08 ottobre 2021 11:28

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia.

Mio padre non è una persona particolarmente socievole. Non ama fare conversazione, non parla spesso e, quando lo fa, è di poche parole. Non parlò nemmeno quel giorno di settembre del 1990: tornato a casa dal lavoro, scomparve nella sua stanza, in silenzio.

Non è sempre facile capire quando qualcuno che ci è vicino sta avendo un esaurimento nervoso, specialmente se si tratta di una persona riservata come mio padre. Ingegnere meccanico, all’epoca era a capo del dipartimento di energia della fabbrica Metaliku, nei pressi di Gjakova, una città del sudovest del Kosovo vicina al confine con l’Albania. Anche mia madre lavorava a Gjakova, in un’azienda tessile. Quell’autunno furono entrambi licenziati per aver rifiutato, come migliaia di altri lavoratori, di firmare una dichiarazione di lealtà alla Serbia.

I miei genitori sono nati all’inizio dell’esperimento della Jugoslavia; quando sono nata io, quell’esperimento era sul punto di fallire. Tutti e tre abbiamo sperimentato la bolji život (la “vita migliore”), come la chiamavano gli slavi. La Jugoslavia socialista, un progetto che includeva diversi popoli balcanici, gli avrebbe dato una bella vita, una “vita migliore”, per decenni. Nonostante i gruppi etnici più piccoli, come gli albanesi, fossero l’eccezione, anche io e i miei genitori abbiamo potuto gustare un assaggio dell’idillio slavo. Mio padre e mia madre erano ispirati dal famoso motto di Tito secondo cui la pace sarebbe durata cent’anni. La mia generazione, al contrario, ha vissuto nel timore costante che una guerra potesse scoppiare a ogni momento. E così è stato, in ogni momento, e ogni volta sotto una forma diversa.

Testamenti di pietra
La bolji život non era per i kosovari albanesi: gli anni novanta avrebbero spazzato via gli slogan sulla fraternità e su un progetto di pace condiviso. L’antica fraterna solidarietà diventò un ricordo, sostituita da un’aperta ostilità. Stranamente questo ricordo è con noi ancora oggi, rappresentato dal Monumento alla fratellanza e all’unità che sorge nel cuore di Pristina, la capitale del Kosovo, anche se l’opera oggi è interpretata diversamente: la gloria di qualcuno è la vergogna di qualcun altro. Mio figlio di nove anni trova il monumento strano e brutto. Ancora di più si stupisce per il vecchio nome del palazzo degli sport: Boro e Ramiz. Gli racconto la storia dei due partigiani, uno serbo, l’altro albanese, entrambi eroi nazionali in Jugoslavia. Gli parlo del loro senso di fratellanza, considerato il simbolo dell’unità tra i due popoli. Mio figlio alza le mani, perplesso.

La mastodontica architettura comunista, dall’aspetto quasi sacro, si mescola alla vita di tutti i giorni di abitanti e turisti, un connubio decisamente strano per i giovani come mio figlio. Questi edifici, simili a testamenti di pietra, unico lascito del mito della fratellanza, hanno ancora un grande potere: forse perché la fine di quel mito causò violenze e disastri, e il suo ultimo respiro ci sta trascinando, lentamente ma inesorabilmente, nell’oscurità.

Quel giorno di settembre del 1990, il giorno in cui le vite dei miei genitori crollarono come un castello di carte, fu un’altra discesa negli abissi. Mia madre ne parla ogni tanto: racconta di come le fatiche e le speranze di una vita furono distrutte in una sola notte. I miei genitori non si sono mai ripresi: le loro vite hanno perso per sempre ogni prospettiva di struttura e continuità.

Dal 1974 il Kosovo era una provincia autonoma all’interno della Repubblica federale di Jugoslavia. Nella primavera del 1989 il Kosovo perse questo status e finì sotto il controllo diretto dello stato di polizia serbo. Le vite dei miei genitori e la mia infanzia furono stravolte. Sotto lo stato d’emergenza non si poteva più pensare di vivere una vita normale. La “vita migliore” era ormai un concetto superato.

