23 aprile 2015 15:41
Roma, ottobre 2008. Sede dell’Associazione nazionale volontarie del Telefono Rosa, organizzazione no profit che assiste le donne vittime di violenza. (Simona Ghizzoni, Contrasto)

“In un mondo perfetto non si lancerebbe alcuno stigma sull’essere una vittima di una violenza sessuale”. Comincia così un editoriale dell’autrice statunitense Jessica Valenti di qualche giorno fa. In quel mondo perfetto e inesistente, le vittime potrebbero raccontare quello che hanno vissuto senza temere di essere insultate, umiliate o minacciate.

I giornalisti potrebbero usare i loro nomi senza paura di esporle a rischi. Ma non viviamo in un mondo perfetto né in uno che gli si avvicini e quindi, secondo Valenti, dobbiamo proteggere l’anonimato delle vittime.

Il caso del presunto stupro di gruppo nell’università della Virginia ha riacceso la discussione su come raccontare e come non sbagliare, su come non sacrificare il rigore in nome dell’empatia e sull’ipotesi di raccontare solo le storie di chi non richiede l’anonimato (la Chicago taskforce on violence against girls & young women ha curato una “cassetta degli attrezzi” per i giornalisti).

Parlare di stupro è molto difficile. Non solo a causa della cosiddetta cultura dello stupro e della tendenza a prendersela con le vittime. Quando le vittime sono donne (nella maggior parte dei casi) ci sono i pregiudizi: “se l’è cercata”, “la gonna era troppo corta” o “la camicia troppo scollata”. Quando sono uomini si aggiunge l’incredulità di genere e lo stigma della debolezza: “Ma come, non ti sei ribellato?”.
Il potere è un elemento cruciale non solo nello stupro in sé ma nella minaccia, esplicita o taciuta, del dopo. “Parlerai? Racconterai quello che è successo? Stai attenta, la troia sarai sempre tu e il prezzo più alto lo pagherai comunque tu” (e questo accade perfino negli scandali sessuali senza che vi sia abuso o violenza: se il fedifrago è lui, lo scandalo investirà pure la fidanzata o la moglie che non ha fatto nulla, se non sposare un fedifrago).

Per molto tempo nell’ordinamento italiano la violenza carnale è stata un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona

Le vittime spesso subiscono più di una violenza e non solo quella originaria. Per molto tempo nell’ordinamento italiano la violenza carnale è stata un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona.

Ma ci sono inciampi pericolosi anche sul fronte giusto, su quello che vuole opporsi allo stigma. E forse sono più pericolosi dei primi, perché offrono un lato debole, un pretesto per mantenere le vittime “al posto loro”.

È comprensibile che spesso sia necessario essere brutali e grossolani per opporsi a un pregiudizio radicato, che si tenda a forzare e a usare anche argomenti non abbastanza forti perché il fine è comunque buono. Tuttavia questo modo di procedere è discutibile non solo in via di principio ma anche da un punto di vista strategico: rendersi attaccabili è rischioso perché si finisce per cadere anche quando meriteremmo la vittoria.

La presunzione d’innocenza
Spesso sembra non valere ciò che vale per gli altri crimini, ovvero la presunzione di innocenza e la necessità di dimostrare che lo stupro ci sia stato. Che sia difficile e che il clima sia a volte “impossibile” non dovrebbe eliminare queste due premesse, perché il risultato sarebbe peggiore non solo per la procedura penale ma in ultima analisi anche per la corretta ricostruzione degli avvenimenti e dunque per la punibilità di tutti gli stupri.

Non riuscire a dimostrare uno stupro, poi, non implica che il fatto non sia avvenuto ma solo che è impossibile dimostrarlo, e quindi non vuol dire necessariamente che la vittima presunta abbia raccontato una bugia ma solo che non siamo riusciti a eliminare il cosiddetto legittimo dubbio (si pensi al caso Bill Cosby).Succede in molti reati e presunti tali. A volte in modo eclatante (O.J. Simpson, Robert Durst), ma la necessità di dimostrare la colpevolezza di qualcuno rimane la meno peggiore delle strade. Perché provare l’innocenza di una persona è un procedimento penale atroce, e perché è meglio rischiare di non riuscire a condannare un colpevole che mandare un innocente in galera. La rabbia della vittima o di chi ha a cuore la giustizia è comprensibile, ma la rabbia di rado ci consiglia bene. E se dovessimo seguire la collera non sarebbe allora meglio mandare qualcuno a picchiare il carnefice? Sarebbe più rapido, eviterebbe il processo e le domande spesso ripugnanti e impietose.

