperto, mentre il Cubo Magico era ordinato, pulito e abbastanza nuovo. Non so dove il capitano avesse trovato gli arredi e le attrezzature necessarie, ma erano lì, splendenti come i soli perduti da tempo di una pace o di un’altra.

I camerieri dovevano avere i nervi d’acciaio perché la nostra prima guerra era appena finita. Non potevamo sapere che questa era solo la prima. Chi poteva indovinare cosa sarebbe successo una volta che avessimo ricostruito completamente tutto quello che c’era da ricostruire? Prima abbiamo rattoppato le case. Il lavoro di ricostruzione delle nostre persone procedeva invece lentamente. I danni invisibili erano più difficili da riparare. I pezzi di ricambio per la ricostruzione interna non erano disponibili, perché il resto del mondo ci aveva temporaneamente escluso dal funzionamento moderno della civiltà. E alla guerra segue la corruzione e la continuazione della guerra con mezzi pacifici; il nazionalismo prolifera come un’erbaccia ed è difficile da imbrigliare. Alcune cose accadono dietro le quinte. Le nostre scene sono rovine piene di cenere fredda, c’è qualcosa che va oltre la nostra volontà e che cresce, anche se non gli prestiamo attenzione perché siamo completamente occupati dalle nostre ferite.

Le ferite contano, ed è importante prendersene cura, sia le nostre sia quelle della città. Il fatto che non abbiamo prestato attenzione all’odio non significa che non abbia lavorato in silenzio. Gli orrori della guerra ci hanno curato dall’odio. Ma chiunque abbia sperimentato la guerra sa che l’odio è instillato nelle persone per facilitare obiettivi diversi del conflitto: la lotta per il territorio e la ricchezza che ne deriva.

In molte persone l’odio c’è già e non ha bisogno di essere istigato. Il male ha nome e cognome, colore degli occhi, dita, peli sul petto, voglie, nei, cicatrici. Il male è familiare, ama i bambini, il male è socievole, frequenta i bar, ha un grande sorriso e ancora tutti i denti. Questo è il male grigio, piccolo-borghese. C’è anche un altro male, un male ubriaco, un lumpenproletariat a cui mancano i denti. Il male è difficile da classificare in modo chiaro, sfida la descrizione e la classificazione.

Il male non è mai banale.

Abbiamo bevuto nel Cubo Magico; non desideravamo altro, non riuscivamo a pensare a nient’altro che avremmo dovuto o potuto fare. Non c’erano psicologi o psichiatri che andavano in giro con pillole magiche per guarirci. Non c’era nessuno per strada, a parte noi e i cani randagi che, percependo il ritorno del calore umano, erano venuti a scaldarsi. Non pensavamo di aver bisogno di medicine: come avremmo potuto, visto che non ci consideravamo malati? Non eravamo malati, erano solo i tempi.

Nessuno di noi sapeva cosa significasse l’acronimo Ptsd. Abbiamo semplicemente seguito il flusso del tempo di pace. Le infinite discussioni nel Cubo Magico. E forse anche questo ci guariva, perché ricordo un momento in cui lo Xanax non funzionava, in cui non mi aiutava quando sentivo il calore salire dalla pancia al petto e alla testa, un’energia feroce che mi faceva temere di prendere fuoco e illuminare la stanza, solo, nascosto da qualche parte nel centro artigianale devastato, illuminato dalla luce della luna, all’ombra dell’edificio di culto esploso, con la sua torre che puntava verso la terra e verso gli inferi.

Più la vita riprende il suo corso normale, più la paura della morte occupa spazio. Lasciati a noi stessi, abbiamo risolto il problema con l’alcol e le droghe leggere quando i farmaci hanno smesso di funzionare. Pensavamo che la ricerca sfrenata del piacere ci avrebbe riportato più facilmente alla normalità civile.

Se sei sopravvissuto a una guerra, è meglio allontanarsi immediatamente da quella parte del mondo e non tornarci più. Perché nessuno ce l’aveva detto? Ma anche se qualcuno l’avesse fatto, non gli avremmo creduto. Avremmo continuato a fare le nostre cose.

Dove finisce e dove comincia la nostra prima guerra? Questa è una domanda che ci siamo fatti spesso, finché non abbiamo perso la voglia di farcela.

A salvarmi è stato l’amore, la forte convinzione della vita come un ordine significativo delle cose nel tempo e nello spazio, quando il tempo e lo spazio erano ancora lineari. Perché con le prime granate, il tempo e lo spazio e tutte le altre dimensioni avevano perso la loro innocente rettilineità. Abbiamo cercato di riparare il danno che era stato fatto al corso lineare del tempo, dello spazio e di tutte le altre dimensioni, ma non ci siamo riusciti. Volevamo essere individui lineari in un mondo non lineare. Non ha funzionato. Anche se avessimo saputo che in futuro sarebbe diventato di moda apprezzare gli oggetti vintage, la poetica vintage, lo stile retrò, non ci saremmo comunque considerati dei pionieri perché le nostre vite non erano un genere alla moda. Si può piangere il presente solo quando si è perso tutto, quando il proprio tempo e spazio sono stati irreversibilmente annullati. Non eravamo hipster, anche se ci piacevano le cose vintage e insolite.

È vero che dall’estero arrivavano persone che offrivano corsi su come continuare a vivere dopo l’apocalisse, ma io non li prendevo sul serio, quasi nessuno lo faceva. Come potevano sapere come avremmo dovuto vivere, quando loro stessi non erano mai sopravvissuti a una guerra?

Questo estratto mostra come l’orologio apocalittico continua a ticchettare anche dopo che l’apocalisse è ufficialmente finita. Continua a fare il suo lavoro. Sopravvivere a un’apocalisse è più che sopravvivere fisicamente alla guerra e alla distruzione intorno. Molte persone credono solo di essere sopravvissute, in realtà la guerra le ha svalutate nella loro essenza e gli ha reso impossibile continuare a vivere in tempo di pace. Sono zombie di guerra, perché non riusciranno mai a tornare indietro dalla guerra, che domina le loro menti, i loro nervi.

Il mio orologio apocalittico segna il 29° anno dall’inizio della mia guerra personale. Ho imparato a vivere con il suo ticchettio. Questo orologio è una parte di me e non mi disturba, perché posso scriverne. Mi sono sincronizzato con il suo ticchettio.

Pochissime persone hanno questa fortuna, ma in qualche modo riescono a sopravvivere agli orrori della pace, perché sappiamo che la vita è più grande e più forte di ogni male, più grande e più forte della distruzione e dell’apocalisse di qualsiasi tipo.

Oh, e nel caso qualcuno si chieda se ho ucciso: sì, ho ucciso soldati nemici in combattimento ravvicinato sul campo di battaglia. Senza rimorso. Purtroppo la guerra è l’occupazione più antica dell’umanità. Quelli che sopravvivono possono raccontare storie, scrivere. Chi non ha esperienza di guerra o fuga, nessuna esperienza traumatica, ha il grande privilegio di ascoltare i sopravvissuti, affinché non ci sia mai più la guerra, per nessuno. Questa è una speranza utopica, che forse un giorno si avvererà. È un’utopia in cui credo fermamente.

(Traduzione a cura di Voxeurop)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia. In collaborazione con Voxeurop.

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