Ero giovane e non capii subito quanto il cambiamento fosse serio. Però vidi cambiare la mia routine. I miei genitori passavano più tempo a casa, la nostra libertà di movimento si riduceva, tanto le passeggiate nel fine settimana quanto la qualità dei pasti. Tutto cominciò a diminuire, inclusa la popolazione. Molti kosovari lasciarono la madrepatria per trasferirsi in Europa occidentale o ancora più lontano, dall’altra parte dell’oceano. Mio padre, invece, rifiutò categoricamente di prendere in considerazione l’ipotesi della fuga. Sarebbe rimasto fedele alla sua terra e non l’avrebbe mai lasciata. Aveva un legame profondo con la sua terra d’origine, poco evidente dall’esterno, ma radicata nella sua travagliata storia familiare. Suo nonno era stato ucciso dai partigiani e suo padre era stato portato alla rovina dai comunisti, che l’avevano costretto a cambiare città.

Quello che c’era lì fuori, oltre i confini della nostra minacciosa realtà, era un mistero per me, che stavo imparando a vivere nel mio piccolo mondo

Lo stato d’emergenza e le misure adottate dalla polizia ci colpirono duramente. Nelle nostre lunghe riunioni familiari della domenica sera mio padre, cercando di mantenere una vita il più normale possibile anche in quei tempi nefasti, si rifugiava nei ricordi dei suoi anni da studente a Zagabria. Ci raccontava storie di quelli che considerava gli anni più felici della sua vita o dei suoi viaggi in Europa negli anni settanta e ottanta, quando i kosovari albanesi che potevano permetterselo erano liberi di viaggiare. Erano le uniche storie che amava raccontare e io adoravo ascoltarle. Mi insegnarono l’origine dell’amore di mio padre. Sentendolo parlare, sognavo altre vite, altri luoghi, altri mondi. Quello che c’era fuori, oltre i confini della nostra minacciosa realtà, era un mistero per me che stavo imparando a vivere nel mio piccolo mondo. Non viaggiavamo più: andavamo in vacanza solo una volta all’anno, a Ulcinj, sulla costa montenegrina, dove avevamo una casa per l’estate.

Bandiere di ieri
Nella mia immaginazione, quel mondo e quei posti sconosciuti erano splendidi. Non ho mai osato chiedere dove fosse il confine. Ce n’erano così tanti, visibili e invisibili: confini politici, economici, linguistici, culturali. Il resto del mondo rimaneva sconosciuto e io diventai un’instancabile sognatrice.

Anche sognare era un “crimine”, ma nessuno poteva impedirmelo e io tenevo i miei sogni per me. Il sogno della libertà era un bellissimo tessuto di seta. Il sogno della rivolta nazionale, invece, un tessuto strappato e rammendato. Il Dio della giustizia è stato scorretto nel darci sogni così grandiosi, perché alla fine sono rimasti tali. Li ricordo ancora oggi: mi sembravano così reali a quell’epoca nelle strade dove si protestava. Ho sognato la libertà sui cigli delle strade, nella piazza principale, in mezzo a gruppi di migliaia di persone che manifestavano, come soldati, senza bandiere. Ho creduto a quei grandi uomini che chiamavano noi bambini “piccoli eroi del futuro”, sventolando la libertà di domani dai margini delle strade di ieri.

Scendere per strada significava affrontare la realtà dell’oppressione: era lì che l’impotenza di una bimba di dieci anni incontrava il dramma di una nazione. Fu una delle esperienze più potenti della mia infanzia: un turbine di emozioni fatto di ribellione, orgoglio e paura. Ho tenuto insieme il mio sogno con degli slogan (”Libertà! Democrazia!” o “Repubblica del Kosovo!”) finché, a fine giornata, lo vedevo nuovamente ridursi a brandelli mentre, delusi, ce ne tornavamo a casa. In mezzo a questa confusione, sognavo la grande rivoluzione che avrebbe portato la pace, senza mai sospettare che un’infanzia vissuta in un’epoca così tesa e drammatica avrebbe reso complicata, perfino distorta, la pace successiva. Ero una bambina che viveva in una guerra senza fine, chiedendosi ogni giorno quale nuova guerra sarebbe scoppiata l’indomani.