La rabbia della vittima o di chi ha a cuore la giustizia è comprensibile, ma la rabbia di rado ci consiglia bene

Dimostrare è difficile perché spesso il disaccordo sta nell’intenzione (consenso esplicito o implicito) e non si tratta solo di verificare se un rapporto sessuale (imposto) sia avvenuto o meno.

Anche un furto si distingue da un regalo attraverso la stessa sottile linea dell’intenzione. E se io dico che tu mi hai regalato quell’orologio Daytona e tu sostieni che te l’ho rubato, come risolviamo il dilemma?

Prima di essere travolta dallo sdegno aggiungo: lo stupro non è un orologio, ma l’analogia vuole illuminare la difficoltà di “dimostrare” le intenzioni e di ricostruire gli avvenimenti per poi condannare o assolvere.

Anche una volta stabiliti alcuni princìpi, purtroppo non ancora chiari a tutti, provare che sono stati violati potrebbe non essere facile o possibile.

“No” non vuol dire “sì” (a meno che non sia un gioco predefinito, negli altri casi vale il senso letterale del diniego) e il consenso è cruciale: non vuol dire che ogni volta dobbiamo firmare un contratto come chiede Mr. Grey ad Anastasia in Cinquanta sfumature di grigio, ma che il consenso è una condizione necessaria e può essere revocato in qualsiasi momento. E se non è stato specificato in precedenza, sarebbe meglio evitare casi in cui non sia possibile esprimerlo, come quando lui è abbastanza lucido e lei completamente sbronza (ma sull’alcol e lo stupro dovremmo tornare).

I consigli per evitare uno stupro rinforzano lo stigma?
Ogni volta che si parla di “consigli” (come: “non ti ubriacare in un contesto non familiare”, “non uscire da sola di notte”, e così via) una reazione comune è di condannarli come giustificazioni preventive degli stupratori. È facile capirne le ragioni, ma gli effetti collaterali negativi rischiano di essere più gravi del male che si vuole evitare, ossia alimentare la cultura della colpa e della istigazione, che va giustamente annientata.

Quando si dice di non lasciare la porta di casa aperta per evitare di essere derubati si sta forse giustificando l’eventuale furto?

Insegnare o pensare che difendersi sia utile non deve implicare una giustificazione dell’aggressione (ma sembra anche bizzarro non gestire il rischio, cercando di diminuirlo, perché l’invito a farlo potrebbe essere male interpretato).

Il pensiero “possiamo fare quello che ci pare senza dover essere stuprate (aggredite, uccise, fatte a pezzi)” rimane un principio giustissimo. Ma pure avere il senso della realtà è utile. Perciò mentre costruiamo il mondo ideale sarebbe meglio chiudere la porta di casa e cercare di evitare situazioni pericolose perché attraversare la strada a occhi chiusi, perfino sulle strisce pedonali, non ha mai impedito agli automobilisti di investire i pedoni.

Considerando poi che molte violenze sono compiute da persone che conosciamo, saperlo, essere in grado di capire e di evitarle, non è così irrilevante.

Insomma, la demolizione dei “te la sei cercata” non dovrebbe sacrificare la conoscenza e la valutazione dei rischi. E se siamo abbastanza bravi dovremmo poter avvertire le potenziali vittime senza essere accusati di ammiccare al carnefice, e magari ricordarci che la reazione passa anche tramite l’empowerment di chi è considerato debole e indifeso. La prima condizione del potere – quello buono, non quello abusato nella violenza sessuale – è conoscere la realtà.

Mentre impariamo a parlare alle vittime e delle vittime, ricordiamoci che lo stupro ha a che fare con il sesso come l’alcolismo ha a che fare con il piacere enogastronomico (forse ancora meno).

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