La vita instabile
Per quanto questi sogni grandiosi fossero ormai lontani dalla nostra vita quotidiana, a casa mia andava tutto bene, almeno finché c’era da mangiare. Dopo il licenziamento mia madre faceva la casalinga mentre mio padre si occupava di una piccola fattoria con un pollame nei terreni del nonno. Nei periodi di tregua i commerci continuavano. Quando saliva la tensione gli affari andavano avanti a tentoni e sulla tavola mancava da mangiare. Il nostro benessere domestico dipendeva direttamente dalla situazione politica.

Ricordo ancora – doveva essere il 1993 o il 1994 – di aver visto nella vetrina di un grande magazzino un cappotto rosso alla moda che volevo disperatamente. Pregai mio padre di comprarmelo, ma invano. “Non abbiamo abbastanza soldi”, fu la sua risposta. Fu un giorno triste. Non solo per il cappotto, ma per tutte le cose che non potevo avere. Volevo cose vere, colori, profumi, viaggi, vere libertà che potessi toccare, non solo immagini. Volevo una stanza tutta per me. Volevo poter viaggiare davvero, invece di vedere il mondo attraverso un televisore. Sognavo una vita vera che fosse tutta mia, ma vivevo in una piccola casa, in una piccola città, in un tempo in cui ogni giorno al di fuori dei nostri confini accadevano eventi enormi e sconvolgenti.

La storia stava cambiando. Lo fece davanti ai nostri occhi e a una velocità disarmante. Mi abituai a un vuoto e a una vastità spaventosi, alla scomparsa delle cose che mi piacevano, e diventai indifferente. Sembra terrificante l’idea di vivere con la sensazione costante che ogni cosa possa finire da un giorno all’altro. Ma ci dimostrammo incredibilmente forti, capaci di adattarci a tutto alla velocità della luce. In un mondo che cambiava costantemente imparammo a proteggere le nostre piccole oasi.

Questa “vita instabile” era l’opposto di una “vita normale”. Una vita normale si basa su stabilità e senso di continuità. Quando vivi nel caos e la normalità è fuori portata, tendi a ingigantirla. In un’epoca in cui la realtà è costantemente costruita e poi distrutta come la scenografia di un teatro a ogni nuovo atto, ci si pongono grandi domande metafisiche: domande sul senso e sull’assurdità della vita, e su quella parte del nostro dna ancora da decifrare.

I ricercatori hanno una spiegazione “epigenetica” per la trasmissione dei traumi psicofisici: questi lasciano tracce nei geni degli individui che ne sono colpiti, i quali li trasmettono ai loro discendenti. Mio padre non volle mai parlare dei suoi traumi, ma lo stesso il suo trauma è diventato il mio. Non volle mai parlare di come i traumi distorcono la realtà. Non parlò mai della morte, a parte dire che era tempo di cacciarla via, il più lontano possibile. Io invece amavo parlare della morte, e ancora di più dopo che quest’ultima aveva assunto un nuovo significato nel mio quotidiano. La morte regnava sulle nostre vite e gli dava prospettive completamente nuove. Mi ha insegnato una lezione importante, per quanto ironica, non sul nulla che regna nell’aldilà, ma sull’abbondanza che popola il presente. La mia relazione con la morte era artistica e filosofica. Ma a quei tempi c’erano persone che sapevano tutto della morte. Alcune erano capaci di uccidere.

Era l’inizio dell’estate del 1998. Il sole era alto e mia madre stava cominciando il suo “turno giornaliero”: lavare, cucinare, pulire. Mio padre era appena tornato dal mercato, dov’era andato a vendere uova, silenzioso e assente, sotto il peso del caldo soffocante. Stava leggendo il giornale. “Comincia”, disse. Mia madre chinò il capo e andò in cucina a preparare il caffè.

Qualche giorno dopo, passò di lì una mia amica d’infanzia. “Vado in guerra”, mi disse, “potremmo non vederci mai più”. Non mi sembrava una combattente: era carina, capelli biondi e occhi blu, molto attraente. Abitava di fianco a noi e la conoscevo da sempre. Molte volte avevamo parlato della rivoluzione e giocato a fare le “eroine”. La rivoluzione si riserva l’onore di divorare i suoi stessi figli. Per le figlie, nemmeno questo basta: rimangono dietro la porta, come scope di saggina. Questa bellissima, entusiasta ragazza di sedici anni scappò nell’entroterra di notte per unirsi alla guerriglia kosovara. Qualche anno dopo ci hanno detto che si era suicidata.

Inimmaginabile
Le nostre strade si divisero quell’estate. Lei se ne andò, io rimasi. Così la storia dà forma a somiglianze e differenze. Forse, a volte, la rivoluzione si riserva l’onore di divorare anche le sue figlie. Ma quando lo fa, questo succede sui campi di battaglia, non in angoli di sogno come il mio. Mentre le persone là fuori erano immerse in un vero dramma, io rimasi dentro, con i miei libri. Fu il mio modo di sopravvivere a quella corrente impetuosa.

La linea di confine tra quelli che hanno fatto la rivoluzione e quelli che l’hanno solo sognata si trovava pochi chilometri dietro casa nostra. Ma quello che non possiamo immaginare non può succedere finché non si verifica realmente. Ero protetta dalla mia incapacità d’immaginare: non potevo credere che la nuova guerra sarebbe stata così devastante, che l’orrore sarebbe andato oltre l’inimmaginabile. Ma il 1999 portò con sé una chiarezza senza scrupoli: la vera entità della tragedia e l’assurdità dell’esistenza, della storia, del destino. Fu una discesa agli inferi, nella più completa mancanza di umanità. Fu l’incontro con il fascino del Male.

La sera del 24 marzo 1999 io e mio padre ascoltavamo un notiziario della Bbc sull’inizio dei bombardamenti della Nato in Serbia su una vecchia radio che mio padre aveva dai tempi dell’università. “È l’inizio della fine”, mi disse bevendo raki, “dicono che finirà presto”. Poi tacque di nuovo, l’orecchio incollato alla radio. Ascoltai anch’io, che avevo indosso il mio pigiama giallo. Non riuscivo a dormire. Quella fu l’ultima notte in cui dormii con il mio pigiama, a casa mia. Era una notte splendida, ma senza stelle.

Molte persone dormirono tranquille quella notte, protette dall’inimmaginabile. Molte altre ne erano già state inghiottite. Quando mi svegliai la mattina dopo, sentivo delle voci di donne in salotto. Le donne della mia città erano sempre state le prime ad apprendere e a far circolare le notizie. Sconvolte, parlavano di atrocità, omicidi, stupri, espulsioni da parte delle forze militari e paramilitari serbe avvenute quella notte. Atrocità che sarebbero continuate sistematicamente fino alla metà di giugno di quell’anno maledetto.

La nostra casa si riempì di decine di profughi. Quello stesso giorno ci spostammo tutti in un’altra abitazione, poi in un’altra e in un’altra ancora, nomadi in pericolo di vita che cercavano di allontanare la morte il più possibile. La prima notte di bombardamenti divise le nostre vite in due: prima e dopo l’orrore. L’inimmaginabile diventò immaginabile, e rimase tale. A separare le due vite, un vuoto di memoria, il mistero di come, in una notte, fossimo potuti diventare niente e nessuno.

La guerra era finita, ma il peggio doveva ancora venire. I caduti dormivano cullati dai versi dei gufi, i sopravvissuti tornarono a casa. I morti non serbano rancore, mentre i vivi devono imparare a distaccarsene, imparare la pace e dimenticare la guerra. Per me, il giorno peggiore della guerra fu il primo giorno della liberazione. Mi sentivo esausta come non mai. Mia madre mise in ordine la casa, rimasta abbandonata per mesi. Mio padre andò al vecchio posto di lavoro, la fabbrica, e si guardò intorno. Il gigante di metallo giaceva lì, vuoto, depredato.

Io dissotterrai i miei libri e il mio primo manoscritto di poesie. La terra li aveva conservati come conserva le ossa dei morti. La casa era ancora lì, ogni cosa era ancora lì, ma le nostre anime faticavano a stare al passo.

(Traduzione di Elena Pioli)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia. Fa parte del progetto Archipelago Yugoslavia, della rete Traduki. È pubblicato in collaborazione con la S. Fischer Stiftung e Voxeurop.

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